Impresa
& Stato n°46
IL LAVORO INDIPENDENTE
NEGLI ANNI NOVANTA
di
Paolo
Barbieri
L’analisi quantitativa
dei dati conferma che la chiusura della struttura occupazionale italiana
non può essere collegata alla diffusione di questo fenomeno.
La
ricerca condotta per conto della Camera di Commercio ha preso in esame
i lavoratori autonomi senza dipendenti, cercando di delinearne, da un punto
di vista sia quantitativo che qualitativo (si veda l’articolo di Magatti
e quello di Corvo), dati e caratteristiche principali.
In questo scritto ci focalizzeremo
sui risultati delle analisi quantitative, elaborate a partire dai dati
a disposizione: l’archivio INPS dei lavoratori autonomi liberi professionisti
e a prestazione coordinata e continuativa (INPS 10%) e i dati individuali
di ogni secondo trimestre dal 1993 al 1996 delle Rilevazioni Trimestrali
sulle Forze Lavoro (RTFL). Tutti i dati oggetto d’analisi ci sono stati
resi disponibili in conseguenza degli accordi Sistan esistenti fra Camere
di Commercio e Istat e grazie all’Ufficio Studi della Camera di Commercio
di Milano, che ha seguito da vicino l’intera ricerca.
Nel corso di questo scritto,
dopo un’introduzione per presentare i principali problemi di analisi che
si pongono a chi studia le forme di lavoro indipendente oggi, presenteremo
dapprima i risultati delle analisi sui dati RTFL, quindi verificheremo
la natura e le caratteristiche degli attuali autonomi ‘coordinati e continuativi’,
con particolare attenzione metodologica ai giovani che attraverso questi
tipi di contratto si avvicinano al mercato del lavoro.
UNA DISTINZIONE
Il lavoro ‘indipendente’
oggi in Italia assomma a circa il 28% della forza lavoro occupata. Se consideriamo
solo i lavoratori autonomi in senso stretto, tale quota scende al 20%,
diminuendo di poco se limitiamo la nostra osservazione ai soli autonomi
senza dipendenti. In linea generale, possiamo ricordare come tale quota
sia una fra le più elevate in Europa (solo Spagna e Grecia hanno
quote altrettanto elevate) a dimostrazione del fatto che il lavoro indipendente
costituisce un mondo a sé all’interno del più complessivo
mondo del lavoro italiano. Si tratta di un mondo che ancora oggi è
assai poco conosciuto anche se l’interesse scientifico e sociologico verso
di esso è in rapida crescita, in conseguenza delle trasformazioni
che stanno avvenendo all’interno del modo di produzione e di organizzazione
della produzione e dei servizi in Italia.
Analizzando il lavoro autonomo,
o indipendente o, ancora, ‘autoimprenditoriale’, è necessario tenere
ben presente che stiamo discutendo di almeno tre realtà economico-sociali,
oltre che professionali, radicalmente differenti fra loro. Potremmo quasi
parlare di tre mondi separati del lavoro e della produzione, popolati da
attori che non necessariamente hanno tratti in comune fra loro, ma soprattutto
mondi non sempre e non necessariamente intercomunicanti. In altri termini,
ciò che è interessante oggi è stabilire innanzitutto
chi sono i soggetti che in questi spazi sociali e produttivi agiscono.
Si tratta di un obiettivo
‘minimo’ ma essenziale in quanto la velocità dei processi di trasformazione
capitalistica ha (troppo) spesso portato parte degli osservatori a considerare
il lavoro autonomo come ‘la nuova frontiera’ delle trasformazioni dei rapporti
d’impiego post-industriali. Le trasformazioni importanti che stanno avvenendo
nel mondo del lavoro e della produzione italiani sicuramente riguardano
anche il lavoro autonomo e autoimprenditoriale, ma vedremo come sia necessaria
una certa dose di prudenza nel vedere il ‘nuovo’.
Le tre figure socioeconomiche
che caratterizzano il lavoro indipendente oggi in Italia sono rappresentate
da:
1) gli imprenditori, cioè
coloro i quali hanno un certo numero di dipendenti sottoposti al loro controllo
e per i quali possono stabilire le modalità in cui avviene la prestazione
d’opera;
2) i self-employed ‘puri’,
o liberi professionisti, senza dipendenti, anche se talora coadiuvati dai
membri della famiglia;
3) i cosiddetti self-employed
‘sub-contractor’, o sub-contractor tout court, anch’essi senza alcun dipendente
e operanti in proprio sul mercato, più o meno coadiuvati dai membri
dell’unità familiare.
Quest’ultima è la
nuova figura emergente nel mercato del lavoro, e di sicuro quella di maggiore
interesse, per la novità che potrebbe (usiamo appositamente il condizionale)
costituire, nelle condizioni di produzione ‘post-fordiste’; per questo
motivo dunque concentreremo l’analisi sulla distinzione fra self-employed
(puri) e sub-contractor. Si tratta di una differenza di fondamentale rilevanza
sociologica non solo per i suoi effetti di mercato del lavoro, ma anche
per qualunque corretta valutazione dell’evoluzione del lavoro (e delle
nuove forme di lavoro) nell’epoca ‘postfordista’.
Il self-employed (puro)
è un libero professionista a tutti gli effetti, qualificato per
il numero di clienti che raccoglie e spesso anche per l’ampiezza territoriale
del suo network di clientela, che è al tempo stesso il suo ‘giro
d’affari’ e il suo capitale sociale. Per queste figure, il più delle
volte, proprio l’ampiezza del network sociale così come di quello
geografico rappresentano la miglior proxy del valore professionale: si
tratta infatti di professionisti pluriclientelari, i quali realizzano strategie
di competizione basate in primo luogo sulla qualità del servizio
offerto. Tale strategia professionale al tempo stesso è garanzia
della loro indipendenza ed autonomia e, come egemonia professionale, costituisce
a sua volta una sicurezza di mercato per i professionisti.
Al contrario del self-employed
(puro), il sub-contractor ha pochissimi datori di lavoro, quando addirittura
non dipende da un unico monocommittente.
Questo fatto si traduce
in una radicale differenza di status sociale ma anche di posizione sul
mercato, intendendo con ciò sia il mercato dei servizi in cui entrambe
le figure operano, sia lo specifico mercato del lavoro. Questa differenza
di posizione comporta anche un ben diverso grado di copertura rispetto
all’esposizione al ciclo economico. Il self-employed (puro) infatti è
molto più coperto, anche in caso di recessione, da qualsiasi mutamento
negli andamenti economici, al contrario del sub-contractor, il quale invece
dipende dal suo committente e dalla forza economica di questo, rappresentando
per esso un fattore di flessibilizzazione dei costi produttivi e, sovente,
un elemento di riduzione (impropria) del costo del lavoro. La ‘strategia’
di mercato (se così possiamo definirla, impropriamente, dato che
si tratta di una situazione spesso più subita che scelta) dei sub-contractor
infatti, si risolve per lo più in una mera competizione sul prezzo
del lavoro svolto, il che li equipara a dipendenti irregolari, precari,
soggetti ad una subordinazione di fatto.
Come si introduce questa
distinzione, nelle nostre analisi?
Tutti i confronti internazionali
mostrano come i self-employed siano per lo più adulti. Ciò
si spiega col fatto che per essere liberi professionisti è necessario
avere reti di clientela, che in genere sono il prodotto di anni di lavoro
dipendente, precedenti alla ‘messa in proprio’. In effetti si potrebbe
parlare di un’ipotesi ‘spin-off’ dei self-employed. Questo si realizza
attraverso un aumento relativo del lavoro indipendente rispetto al lavoro
dipendente: il rapporto, come si vede bene in Figura
1, è in costante crescita a partire dalla fine degli anni ‘70,
cioè con il tramonto di quello che è stato definito dalla
letteratura come il modo di produzione ‘fordista’. Sappiamo, dall’analisi
dei dati Istat sulle Forze di Lavoro, che le categorie professionali in
cui negli anni ‘90 la presenza di autonomi è più forte sono
da un lato i gruppi dei tecnici ad elevata specializzazione e dei liberi
professionisti dotati di un elevato capitale umano e dall’altro gli addetti
al commercio e alle vendite in genere, ambulanti compresi.
La struttura occupazionale
del lavoro autonomo in Italia sembra dunque polarizzarsi in modo abbastanza
netto, mentre le tradizionali professioni autonome operaie e artigianali
si posizionano su un livello tutto sommato stabile e intermedio fra le
due ‘ali’ dei molto qualificati e degli addetti alle vendite. Se si analizzano
poi le variazioni nelle proporzioni di autonomi/dipendenti nel corso degli
anni ’90, si osserverà un interessante fenomeno di stabilità
dei trend di crescita: le professioni ‘scientifiche’ o comunque ad elevata
specializzazione (dirigenti privati, specialisti scientifici, ingegneri,
architetti, docenti) e le professioni tecniche cosiddette ‘intermedie’
registrano trend in qualche modo più ‘sicuri’ di crescita della
presenza di autonomi rispetto ai dipendenti. Lo stesso andamento si verifica
anche per le professioni relative alla fornitura di servizi alla persona
e ai consumi (istruzione, sanità, servizi alle famiglie).
Questi i mutamenti per quanto
riguarda la composizione del lavoro indipendente negli anni a noi più
vicini: ma che accade dello ‘stock’ del lavoro autonomo? Da quali figure
è costituito? Quali sono le sue caratteristiche anagrafiche, di
genere e di qualificazione professionale?
Le tabelle 1 e 2 riportano
i valori dei coefficienti beta per una serie di regressioni logistiche
in cui la variabile dipendente è sempre l’essere lavoratore autonomo
(15-65enne, senza dipendenti). Tutte le regressioni escludono gli occupati
nel settore agricolo, mentre la categoria di riferimento è costituita
dagli occupati dipendenti.
Osserviamo dapprima i dati
riportati nei quattro anni di tabella 1. I lavoratori
autonomi sono individui maschi con un capitale umano elevato, lavorano
prevalentemente al sud, ma soprattutto sono adulti. L’associazione con
la variabile età, divisa in coorti decennali, è nettissima,
altamente significativa e crescente al crescere della classe di età.
Il dato si riconferma per tutti gli anni ’90. I lavoratori autonomi in
Italia, dunque, non sono giovani al loro primo ingresso ‘di servizio’ nel
mercato del lavoro: si tratta invece di uomini adulti, capifamiglia, dotati
di un adeguato livello di conoscenze educative ma soprattutto di un capitale
umano fatto anche di esperienza di lavoro precedente. L’associazione negativa
e altamente significativa con l’essere stati precedentemente disoccupati
è indicativa di questa caratteristica del lavoro autonomo ma anche
dello stesso mercato del lavoro degli autonomi: non si tratta di un’area
residuale o di outsiders, che ‘si inventano’ un’attività perché
non trovano un impiego stabile e sicuro, ma al contrario si tratta di persone
esercenti attività di ‘piccola borghesia’ classica, così
come anche artigiani e liberi professionisti solidamente affermati nel
loro lavoro.
Il controllo per l’anzianità
di costituzione dell’attività economica (misurata con una dummy
per le imprese costituitesi da 0 a due anni) è indicatrice della
stabilità dell’attività in questione. Sappiamo infatti dagli
studi di economia industriale che i due anni di vita rappresentano per
un’impresa la ‘soglia di rischio’ superata la quale le probabilità
di mortalità iniziano a decrescere. Il coefficiente negativo per
tale dummy indica proprio come non ci troviamo di fronte a imprese di nuova
costituzione, e letto con il segno negativo annesso all’essere precedentemente
disoccupati (disoccupati nello stesso periodo l’anno precedente l’intervista)
indica come questi lavoratori non possano essere ritenuti ‘outsider’ del
mercato del lavoro, nuovi ‘precari’ in un lavoro formalmente autonomo ma
di fatto dipendente dal mercato. Il controllo per i quattro anni riportati
rappresenta un’ulteriore conferma della ‘robustezza’ e dell’affidabilità
dei risultati, già ampiamente assicurata dal numero di casi presenti.
Del resto, un minimo di
‘immaginazione sociologica’, o anche solo di capacità di leggere
i dati e le caratteristiche della struttura socioproduttiva italiana, consentono
di comprendere questo risultato: l’ipotesi ‘spin-off dei self employed’
sembra essere la chiave più adatta per comprendere la diffusione
del lavoro indipendente in Italia. Una solida esperienza professionale
alle spalle, una dotazione di capitale umano di base, risorse sociali adeguate
e sviluppate in anni di lavoro, consentono ad individui motivati e intraprendenti
di ‘puntare su se stessi’ e di mettersi in proprio.
Ovviamente, le condizioni
del sistema economico e produttivo d’intorno esercitano un’influenza non
indifferente sulle chance di rendersi indipendenti. Le trasformazioni del
sistema fordista hanno aperto possibilità non trascurabili in seguito
all’esternalizzazione di larga parte delle attività precedentemente
internalizzate in imprese a forte integrazione verticale. Lo si vede osservando
i dati riportati in tabella 2, in cui sono stati
esclusi dalle analisi tutti gli addetti alle vendite. La loro importanza
quantitativa, infatti, rischiava di oscurare fenomeni forse minori dal
punto di vista numerico, ma non per questo meno interessanti in quanto
più vicini ai nuovi sviluppi del modello produttivo postfordista.
Vediamo quindi come la rilevanza
della dimensione territoriale, escludendo gli addetti alle vendite, cioè
larga parte delle tradizionali attività di petty bourgeoisie commerciale,
si capovolga rispetto ai dati di tabella 1. La ‘terza Italia’ risulta nettamente
favorita come area di sviluppo delle professioni autonome. In altri termini,
escludendo le più tradizionali attività di commercio, le
aree a maggior sviluppo di self employment sono le aree di economia diffusa,
in cui condizioni economico-produttive e condizioni di vita sono strettamente
interconnesse. In queste situazioni, in cui la cultura locale diffusa valorizza
la realizzazione individuale attraverso forme di ‘autoimprenditorialità’
radicata nei legami socioeconomici del territorio - e avendo anche presente
l’assoluta carenza di chance di mobilità sociale ascendente che
in Italia si realizza all’interno del lavoro subordinato dipendente - è
oltremodo realistico che gli individui scelgano di realizzare autonome
strategie di promozione sociale attraverso la costituzione di attività
economiche e/o professionali indipendenti.
Resta ora da verificare
cosa accade qualora si considerino i soli autonomi senza dipendenti addetti
alle vendite, la categoria professionale in assoluto più presente
fra i self-employed. La tabella 3 risponde a
questo interrogativo.
Anche qui, come nelle precedenti,
il peso del capitale umano è considerevole sebbene non sempre significativo
ad un livello accettabile. Ciò che invece muta radicalmente è
il genere: più presenti fra gli addetti alle vendite autonomi sono
le donne, in particolare nel meridione. Si tratta, è abbastanza
evidente, di piccole e piccolissime attività di commercio tradizionale,
esercitate da donne adulte, non capofamiglia, quale possibile sostegno
integrativo al reddito familiare. Gli anni di esperienza nell’attività
in oggetto non appaiono particolarmente significativi. Da questo punto
di vista, questo come anche i precedenti modelli di regressioni logistiche
presentati sono in effetti poco parsimoniosi, in quanto alcune delle covariate
introdotte, non particolarmente significative dal punto di vista statistico,
avrebbero dovuto essere eliminate. Non lo si è fatto in quanto l’assenza
di qualunque effetto diretto, oltre che di significatività statistica,
associato alle variabili in questione, è indicativo del fatto che
le forme di lavoro autonomo non costituiscono oggi una forma di ingresso
di servizio sul mercato del lavoro per giovani ‘outsider’ o precari.
I DATI INPS 10%
In questa parte del lavoro
cercheremo di delineare meglio quali fattori possono spiegare lo sviluppo
e la diffusione sul territorio delle nuove forme di impiego autonomo e
pseudo-autonomo. Per farlo ricorreremo ad un dato del tutto nuovo, non
ancora utilizzato in alcuno studio, e realizzeremo un’analisi di tipo ecologico,
cioè territoriale. Si tratta della banca dati Inps sui contribuenti
al fondo previdenziale lavoratori autonomi-collaborazioni coordinate e
continuative e prestazioni professionali. Di recente istituzione, tale
fondo raccoglie i versamenti contributivi di tutti coloro che effettuano
sia prestazioni di lavoro autonomo in quanto liberi professionisti, sia
prestazioni di lavoro ‘solo formalmente’ autonomo, cioè le posizioni
di quanti operano in modo ‘coordinato e continuativo’ per un datore. Selezionando
i soli ‘coordinati e continuativi’ giovani, e aggregando il dato per province,
si è costruita la variabile dipendente. Questa scelta è stata
fatta per depurare il dato da tutte le posizioni contributive inerenti
l’esercizio delle libere professioni o frutto di collaborazioni e consulenze
di lavoratori, anche dipendenti, altamente qualificati o in possesso di
conoscenze e skills specifici, e arrivare così ad analizzare i meccanismi
che possono dar conto dello sviluppo di nuove forme di impiego ‘flessibile’.
I DATI OSSERVATI:
LE VARIABILI INDIPENDENTI
La letteratura economica
internazionale che ha elaborato macroindicatori del mercato del lavoro
utilizza sostanzialmente come proxy della rigidità dello stesso
misurazioni e valutazioni della possibilità istituzionale di dismettere
la forza lavoro considerata in eccesso, nella esplicita convinzione che
meno vincoli esistano alle scelte di hiring e firing delle imprese, tanto
più un mercato del lavoro sarà flessibile (OCDE, 1990, 1994).
Nelle ricerche internazionali
sul mercato del lavoro che utilizzano microdati individuali, gli effetti
di rigidità vengono operazionalizzati in modo indiretto, attraverso
variabili osservate come il tasso di attività, distinto per coorti
o per segmenti di popolazione (giovani, donne, categorie ‘svantaggiate’),
le durate medie dei periodi di disoccupazione, i tassi di disoccupazione
di lungo periodo (oltre i 12 mesi), i flussi entro e fuori la condizione
di senza lavoro, o ancora ricorrendo, per gli stessi indicatori, agli odds
relativi fra categorie di popolazione. Questa è stata la strada
seguita anche nel presente lavoro.
Le variabili indipendenti
considerate sono state realizzate, su base provinciale, utilizzando una
serie di fonti istituzionali avendo l’accuratezza di scegliere i dati più
aggiornati a disposizione. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, si
è fatto ricorso ai microdati individuali della rilevazione trimestrale
delle forze lavoro Istat (d’ora innanzi RTFL) del periodo aprile-giugno
1996. La scelta di ricostruire gli indicatori necessari a partire dai microdati
RTFL individuali, successivamente aggregati per province, ha consentito
una notevole flessibilità e accuratezza nella realizzazione delle
variabili impiegate, altrimenti non disponibili, e ha permesso di tenere
sotto controllo la dimensione temporale dei fenomeni, in quanto sia la
banca dati Inps 10% sia la RTFL si riferiscono al 1996. La RTFL non costituisce
comunque l’unica fonte utilizzata. In particolare, si è fatto ricorso
ai dati di fonte Banca d’Italia per quanto riguarda gli investimenti su
base provinciale (dati di maggio 1997), alle valutazioni al 1994 fornite
dall’Istituto Tagliacarne per i redditi da lavoro provinciali, ai dati
Prometeia-Inps per i tassi di sviluppo e natimortalità delle imprese,
aggiornati al 1995, e infine ai dati Istat per le Unità Locali delle
imprese.
Quella che viene proposta
è quindi un’analisi di tipo cross-sectional, ma condotta su dati
del tutto nuovi e, nella quasi totalità, assolutamente aggiornati.
MERCATO E LAVORO
AUTONOMO
La distribuzione dei lavoratori
autonomi a prestazione coordinata e continuativa in Italia (a fine 1996)
è evidenziata in tabella 4. La Lombardia
si rivela immediatamente la regione in cui la quota di autonomi coordinati
e continuativi, sia in valori assoluti che in % sugli occupati complessivi,
è fra le più elevate.
Per analizzare quelli che
potrebbero essere i ‘nuovi precari’ è quindi per lo meno necessario
selezionare i soli giovani (si veda tab. 5).
Osserviamo innanzitutto come questi rappresentino meno della metà
dell’intera popolazione (circa 880.000 soggetti ad aprile 1997) di self-employed
presente in banca dati, il che costituisce da un lato un indicatore del
fatto che, per i giovani, l’ingresso nel mercato del lavoro italiano sembra
restare ancora difficile, ma dall’altro rivela anche che quando si considerano
i ‘coordinati e continuativi’ si fa riferimento ad una popolazione che
nel complesso ha le stesse caratteristiche del resto della forza lavoro,
e che quindi non può essere considerata nel suo insieme una sorta
di nuova forza lavoro ‘precarizzata’.
Ciò detto, vediamo
comunque come la stragrande maggioranza di tali nuove posizioni occupazionali
(ripetiamo: per i ‘giovani’ autonomi) sia concentrata in un terzo del paese,
il settentrione, ma soprattutto come quasi i due terzi del totale si ritrovino
nelle aree di forte sviluppo regionale e di distretti industriali. Nell’ordine
Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana sono le regioni in cui è
maggiore il numero di giovani occupati con contratti di collaborazioni
coordinate e continuative, alle quali si aggiunge il Lazio per il peso
che servizi e terziario pubblico hanno in quella regione.
Ma quali sono i meccanismi
che spiegano la diffusione territoriale di queste nuove forme di impiego,
che almeno per la forza lavoro giovanile possono approssimare i nuovi rapporti
di lavoro ‘pseudo-autonomi’ post-fordisti?
La tabella
6presenta alcuni modelli di regressione
lineare in cui la dipendente è costituita dalla percentuale di giovani
occupati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa sul
totale degli occupati. L’analisi è condotta a livello provinciale.
I risultati dei modelli
sono oltremodo chiari: la diffusione delle nuove forme di lavoro subordinato
atipico, flessibili e - formalmente - indipendenti, cioè del lavoro
autonomo di ‘seconda generazione’ (Bologna, Fumagalli, 1997), così
definito per distinguerlo dalle attività di petty bourgeoisie tradizionali,
sono funzione del livello degli investimenti e del grado di attività
economica e produttiva realizzata nel territorio. Investimenti, imprese
(dei servizi) e lavoro, creando sviluppo creano le condizioni per un complessivo
benessere economico, al quale è collegato anche il livello del self-employment.
In negativo, l’elevato e significativo valore espresso dal tasso di disoccupazione
di lungo periodo esprime la contraddizione esistente fra aree di depressione
economica, scoraggiamento delle attività produttive e self-employment.
Il lavoro, dunque, va innanzitutto
dove già c’è lavoro, dove esistono le condizioni per una
crescita economica. Una vecchia lezione, talvolta dimenticata...
Inserendo direttamente,
nella regressione originale, le dummies territoriali si vede come le aree
di piccola e media impresa, proprie delle economie ‘sociali’ dei distretti
industriali della terza Italia, sono quelle in cui la correlazione con
lo sviluppo del self-employment è maggiore, con ciò confermando
i risultati precedentemente tratti dall’analisi delle RTFL.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Possiamo concludere ribadendo
come dalle analisi proposte la struttura del lavoro autonomo in Italia
non presenti alcuna sostanziale differenziazione rispetto alla struttura
dell’occupazione stabile dipendente. Dal punto di vista dei regimi occupazionali
questo dato invalida le ipotesi che tendono a leggere la diffusione del
self-employment come un portato vuoi della chiusura delle relazioni d’impiego,
cioè della difficoltà ad accedere ad un mercato del lavoro
dipendente regolare troppo protetto e dunque chiuso ai nuovi ingressi,
vuoi come un mercato del lavoro ‘secondario’, ristretto o limitato agli
outsider, in prevalenza giovani e donne esclusi dal mercato del lavoro
‘primario-garantito’ dipendente. In altri termini: la questione del regime
occupazionale italiano e della (effettiva) chiusura della struttura occupazionale
che ne discende non può essere direttamente e causalmente collegata
alla diffusione del lavoro autonomo nel nostro paese, come pure è
stato fatto (OECD, 1993); ma nemmeno il mondo del lavoro autonomo può
essere letto come l’area di elezione delle nuove forme di attività
(più o meno precarizzate) post-industriali (tab
7).
Gli autonomi in Italia sono
in genere individui che – soprattutto al sud – integrano attraverso un’attività
tradizionale, di piccolo commercio, lo scarso reddito familiare, oppure,
nelle regioni ad economia distrettuale e ad elevata dinamica produttiva,
individui (maschi adulti) dotati di skills che il mercato è evidentemente
in grado di riconoscere e ricompensare più che un lavoro dipendente,
e che quindi decidono in tal senso. Da questo punto di vista, del resto,
è facile comprendere come, in zone ad economia diffusa in cui l’ampiezza
delle imprese è estremamente limitata, le chance di mobilità
occupazionale degli individui passino in primo luogo attraverso strategie
di mobilitazione individualistica.
Il contesto economico conseguente
alla ristrutturazione del modello produttivo fordista, che nel nostro paese
è iniziata con la fine degli anni ‘70, rappresenta quindi la chiave
principale per comprendere l’operare degli effetti ‘spin-off dei self-employed’
e quindi il radicamento del lavoro autonomo all’interno del modello produttivo
e del regime occupazionale italiani. In altri termini, il self-employment
ha rappresentato - e rappresenta tuttora - una sorta di ‘valvola di flessibilità’
sistemica la quale ha consentito da un lato il mantenimento di prerogative
e sicurezze ‘fordiste’ per una parte del mondo del lavoro, dall’altro l’esternalizzazione
di fasi del ciclo produttivo e di attività economiche ad una forza
lavoro autonoma, specializzata e flessibile, oltre che economicamente conveniente
per le imprese. Se guardiamo infatti all’evoluzione del mercato del lavoro
in Italia nell’ultimo decennio, notiamo come le tensioni originate dalla
crisi del modello di regolazione fordista del lavoro si siano risolte in
una richiesta di maggiore flessibilità nell’utilizzo temporale della
forza lavoro e di minori costi (soprattutto indiretti) del lavoro. Richieste
che il lavoro autonomo può soddisfare. Una certa informalità
della regolazione è la soluzione che sembra essere stata adottata
in Italia per risolvere le richieste dell’organizzazione della produzione
postfordista, una ‘produzione’ che sempre più è produzione
di servizi (spesso anche ad elevato contenuto professionale) e quindi quasi
per natura richiede tempi e modalità di svolgimento non rigidamente
predefiniti. Ma quanto è emerso dalle analisi proposte è
il fatto che tutto ciò può aver luogo solo laddove una qualche
forma di dinamismo economico è presente, solo laddove c’è
sviluppo. Questo infatti determina sia il livello di attivismo economico
e imprenditoriale del territorio, sia le nuove forme di lavoro/occupazione
‘own account’ post-fordiste.
Questo processo - ancora
identificabile come un processo di sviluppo - ha però dei costi,
che sono specificamente sociali: in primo luogo, le nuove forme di impiego,
in quanto attività da ‘one-man-band’, quasi del tutto prive di regolazione
istituzionale e di protezione sociale, implicano una vera e propria scelta
sociale (non esplicitamente dibattuta) a favore di un regime di welfare
di tipo residuale, nell’ipotesi - comunque non verificata - che le contingenze
economiche e la capacità contrattuale dei singoli own account workers
siano tali da permettere loro la costituzione di un solido sistema assicurativo
privato. In questo modo, le possibilità ridistributive e riequilibrative
della diseguaglianza sociale insite nel principio del welfare universalistico
non possono che risultare neglette, così che anche le nuove forme
di ‘travail sans emploi’, scaricando costi e oneri della sicurezza sociale
sugli individui e quindi sui loro sistemi primari di appartenenza, famiglie
e reti parentali/relazionali, rischiano di costituire meccanismi di riproduzione
dell’originaria diseguaglianza sociale.
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