Impresa & Stato n°37-38
NONPROFIT, NUOVO ATTORE DEL SISTEMA ECONOMICO
Le dimensioni economiche del "terzo settore" in Italia e
all'estero.
Quale crescita, quanta nuova occupazione
di
GIAN
PAOLO BARBETTA
Gli uomini
non hanno più tempo per conoscere nulla.
Comprano dai mercanti le cose già fatte.
Ma siccome non esistono mercanti di amici,
gli uomini non hanno più amici.
(Il Piccolo Principe)
Note soprattutto per le proprie funzioni sociali, le organizzazioni
del settore nonprofit (un'ampia miscela di associazioni, cooperative sociali,
fondazioni ed organismi di volontariato che operano senza fine di lucro
perseguendo finalità di utilità collettiva) attirano ora
l'attenzione per una ragione totalmente diversa e per certi versi inusuale.
Si pensa infatti ad esse come possibile soluzione a due problemi in cui
si dibattono le economie occidentali, soprattutto europee: gli elevati
tassi di disoccupazione e la crisi (di sostenibilità e di risultati)
dei sistemi di welfare state.
Pensare che le organizzazioni nonprofit possano contribuire a risolvere
simili problemi significa riconoscere ed apprezzare il cambiamento che
molte di esse hanno attuato negli ultimi anni: da organizzazioni specializzate
nelle funzioni di rappresentanza, di lobbying e di sensibilizzazione, a
vere e proprie imprese specializzate nello svolgimento di attività
ad elevato contenuto sociale.
In un passato anche recente le organizzazioni nonprofit italiane hanno
svolto principalmente funzioni "leggere": la rappresentanza e la
tutela di alcune categorie sociali più deboli (come i portatori
di handicap, gli anziani, i giovani a rischio, i tossicodipendenti, gli
immigrati), oppure la sensibilizzazione della opinione pubblica e del legislatore
su alcune tematiche emergenti (lo sviluppo ecologicamente sostenibile,
le problematiche dei paesi in via di sviluppo, i diritti delle minoranze
etniche). Più modesto è stato il loro ruolo produttivo di
beni e servizi, con la notevole eccezione rappresentata dalle istituzioni
più vicine alla tradizione di intervento sociale e sanitario della
Chiesa Cattolica (le Opere Pie, le fondazioni religiose). Questa tendenza
sembra ora invertirsi; le organizzazioni che hanno accentuato la propria
vocazione produttiva sono proprio quelle che mostrano attualmente una notevole
fioritura. Il fenomeno è facilmente leggibile, ad esempio, nella
crescita numerica ed occupazionale delle cooperative sociali, forse la
parte del settore nonprofit italiano più attenta alla natura imprenditoriale
della propria azione.
UN SOGGETTO ECONOMICAMENTE RILEVANTE
Il peso economico delle organizzazioni nonprofit, la loro capacità
di generare occupazione e l'attitudine ad operare su mercati (per quanto
particolari) sono tutt'altro che irrilevanti, sia in Italia che nei principali
paesi europei. In Italia il settore nonprofit# crea circa 420.000 posti
di lavoro retribuiti, pari all'1,8% dell'occupazione nazionale; a fianco
di questi lavoratori operano anche circa 300.000 volontari (tabella 1).
La quota occupazionale del settore nonprofit italiano è inferiore
sia a quella degli Stati Uniti (6,8%) - che rappresentano per molti aspetti
un caso unico - che a quella di paesi molto più simili a noi, come
la Francia (4,2%), la Gran Bretagna (4%) e la Germania (3,7%). Pur modesto
in chiave comparativa, il settore svolge tuttavia un ruolo importante a
livello nazionale: esso crea infatti, per dare un termine di paragone,
la stessa occupazione del settore del credito e delle assicurazioni.
Il settore mostra caratteri di grande eterogeneità, sia per
quel che riguarda le aree di intervento che le strutture delle organizzazioni
che vi operano, come evidenzia la tabella 2. Cinque aree di attività
(assistenza, educazione, sindacati e organizzazioni professionali, sanità,
cultura e ricreazione) assorbono oltre il 90% della forza lavoro, dei volontari
e delle spese del settore. I diversi risultati che si ottengono mutando
la variabile di riferimento sono un indizio di grande varietà organizzativa:
fianco a fianco agiscono infatti strutture con una solida base di lavoratori
retribuiti ed altre prevalentemente basate sull'impegno dei volontari,
strutture in grado di retribuire i propri lavoratori ai livelli massimi
del mercato ed altre che possono permettersi solo dei modesti rimborsi
spese.
Le attività del settore nonprofit sono finanziate da un variegato
insieme di fondi pubblici e privati (tabella 3). Due sono gli elementi
di maggiore interesse che emergono dai dati. In primo luogo si osserva
che le donazioni rappresentano una componente complessivamente modesta
delle entrate delle nonprofit, inferiore al 5% del totale. Questo dato
contribuisce a falsificare una visione, un po' stereotipata, che immagina
il settore nonprofit come esclusivamente finanziato da lasciti caritatevoli
e dedito alla redistribuzione delle risorse ricavate attraverso le donazioni.
In secondo luogo si nota come le entrate di natura commerciale (quelle
derivanti dalla vendita di beni e servizi a soggetti privati e da contratti
e convenzioni con la pubblica amministrazione) rappresentino una componente
cruciale (vicina al 60%) del finanziamento delle organizzazioni nonprofit.
Queste organizzazioni esistono dunque principalmente grazie alla propria
capacità di vendere beni e servizi sul mercato pubblico o su quello
privato. I dati disponibili per Francia, Germania e Stati Uniti hanno messo
in evidenza come, nel corso degli anni ottanta, il settore nonprofit abbia
sperimentato tassi di crescita dell'occupazione assai più rapidi
rispetto agli altri settori economici. In questi paesi il settore rappresenta
in media circa il 6% dell'occupazione complessiva; nel decennio 1980-1990,
tuttavia, esso a contribuito a generare ben il 13% dei nuovi posti di lavoro,
una percentuale doppia rispetto al suo peso occupazionale (Salamon e Anheier,
1994).
TERZO SETTORE - NUOVA OCCUPAZIONE
E' proprio a partire da questi dati che molti hanno cominciato
a pensare al nonprofit come serbatoio di crescita occupazionale per paesi
afflitti da tassi di disoccupazione cronicamente elevati. Qualche cautela
è però opportuna, soprattutto nei confronti delle linee di
pensiero che fanno coincidere un peso occupazionale più elevato
del settore nonprofit con uno stadio più maturo del suo sviluppo,
e che presumono evoluzioni analoghe in paesi differenti. Questo ragionamento
si rivelerebbe infatti poco più che un inutile esercizio di meccanica
economica se non facesse i conti con il contesto in cui i diversi settori
nonprofit operano e, in primo luogo, con le politiche pubbliche che ne
condizionano l'esistenza.
Bisogna infatti osservare come in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti
- paesi spesso presi come termine di paragone - una parte assai elevata
dell'occupazione del settore nonprofit si concentri in due sole aree di
attività: la sanità e l'educazione; questi comparti generano
il 76% delle spese del settore nonprofit negli Stati Uniti, ed il 47% in
Gran Bretagna ed in Germania. In Italia, queste stesse aree di attività
vedono invece una presenza modesta sia di organizzazioni nonprofit che
di soggetti privati in genere; si tratta infatti di settori caratterizzati
da precise politiche pubbliche di intervento (il sistema sanitario nazionale
ed il sistema della scuola pubblica).
Le diversità di "contesto istituzionale" tra i paesi rendono
allora poco più che illusorio pensare che lo sviluppo del settore
nonprofit italiano nelle aree della sanità e dell'educazione possa
portare ad un sensibile incremento netto di occupazione: la creazione di
posti di lavoro nel settore nonprofit coinciderebbe infatti con l'analoga
distruzione di posti di lavoro pubblico, a meno di poter scommettere su
di un sostanzioso sviluppo della domanda - privata o pubblica - di servizi
sanitari ed educativi. Una crescita della occupazione del settore nonprofit
sarebbe la testimonianza di una semplice verità: le politiche pubbliche
nei confronti di questi settori hanno cambiato indirizzo, preferendo la
produzione effettuata da soggetti privati a quella effettuata dalla amministrazione
pubblica; che un simile esito sia poi auspicabile è oggetto di un
dibattito che non può essere affrontato in questa sede.
Queste considerazioni non significano però che il settore nonprofit
non possa creare occupazione aggiuntiva netta. E' più probabile
che ciò si verifichi nei comparti che meno dipendono dalla domanda
pubblica ed in servizi tradizionalmente ai margini del sistema di welfare.
In questi casi la crescita occupazionale potrebbe derivare dallo sviluppo
di una domanda che sino ad ora ha stentato a manifestarsi, e ciò
potrebbe dipendere sia da cambiamenti esogeni delle preferenze individuali
che dello sviluppo di offerte più flessibili o di migliore qualità.
Si pensi, ad esempio, al caso dei beni culturali ed artistici: l'incremento
della domanda potrà derivare sia dall'incremento del reddito procapite
- che accresce la domanda di beni immateriali e di servizi rispetto a quella
di beni materiali - come anche della capacità dell'offerta di rispondere
alle esigenze della domanda stessa in tema, ad esempio, di flessibilità
degli orari, di fruibilità del bene, di servizi accessori, di coinvolgimento
individuale e così via. é difficile (ma non impossibile)
pensare che in questi casi si possano sviluppare mercati particolarmente
remunerativi, tali da attrarre imprese a fine di lucro; non è però
insensato pensare alla presenza di imprese senza fine di lucro, che si
accontentino di tassi di remunerazione più modesti e sappiano coniugare
l'impegno di volontari e lavoratori retribuiti.
Ugualmente probabile è lo sviluppo delle organizzazioni nonprofit,
e della loro occupazione, in aree e "mercati" in cui gli aspetti motivazionali
e relazionali appaiono rilevanti; si pensi ad esempio a quella poco espressa
"domanda di intrattenimento" che non è facile separare dalla "domanda
di senso", di "socializzazione orientata", di "interazione significativa"
e così via. Ne sono esempio - sia pure su piani tra loro molto diversi
e con esiti contraddittori - molti bisogni che ancora non si traducono
in vera e propria domanda di mercato: il bisogno di educazione per
bambini ed adolescenti, che travalica l'ambito scolastico e che trova solo
risposte quantitativamente insufficienti (gli Scout) o parziali (i corsi
di istruzione disciplinare - il nuoto, la ginnastica, ecc. - che rappresentano
una risposta molto parziale al bisogno); il bisogno giovanile di aggregazione
che si esprime nei "centri sociali"; la richiesta adulta di "senso" che,
passata l'epoca dell'impegno politico, si è spesso orientata al
volontariato. La capacità di tradurre in domanda - e quindi di fare
passare attraverso mercati - alcuni di questi bisogni senza snaturarli
rappresenta una scommessa cui solo le organizzazioni nonprofit possono
rispondere (non il mercato e lo stato).
Ma anche nelle aree tradizionalmente considerate di welfare, dove il
primato pubblico è stato finora incontrastato, qualche mutamento
è possibile (e necessario). In questi casi, le organizzazioni nonprofit
potranno crescere sia come conseguenza del vincolo di bilancio dell'operatore
pubblico, che impedisce di soddisfare bisogni e domande aggiuntive, che
come risultato dello sviluppo di una domanda di varietà. In alcuni
casi le risposte pubbliche si rivelano insufficienti a soddisfare una domanda
già esistente: è il caso degli asilo nido (almeno a Milano),
dove la domanda eccede costantemente l'offerta e dove i soggetti razionati
sono costretti a fare affidamento sul mercato (spesso irregolare) delle
baby sitter, rivelando con ciò una elevata disponibilità
a pagare. In altri casi l'offerta pubblica non risponde alla esigenza di
diversificazione del servizio avanzata dalla domanda, come nel caso della
istruzione o di alcune aree dei servizi sociali.
La presenza di organizzazioni private che affianchino quelle pubbliche
può contribuire a rivitalizzare il sistema di welfare, restituendogli
consenso e contenendo l'impegno finanziario a carico del bilancio pubblico:
un passo nella direzione del welfare mix che molti auspicano.
TABELLE E BIBLIOGRAFIA
 
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