vai al sito della Camera di Commercio di Milano  
Impresa & Stato n°46

  

IL LAVORO INDIPENDENTE NEGLI ANNI NOVANTA

di  
Paolo Barbieri 

L’analisi quantitativa dei dati conferma che la chiusura della struttura occupazionale italiana non può essere collegata alla diffusione di questo fenomeno.  

La ricerca condotta per conto della Camera di Commercio ha preso in esame i lavoratori autonomi senza dipendenti, cercando di delinearne, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo (si veda l’articolo di Magatti e quello di Corvo), dati e caratteristiche principali.  
In questo scritto ci focalizzeremo sui risultati delle analisi quantitative, elaborate a partire dai dati a disposizione: l’archivio INPS dei lavoratori autonomi liberi professionisti e a prestazione coordinata e continuativa (INPS 10%) e i dati individuali di ogni secondo trimestre dal 1993 al 1996 delle Rilevazioni Trimestrali sulle Forze Lavoro (RTFL). Tutti i dati oggetto d’analisi ci sono stati resi disponibili in conseguenza degli accordi Sistan esistenti fra Camere di Commercio e Istat e grazie all’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Milano, che ha seguito da vicino l’intera ricerca.  
Nel corso di questo scritto, dopo un’introduzione per presentare i principali problemi di analisi che si pongono a chi studia le forme di lavoro indipendente oggi, presenteremo dapprima i risultati delle analisi sui dati RTFL, quindi verificheremo la natura e le caratteristiche degli attuali autonomi ‘coordinati e continuativi’, con particolare attenzione metodologica ai giovani che attraverso questi tipi di contratto si avvicinano al mercato del lavoro.  

UNA DISTINZIONE  
Il lavoro ‘indipendente’ oggi in Italia assomma a circa il 28% della forza lavoro occupata. Se consideriamo solo i lavoratori autonomi in senso stretto, tale quota scende al 20%, diminuendo di poco se limitiamo la nostra osservazione ai soli autonomi senza dipendenti. In linea generale, possiamo ricordare come tale quota sia una fra le più elevate in Europa (solo Spagna e Grecia hanno quote altrettanto elevate) a dimostrazione del fatto che il lavoro indipendente costituisce un mondo a sé all’interno del più complessivo mondo del lavoro italiano. Si tratta di un mondo che ancora oggi è assai poco conosciuto anche se l’interesse scientifico e sociologico verso di esso è in rapida crescita, in conseguenza delle trasformazioni che stanno avvenendo all’interno del modo di produzione e di organizzazione della produzione e dei servizi in Italia.  
Analizzando il lavoro autonomo, o indipendente o, ancora, ‘autoimprenditoriale’, è necessario tenere ben presente che stiamo discutendo di almeno tre realtà economico-sociali, oltre che professionali, radicalmente differenti fra loro. Potremmo quasi parlare di tre mondi separati del lavoro e della produzione, popolati da attori che non necessariamente hanno tratti in comune fra loro, ma soprattutto mondi non sempre e non necessariamente intercomunicanti. In altri termini, ciò che è interessante oggi è stabilire innanzitutto chi sono i soggetti che in questi spazi sociali e produttivi agiscono.  
Si tratta di un obiettivo ‘minimo’ ma essenziale in quanto la velocità dei processi di trasformazione capitalistica ha (troppo) spesso portato parte degli osservatori a considerare il lavoro autonomo come ‘la nuova frontiera’ delle trasformazioni dei rapporti d’impiego post-industriali. Le trasformazioni importanti che stanno avvenendo nel mondo del lavoro e della produzione italiani sicuramente riguardano anche il lavoro autonomo e autoimprenditoriale, ma vedremo come sia necessaria una certa dose di prudenza nel vedere il ‘nuovo’.  
Le tre figure socioeconomiche che caratterizzano il lavoro indipendente oggi in Italia sono rappresentate da:  
1) gli imprenditori, cioè coloro i quali hanno un certo numero di dipendenti sottoposti al loro controllo e per i quali possono stabilire le modalità in cui avviene la prestazione d’opera;  
2) i self-employed ‘puri’, o liberi professionisti, senza dipendenti, anche se talora coadiuvati dai membri della famiglia;  
3) i cosiddetti self-employed ‘sub-contractor’, o sub-contractor tout court, anch’essi senza alcun dipendente e operanti in proprio sul mercato, più o meno coadiuvati dai membri dell’unità familiare.  
Quest’ultima è la nuova figura emergente nel mercato del lavoro, e di sicuro quella di maggiore interesse, per la novità che potrebbe (usiamo appositamente il condizionale) costituire, nelle condizioni di produzione ‘post-fordiste’; per questo motivo dunque concentreremo l’analisi sulla distinzione fra self-employed (puri) e sub-contractor. Si tratta di una differenza di fondamentale rilevanza sociologica non solo per i suoi effetti di mercato del lavoro, ma anche per qualunque corretta valutazione dell’evoluzione del lavoro (e delle nuove forme di lavoro) nell’epoca ‘postfordista’.  
Il self-employed (puro) è un libero professionista a tutti gli effetti, qualificato per il numero di clienti che raccoglie e spesso anche per l’ampiezza territoriale del suo network di clientela, che è al tempo stesso il suo ‘giro d’affari’ e il suo capitale sociale. Per queste figure, il più delle volte, proprio l’ampiezza del network sociale così come di quello geografico rappresentano la miglior proxy del valore professionale: si tratta infatti di professionisti pluriclientelari, i quali realizzano strategie di competizione basate in primo luogo sulla qualità del servizio offerto. Tale strategia professionale al tempo stesso è garanzia della loro indipendenza ed autonomia e, come egemonia professionale, costituisce a sua volta una sicurezza di mercato per i professionisti.  
Al contrario del self-employed (puro), il sub-contractor ha pochissimi datori di lavoro, quando addirittura non dipende da un unico monocommittente.  
Questo fatto si traduce in una radicale differenza di status sociale ma anche di posizione sul mercato, intendendo con ciò sia il mercato dei servizi in cui entrambe le figure operano, sia lo specifico mercato del lavoro. Questa differenza di posizione comporta anche un ben diverso grado di copertura rispetto all’esposizione al ciclo economico. Il self-employed (puro) infatti è molto più coperto, anche in caso di recessione, da qualsiasi mutamento negli andamenti economici, al contrario del sub-contractor, il quale invece dipende dal suo committente e dalla forza economica di questo, rappresentando per esso un fattore di flessibilizzazione dei costi produttivi e, sovente, un elemento di riduzione (impropria) del costo del lavoro. La ‘strategia’ di mercato (se così possiamo definirla, impropriamente, dato che si tratta di una situazione spesso più subita che scelta) dei sub-contractor infatti, si risolve per lo più in una mera competizione sul prezzo del lavoro svolto, il che li equipara a dipendenti irregolari, precari, soggetti ad una subordinazione di fatto.  
Come si introduce questa distinzione, nelle nostre analisi?  
Tutti i confronti internazionali mostrano come i self-employed siano per lo più adulti. Ciò si spiega col fatto che per essere liberi professionisti è necessario avere reti di clientela, che in genere sono il prodotto di anni di lavoro dipendente, precedenti alla ‘messa in proprio’. In effetti si potrebbe parlare di un’ipotesi ‘spin-off’ dei self-employed. Questo si realizza attraverso un aumento relativo del lavoro indipendente rispetto al lavoro dipendente: il rapporto, come si vede bene in Figura 1, è in costante crescita a partire dalla fine degli anni ‘70, cioè con il tramonto di quello che è stato definito dalla letteratura come il modo di produzione ‘fordista’. Sappiamo, dall’analisi dei dati Istat sulle Forze di Lavoro, che le categorie professionali in cui negli anni ‘90 la presenza di autonomi è più forte sono da un lato i gruppi dei tecnici ad elevata specializzazione e dei liberi professionisti dotati di un elevato capitale umano e dall’altro gli addetti al commercio e alle vendite in genere, ambulanti compresi.  
La struttura occupazionale del lavoro autonomo in Italia sembra dunque polarizzarsi in modo abbastanza netto, mentre le tradizionali professioni autonome operaie e artigianali si posizionano su un livello tutto sommato stabile e intermedio fra le due ‘ali’ dei molto qualificati e degli addetti alle vendite. Se si analizzano poi le variazioni nelle proporzioni di autonomi/dipendenti nel corso degli anni ’90, si osserverà un interessante fenomeno di stabilità dei trend di crescita: le professioni ‘scientifiche’ o comunque ad elevata specializzazione (dirigenti privati, specialisti scientifici, ingegneri, architetti, docenti) e le professioni tecniche cosiddette ‘intermedie’ registrano trend in qualche modo più ‘sicuri’ di crescita della presenza di autonomi rispetto ai dipendenti. Lo stesso andamento si verifica anche per le professioni relative alla fornitura di servizi alla persona e ai consumi (istruzione, sanità, servizi alle famiglie).  
Questi i mutamenti per quanto riguarda la composizione del lavoro indipendente negli anni a noi più vicini: ma che accade dello ‘stock’ del lavoro autonomo? Da quali figure è costituito? Quali sono le sue caratteristiche anagrafiche, di genere e di qualificazione professionale?  
Le tabelle 1 e 2 riportano i valori dei coefficienti beta per una serie di regressioni logistiche in cui la variabile dipendente è sempre l’essere lavoratore autonomo (15-65enne, senza dipendenti). Tutte le regressioni escludono gli occupati nel settore agricolo, mentre la categoria di riferimento è costituita dagli occupati dipendenti.  
Osserviamo dapprima i dati riportati nei quattro anni di tabella 1. I lavoratori autonomi sono individui maschi con un capitale umano elevato, lavorano prevalentemente al sud, ma soprattutto sono adulti. L’associazione con la variabile età, divisa in coorti decennali, è nettissima, altamente significativa e crescente al crescere della classe di età. Il dato si riconferma per tutti gli anni ’90. I lavoratori autonomi in Italia, dunque, non sono giovani al loro primo ingresso ‘di servizio’ nel mercato del lavoro: si tratta invece di uomini adulti, capifamiglia, dotati di un adeguato livello di conoscenze educative ma soprattutto di un capitale umano fatto anche di esperienza di lavoro precedente. L’associazione negativa e altamente significativa con l’essere stati precedentemente disoccupati è indicativa di questa caratteristica del lavoro autonomo ma anche dello stesso mercato del lavoro degli autonomi: non si tratta di un’area residuale o di outsiders, che ‘si inventano’ un’attività perché non trovano un impiego stabile e sicuro, ma al contrario si tratta di persone esercenti attività di ‘piccola borghesia’ classica, così come anche artigiani e liberi professionisti solidamente affermati nel loro lavoro.  
Il controllo per l’anzianità di costituzione dell’attività economica (misurata con una dummy per le imprese costituitesi da 0 a due anni) è indicatrice della stabilità dell’attività in questione. Sappiamo infatti dagli studi di economia industriale che i due anni di vita rappresentano per un’impresa la ‘soglia di rischio’ superata la quale le probabilità di mortalità iniziano a decrescere. Il coefficiente negativo per tale dummy indica proprio come non ci troviamo di fronte a imprese di nuova costituzione, e letto con il segno negativo annesso all’essere precedentemente disoccupati (disoccupati nello stesso periodo l’anno precedente l’intervista) indica come questi lavoratori non possano essere ritenuti ‘outsider’ del mercato del lavoro, nuovi ‘precari’ in un lavoro formalmente autonomo ma di fatto dipendente dal mercato. Il controllo per i quattro anni riportati rappresenta un’ulteriore conferma della ‘robustezza’ e dell’affidabilità dei risultati, già ampiamente assicurata dal numero di casi presenti.  
Del resto, un minimo di ‘immaginazione sociologica’, o anche solo di capacità di leggere i dati e le caratteristiche della struttura socioproduttiva italiana, consentono di comprendere questo risultato: l’ipotesi ‘spin-off dei self employed’ sembra essere la chiave più adatta per comprendere la diffusione del lavoro indipendente in Italia. Una solida esperienza professionale alle spalle, una dotazione di capitale umano di base, risorse sociali adeguate e sviluppate in anni di lavoro, consentono ad individui motivati e intraprendenti di ‘puntare su se stessi’ e di mettersi in proprio.  
Ovviamente, le condizioni del sistema economico e produttivo d’intorno esercitano un’influenza non indifferente sulle chance di rendersi indipendenti. Le trasformazioni del sistema fordista hanno aperto possibilità non trascurabili in seguito all’esternalizzazione di larga parte delle attività precedentemente internalizzate in imprese a forte integrazione verticale. Lo si vede osservando i dati riportati in tabella 2, in cui sono stati esclusi dalle analisi tutti gli addetti alle vendite. La loro importanza quantitativa, infatti, rischiava di oscurare fenomeni forse minori dal punto di vista numerico, ma non per questo meno interessanti in quanto più vicini ai nuovi sviluppi del modello produttivo postfordista.  
Vediamo quindi come la rilevanza della dimensione territoriale, escludendo gli addetti alle vendite, cioè larga parte delle tradizionali attività di petty bourgeoisie commerciale, si capovolga rispetto ai dati di tabella 1. La ‘terza Italia’ risulta nettamente favorita come area di sviluppo delle professioni autonome. In altri termini, escludendo le più tradizionali attività di commercio, le aree a maggior sviluppo di self employment sono le aree di economia diffusa, in cui condizioni economico-produttive e condizioni di vita sono strettamente interconnesse. In queste situazioni, in cui la cultura locale diffusa valorizza la realizzazione individuale attraverso forme di ‘autoimprenditorialità’ radicata nei legami socioeconomici del territorio - e avendo anche presente l’assoluta carenza di chance di mobilità sociale ascendente che in Italia si realizza all’interno del lavoro subordinato dipendente - è oltremodo realistico che gli individui scelgano di realizzare autonome strategie di promozione sociale attraverso la costituzione di attività economiche e/o professionali indipendenti.  
Resta ora da verificare cosa accade qualora si considerino i soli autonomi senza dipendenti addetti alle vendite, la categoria professionale in assoluto più presente fra i self-employed. La tabella 3 risponde a questo interrogativo.  
Anche qui, come nelle precedenti, il peso del capitale umano è considerevole sebbene non sempre significativo ad un livello accettabile. Ciò che invece muta radicalmente è il genere: più presenti fra gli addetti alle vendite autonomi sono le donne, in particolare nel meridione. Si tratta, è abbastanza evidente, di piccole e piccolissime attività di commercio tradizionale, esercitate da donne adulte, non capofamiglia, quale possibile sostegno integrativo al reddito familiare. Gli anni di esperienza nell’attività in oggetto non appaiono particolarmente significativi. Da questo punto di vista, questo come anche i precedenti modelli di regressioni logistiche presentati sono in effetti poco parsimoniosi, in quanto alcune delle covariate introdotte, non particolarmente significative dal punto di vista statistico, avrebbero dovuto essere eliminate. Non lo si è fatto in quanto l’assenza di qualunque effetto diretto, oltre che di significatività statistica, associato alle variabili in questione, è indicativo del fatto che le forme di lavoro autonomo non costituiscono oggi una forma di ingresso di servizio sul mercato del lavoro per giovani ‘outsider’ o precari.  

I DATI INPS 10% 
In questa parte del lavoro cercheremo di delineare meglio quali fattori possono spiegare lo sviluppo e la diffusione sul territorio delle nuove forme di impiego autonomo e pseudo-autonomo. Per farlo ricorreremo ad un dato del tutto nuovo, non ancora utilizzato in alcuno studio, e realizzeremo un’analisi di tipo ecologico, cioè territoriale. Si tratta della banca dati Inps sui contribuenti al fondo previdenziale lavoratori autonomi-collaborazioni coordinate e continuative e prestazioni professionali. Di recente istituzione, tale fondo raccoglie i versamenti contributivi di tutti coloro che effettuano sia prestazioni di lavoro autonomo in quanto liberi professionisti, sia prestazioni di lavoro ‘solo formalmente’ autonomo, cioè le posizioni di quanti operano in modo ‘coordinato e continuativo’ per un datore. Selezionando i soli ‘coordinati e continuativi’ giovani, e aggregando il dato per province, si è costruita la variabile dipendente. Questa scelta è stata fatta per depurare il dato da tutte le posizioni contributive inerenti l’esercizio delle libere professioni o frutto di collaborazioni e consulenze di lavoratori, anche dipendenti, altamente qualificati o in possesso di conoscenze e skills specifici, e arrivare così ad analizzare i meccanismi che possono dar conto dello sviluppo di nuove forme di impiego ‘flessibile’.  

I DATI OSSERVATI: LE VARIABILI INDIPENDENTI  
La letteratura economica internazionale che ha elaborato macroindicatori del mercato del lavoro utilizza sostanzialmente come proxy della rigidità dello stesso misurazioni e valutazioni della possibilità istituzionale di dismettere la forza lavoro considerata in eccesso, nella esplicita convinzione che meno vincoli esistano alle scelte di hiring e firing delle imprese, tanto più un mercato del lavoro sarà flessibile (OCDE, 1990, 1994).  
Nelle ricerche internazionali sul mercato del lavoro che utilizzano microdati individuali, gli effetti di rigidità vengono operazionalizzati in modo indiretto, attraverso variabili osservate come il tasso di attività, distinto per coorti o per segmenti di popolazione (giovani, donne, categorie ‘svantaggiate’), le durate medie dei periodi di disoccupazione, i tassi di disoccupazione di lungo periodo (oltre i 12 mesi), i flussi entro e fuori la condizione di senza lavoro, o ancora ricorrendo, per gli stessi indicatori, agli odds relativi fra categorie di popolazione. Questa è stata la strada seguita anche nel presente lavoro.  
Le variabili indipendenti considerate sono state realizzate, su base provinciale, utilizzando una serie di fonti istituzionali avendo l’accuratezza di scegliere i dati più aggiornati a disposizione. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, si è fatto ricorso ai microdati individuali della rilevazione trimestrale delle forze lavoro Istat (d’ora innanzi RTFL) del periodo aprile-giugno 1996. La scelta di ricostruire gli indicatori necessari a partire dai microdati RTFL individuali, successivamente aggregati per province, ha consentito una notevole flessibilità e accuratezza nella realizzazione delle variabili impiegate, altrimenti non disponibili, e ha permesso di tenere sotto controllo la dimensione temporale dei fenomeni, in quanto sia la banca dati Inps 10% sia la RTFL si riferiscono al 1996. La RTFL non costituisce comunque l’unica fonte utilizzata. In particolare, si è fatto ricorso ai dati di fonte Banca d’Italia per quanto riguarda gli investimenti su base provinciale (dati di maggio 1997), alle valutazioni al 1994 fornite dall’Istituto Tagliacarne per i redditi da lavoro provinciali, ai dati Prometeia-Inps per i tassi di sviluppo e natimortalità delle imprese, aggiornati al 1995, e infine ai dati Istat per le Unità Locali delle imprese.  
Quella che viene proposta è quindi un’analisi di tipo cross-sectional, ma condotta su dati del tutto nuovi e, nella quasi totalità, assolutamente aggiornati.  

MERCATO E LAVORO AUTONOMO 
La distribuzione dei lavoratori autonomi a prestazione coordinata e continuativa in Italia (a fine 1996) è evidenziata in tabella 4. La Lombardia si rivela immediatamente la regione in cui la quota di autonomi coordinati e continuativi, sia in valori assoluti che in % sugli occupati complessivi, è fra le più elevate.  
Per analizzare quelli che potrebbero essere i ‘nuovi precari’ è quindi per lo meno necessario selezionare i soli giovani (si veda tab. 5). Osserviamo innanzitutto come questi rappresentino meno della metà dell’intera popolazione (circa 880.000 soggetti ad aprile 1997) di self-employed presente in banca dati, il che costituisce da un lato un indicatore del fatto che, per i giovani, l’ingresso nel mercato del lavoro italiano sembra restare ancora difficile, ma dall’altro rivela anche che quando si considerano i ‘coordinati e continuativi’ si fa riferimento ad una popolazione che nel complesso ha le stesse caratteristiche del resto della forza lavoro, e che quindi non può essere considerata nel suo insieme una sorta di nuova forza lavoro ‘precarizzata’.  
Ciò detto, vediamo comunque come la stragrande maggioranza di tali nuove posizioni occupazionali (ripetiamo: per i ‘giovani’ autonomi) sia concentrata in un terzo del paese, il settentrione, ma soprattutto come quasi i due terzi del totale si ritrovino nelle aree di forte sviluppo regionale e di distretti industriali. Nell’ordine Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana sono le regioni in cui è maggiore il numero di giovani occupati con contratti di collaborazioni coordinate e continuative, alle quali si aggiunge il Lazio per il peso che servizi e terziario pubblico hanno in quella regione.  
Ma quali sono i meccanismi che spiegano la diffusione territoriale di queste nuove forme di impiego, che almeno per la forza lavoro giovanile possono approssimare i nuovi rapporti di lavoro ‘pseudo-autonomi’ post-fordisti?  
La tabella 6presenta alcuni modelli di regressione lineare in cui la dipendente è costituita dalla percentuale di giovani occupati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa sul totale degli occupati. L’analisi è condotta a livello provinciale.  
I risultati dei modelli sono oltremodo chiari: la diffusione delle nuove forme di lavoro subordinato atipico, flessibili e - formalmente - indipendenti, cioè del lavoro autonomo di ‘seconda generazione’ (Bologna, Fumagalli, 1997), così definito per distinguerlo dalle attività di petty bourgeoisie tradizionali, sono funzione del livello degli investimenti e del grado di attività economica e produttiva realizzata nel territorio. Investimenti, imprese (dei servizi) e lavoro, creando sviluppo creano le condizioni per un complessivo benessere economico, al quale è collegato anche il livello del self-employment. In negativo, l’elevato e significativo valore espresso dal tasso di disoccupazione di lungo periodo esprime la contraddizione esistente fra aree di depressione economica, scoraggiamento delle attività produttive e self-employment.  
Il lavoro, dunque, va innanzitutto dove già c’è lavoro, dove esistono le condizioni per una crescita economica. Una vecchia lezione, talvolta dimenticata...  
Inserendo direttamente, nella regressione originale, le dummies territoriali si vede come le aree di piccola e media impresa, proprie delle economie ‘sociali’ dei distretti industriali della terza Italia, sono quelle in cui la correlazione con lo sviluppo del self-employment è maggiore, con ciò confermando i risultati precedentemente tratti dall’analisi delle RTFL.  

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE  
Possiamo concludere ribadendo come dalle analisi proposte la struttura del lavoro autonomo in Italia non presenti alcuna sostanziale differenziazione rispetto alla struttura dell’occupazione stabile dipendente. Dal punto di vista dei regimi occupazionali questo dato invalida le ipotesi che tendono a leggere la diffusione del self-employment come un portato vuoi della chiusura delle relazioni d’impiego, cioè della difficoltà ad accedere ad un mercato del lavoro dipendente regolare troppo protetto e dunque chiuso ai nuovi ingressi, vuoi come un mercato del lavoro ‘secondario’, ristretto o limitato agli outsider, in prevalenza giovani e donne esclusi dal mercato del lavoro ‘primario-garantito’ dipendente. In altri termini: la questione del regime occupazionale italiano e della (effettiva) chiusura della struttura occupazionale che ne discende non può essere direttamente e causalmente collegata alla diffusione del lavoro autonomo nel nostro paese, come pure è stato fatto (OECD, 1993); ma nemmeno il mondo del lavoro autonomo può essere letto come l’area di elezione delle nuove forme di attività (più o meno precarizzate) post-industriali (tab 7).  
Gli autonomi in Italia sono in genere individui che – soprattutto al sud – integrano attraverso un’attività tradizionale, di piccolo commercio, lo scarso reddito familiare, oppure, nelle regioni ad economia distrettuale e ad elevata dinamica produttiva, individui (maschi adulti) dotati di skills che il mercato è evidentemente in grado di riconoscere e ricompensare più che un lavoro dipendente, e che quindi decidono in tal senso. Da questo punto di vista, del resto, è facile comprendere come, in zone ad economia diffusa in cui l’ampiezza delle imprese è estremamente limitata, le chance di mobilità occupazionale degli individui passino in primo luogo attraverso strategie di mobilitazione individualistica.  
Il contesto economico conseguente alla ristrutturazione del modello produttivo fordista, che nel nostro paese è iniziata con la fine degli anni ‘70, rappresenta quindi la chiave principale per comprendere l’operare degli effetti ‘spin-off dei self-employed’ e quindi il radicamento del lavoro autonomo all’interno del modello produttivo e del regime occupazionale italiani. In altri termini, il self-employment ha rappresentato - e rappresenta tuttora - una sorta di ‘valvola di flessibilità’ sistemica la quale ha consentito da un lato il mantenimento di prerogative e sicurezze ‘fordiste’ per una parte del mondo del lavoro, dall’altro l’esternalizzazione di fasi del ciclo produttivo e di attività economiche ad una forza lavoro autonoma, specializzata e flessibile, oltre che economicamente conveniente per le imprese. Se guardiamo infatti all’evoluzione del mercato del lavoro in Italia nell’ultimo decennio, notiamo come le tensioni originate dalla crisi del modello di regolazione fordista del lavoro si siano risolte in una richiesta di maggiore flessibilità nell’utilizzo temporale della forza lavoro e di minori costi (soprattutto indiretti) del lavoro. Richieste che il lavoro autonomo può soddisfare. Una certa informalità della regolazione è la soluzione che sembra essere stata adottata in Italia per risolvere le richieste dell’organizzazione della produzione postfordista, una ‘produzione’ che sempre più è produzione di servizi (spesso anche ad elevato contenuto professionale) e quindi quasi per natura richiede tempi e modalità di svolgimento non rigidamente predefiniti. Ma quanto è emerso dalle analisi proposte è il fatto che tutto ciò può aver luogo solo laddove una qualche forma di dinamismo economico è presente, solo laddove c’è sviluppo. Questo infatti determina sia il livello di attivismo economico e imprenditoriale del territorio, sia le nuove forme di lavoro/occupazione ‘own account’ post-fordiste.  
Questo processo - ancora identificabile come un processo di sviluppo - ha però dei costi, che sono specificamente sociali: in primo luogo, le nuove forme di impiego, in quanto attività da ‘one-man-band’, quasi del tutto prive di regolazione istituzionale e di protezione sociale, implicano una vera e propria scelta sociale (non esplicitamente dibattuta) a favore di un regime di welfare di tipo residuale, nell’ipotesi - comunque non verificata - che le contingenze economiche e la capacità contrattuale dei singoli own account workers siano tali da permettere loro la costituzione di un solido sistema assicurativo privato. In questo modo, le possibilità ridistributive e riequilibrative della diseguaglianza sociale insite nel principio del welfare universalistico non possono che risultare neglette, così che anche le nuove forme di ‘travail sans emploi’, scaricando costi e oneri della sicurezza sociale sugli individui e quindi sui loro sistemi primari di appartenenza, famiglie e reti parentali/relazionali, rischiano di costituire meccanismi di riproduzione dell’originaria diseguaglianza sociale.