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Impresa & Stato n°46 

  

IL LAVORO PARASUBORDINATO NEL MODELLO DI SVILUPPO DEL NORD

di 
Mauro Magatti 
Un piccolo cuneo che può spezzare gli equilibri del mercato, un fenomeno che richiede maggiore consapevolezza da parte delle istituzioni.  
L’analisi del lavoro indipendente - nelle sue forme vecchie e nuove - offre molti spunti interessanti per cogliere la fase che stiamo attraversando e per capire la direzione verso la quale ci muoviamo. Come è noto, infatti, la quota particolarmente elevata di lavoratori autonomi sul totale dell’occupazione continua a distinguere nettamente il nostro dagli altri paesi avanzati: ecco perché i processi di innovazione che si realizzano all’interno di questo comparto sono spesso stati segni premonitori di mutamenti più profondi che si sono poi diffusi nella società e nell’economia.  
Il dibattito di questi ultimi anni è in particolar modo centrato sul cosiddetto «lavoro parasubordinato». Da molti considerato una forma nascosta di lavoro dipendente - dal quale si distinguerebbe solo per la mancanza di un adeguato apparato normativo - questa nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa suscita dibattiti molto accesi: da un lato c’è chi la considera la frontiera del lavoro del futuro, completamente «liberato» da ogni condizionamento sociale – leggi sindacale; dall’altro c’è chi vede nei parasubordinati i «nuovi proletari», vittime designate del liberismo selvaggio e della globalizzazione. Il tema ha suscitato una tale attenzione da spingere lo stesso Governo a prendere in considerazione l’ipotesi di interventi regolativi.  
In realtà di questo universo si sa pochissimo e la ricerca che qui viene presentata - svolta dal Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica per conto della CCIAA di Milano - offre alcuni elementi di valutazione fondati se non altro su precisi riscontri empirici. Ed è a partire da questa base empirica che vorrei, in apertura, avanzare alcune brevi considerazioni introduttive di ordine generale.  
Prima di tutto è doveroso sottolineare che l’emergere del lavoro parasubordinato va inquadrato in un trend molto più generale che tende a modificare il funzionamento del mercato del lavoro. Come spesso accade in Italia, le riforme spesso si fanno quasi per caso, come una sorta di effetto di aggregazione di una molteplicità di interventi dettati dalle esigenze più disparate. Sta di fatto che la situazione è oggi già profondamente cambiata rispetto a qualche anno fa: lavoro interinale, contratti d’area, contratti di formazione lavoro - solo per citare alcuni istituti particolarmente importanti - stanno effettivamente trasformando il modo in cui domanda e offerta si incontrano. Basti dire che al Nord ormai più del 50% degli avviamenti è a tempo determinato.  
La diffusione del lavoro parasubordinato fa parte di questo processo - che tende nel suo insieme a flessibilizzare i rapporti di lavoro - riattualizzando quello che storicamente può essere considerato uno degli elementi costitutivi di quella che potremmo chiamare «la via italiana alla flessibilità», da sempre basata sulla presenza di un numero di lavoratori autonomi incomparabilmente più elevato di quello delle altre economie avanzate.  
Secondariamente, la ricerca ha mostrato che questa forma di lavoro non può venire considerata il regno della precarietà, una sorta di una via di fuga dalla disoccupazione. Una tale affermazione si basa sull’osservazione empirica: concentrata nelle regioni più ricche dove i tassi di disoccupazione sono più bassi, l’attività parasubordinata è prima di tutto espressione della ricchezza di lavoro e di opportunità presenti in una data area. Non a caso, questa forma contrattuale si è scarsamente sviluppata al Sud - dove le occasioni sono poche e dove il lavoro nero rimane comunque più vantaggioso - mentre si radica al Nord, dove il lavoro parasubordinato diventa un tassello in più di un mercato che per espandersi ha bisogno di articolarsi su più registri. Il che equivale a dire che, laddove il lavoro è carente, non basta togliere tutti i «lacci e lacciuoli» - ovvero le garanzie - per creare lavoro, mentre laddove le occasioni di impiego sono numerose il problema è riuscire a inventare nuove modalità con cui fare incontrare in modo corretto la domanda con l’offerta. E, d’altra parte, non è nemmeno vero che questo tipo di attività è tutto schiacciato sui livelli professionali medio-bassi. In realtà, esso si distribuisce lungo tutta la gerarchia occupazionale: il livello di professionalizzazione non sembra quindi una variabile esplicativa.  
In effetti - e questo è un terzo aspetto che vorrei sottolineare - si tratta di un fenomeno che è alimentato da due motori. Il primo ha a che fare con la domanda di lavoro: le imprese hanno sempre più bisogno di forme di lavoro che non sono più inquadrabili nella forma tradizionale del «posto» e, per la natura dei beni e dei servizi che producono e dei mercati su cui concorrono, hanno sempre più spesso necessità di apporti temporanei, parziali, specifici. Da questo punto di vista, si può ben dire che il lavoro parasubordinato costituisce una minaccia alla regolazione sociale del rapporto di lavoro che, come è noto, sta alla base non solo e non tanto dei modelli di relazione industriale che conosciamo, quanto più in generale degli assetti politici delle democrazie avanzate. Ma, al tempo stesso, proprio questa osservazione mette in luce l’altro aspetto di questo fenomeno, che lega l’attività lavorativa all’individuo e alle sue qualità invece che, come nell’epoca del posto di lavoro, costringere la persona a rientrare - cioè ad adattarsi come in un letto di Procuste - nel ruolo e nelle mansioni previste dal sistema organizzativo.  
Proprio questa osservazione permette di affermare che, d’altra parte, non si capirebbe questa realtà se non si considerasse anche il lato dell’offerta, cioè i comportamenti individuali. Guardando dentro l’insieme dei parasubordinati si può facilmente vedere come siano rilevanti le scelte di chi il lavoro lo cerca. Questa condizione lavorativa può - a certe condizioni - risultare funzionale alle preferenze di un numero non irrilevante di persone: penso ad esempio a una parte del mondo giovanile, che preferisce svolgere un’attività retribuita che non ponga vincoli troppo stretti dal punto di vista temporale o esistenziale, o ai pensionati, laddove questa formula permette di coniugare pensione e lavoro, trovando il mix che meglio soddisfa la singola persona.  
Dunque siamo di fronte ad un insieme molto variegato, che non può essere compresso in una lettura troppo schematica. Al suo interno si ritrovano percorsi virtuosi, che permettono a chi li percorre di professionalizzarsi e di avere accesso a reddito medio-alti, e percorsi viziosi, che inchiodano i più deboli a condizioni di marginalità e precarietà lavorativa.  

IL MODELLO DI SVILUPPO DEL NORD 
Per interpretare correttamente la crescita del lavoro parasubordinato è essenziale riferire questo fenomeno al modello di sviluppo diffuso che ormai contraddistingue le regioni del Nord Italia. Con questo voglio dire che si tratta di un elemento costitutivo di quella via italiana al post-fordismo di cui gli elementi fondamentali sono ormai ben noti: prevalenza della piccola e piccolissima impresa, specializzazione manifatturiera, concentrazione territoriale e localismo economico, spiccata mobilitazione individualistica, rilevanza di quella zona grigia costituita appunto dalle varie forme di lavoro indipendente. La diffusione del lavoro parasubordinato è, in altri termini, da intendersi come un nuovo modo con cui prende corpo quella spinta dal basso che di fatto sostiene lo sviluppo di queste regioni da alcuni decenni a questa parte e che, pur presentando costi sociali non irrilevanti, risulta estremamente difficile da regolare e inquadrare, se non correndo il rischio di bloccare lo sviluppo stesso.  
Questo spiega la cautela con la quale è consigliabile muoversi quando si voglia pensare a degli interventi volti a mettere ordine in una situazione che è portato dello spontaneismo economico tipico del nostro paese. Un’analisi attenta, infatti, mette in evidenza l’ambivalenza di questo fenomeno.  
Intanto si potrebbe pensare che questa modalità di lavoro concretizzi quell’aspirazione alla flessibilità che molti hanno indicato come un fattore decisivo per lo sviluppo italiano. Ma al di là di questo aspetto, è pur vero che una situazione (come quella attuale) in cui il rapporto di lavoro spesso si riduce ad un mero rapporto contrattuale ha non poche controindicazioni. Come hanno mostrato le interviste in profondità, questa pratica di fatto ha luogo in forma per così dire selvaggia: una sorta di fai da te all’interno del quale può accadere di tutto. La mancanza di qualunque forma di protezione espone i parasubordinati a rischi estremamente elevati. Chi è costretto a muoversi in un sorta di giungla priva di regole e di condizioni minimamente precise, anche se ne trae vantaggio (come non di rado avviene) soffre di questo stato di sregolazione, poiché è ben consapevole che la flessibilità può facilmente trasformarsi in arbitrio o sopruso. Da qui si origina l’ansia tipica di queste figure lavorative che, anche quando si trovano in una condizione di relativa forza, tendono ad avvertire in modo acuto il problema dell’insicurezza e dell’instabilità. Per non dir niente della parte professionalmente più debole che è costretta a subire tutti i costi di un tale sistema.  

REGOLARE UN’AREA NUOVA 
Si pone quindi il problema della regolazione di questa nuova area di attività. Ma quale debba essere la logica con cui intervenire è tutt’altro che chiaro. Da un lato infatti c’è l’esigenza di fissare alcune regole del gioco, all’interno delle quali ognuno possa perseguire la propria strategia. Ma come è possibile intervenire per porre un po’ di ordine nella situazione attuale senza per questo irreggimentare un mondo che in questo caso morirebbe?  
In termini generali, si possono distinguere due strade. Da un lato c’è la strada regolativa: un intervento legislativo che imponga a tutti determinati standard minimi. Ma è difficile intendersi su quali debbano essere questi standard minimi: debbono essere limitati alle norme dei contratti che vengono firmati o debbono riguardare aspetti quali i versamenti previdenziali obbligatori? Se ci si ferma al primo aspetto di fatto si riconosce la possibilità di regolare l’impiego del lavoro mediante un mero rapporto bilaterale tra chi offre e chi domanda, ma se ci si incammina lungo la seconda prospettiva ben presto si arriva a doversi misurare con il problema dell’omogeneità di trattamento tra i lavoratori dipendenti e quelli parasubordinati (si pensi ad esempio alla questione relativa all’aliquota per l’INPS, oggi molto diversa tra le due categorie).  
Dall’altro c’è la strada che possiamo chiamare associativa, che si basa sulla capacità di questi gruppi di organizzarsi. A sua volta, questa seconda possibilità presenta due varianti: la prima consiste nell’autoorganizzazione - una sorta di professionalizzazione - con la nascita di entità collettive specifiche che necessariamente andrebbero a incrociarsi con gli ordini professionali, ponendo in questo caso non pochi problemi di compatibilità; la seconda variante prevede invece l’adesione a forme di rappresentanza degli interessi già esistenti, e segnatamente ai sindacati dei lavoratori: «sindacalizzazione». In questo caso, la difficoltà è la difformità culturale che separa chi fa un’esperienza di lavoro autonomo - anche parasubordinato - da chi invece è dipendente: il modo di concepire il proprio futuro, l’identità sociale, il rapporto con lo Stato, l’uso del tempo, l’idea stessa di reddito sono assai differenti.  
Dunque, ci troviamo di fronte ad un nodo che non è facile sciogliere. Superata la prima fase di crescita non governata, si pone la questione di come istituzionalizzare queste forme di lavoro, così da renderle da un lato più funzionali alle imprese e dall’altro più rispondenti a quei criteri di giustizia sociale che sono patrimonio di un paese civile. D’altra parte, è solo sciogliendo tale nodo che sarà possibile riuscire a rendere permanente nel tempo il contributo di questo fenomeno spontaneo sorto dalla realtà socio-economica.  
In conclusione, le brevi considerazioni qui presentate tratte dalla ricerca svolta a mio parere giustificano, al di là delle mode e delle urgenze, l’interesse verso questa realtà. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni osservatori, la conclusione alla quale la ricerca perviene è che non siamo di fronte ad un cambiamento radicale nel modo in cui il lavoro viene impiegato, né ad un fenomeno di portata tale da alterare la composizione sociale della nostra società. E pur tuttavia, credo che sarebbe un errore sottovalutare l’importanza di quanto sta accadendo. In ultima analisi, l’impressione che se ne ricava è che si sia avviato un movimento sui cui esiti è molto difficile avanzare previsioni. Di fatto, queste nuove forme di lavoro potenzialmente sono in grado di rimettere in discussione il modo stesso in cui viene concepito il lavoro, compreso quello subordinato, nel nostro paese - il suo statuto, le sue tutele, le sue garanzie - come d’altra parte dimostra il dibattito che si è sviluppato negli ultimi mesi anche a seguito dell’ipotesi di realizzare quello che è stato chiamato uno «statuto dei lavori».  
Da questo punto di vista, il lavoro parasubordinato costituisce un piccolo cuneo che alla fine può spezzare gli equilibri che si sono andati costituendo sul mercato del lavoro e che, di fatto, negli ultimi anni hanno arrecato molto benefici sia alle imprese sia ai lavoratori. Per questa ragione è necessario che i diversi soggetti sociali e le istituzioni più interessate al tema si dimostrino più consapevoli della posta in gioco e delle conseguenze che possono essere provocate nel medio termine. I contributi che qui vengono presentati vogliono offrire una prima base per interpretare quanto sta accadendo, così da poter meglio prevedere l’evoluzione futura del fenomeno.  

NORME DI TUTELA PER I NUOVI LAVORI