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Impresa & Stato n°37-38

 

LE NUOVE FUNZIONI DEL TERZO SETTORE 

Il ruolo del nonprofit fra Stato e mercato.
L'indirizzo della Comunità Europea. 
Lo stato dell'arte della legislazione in Italia

di
 GIOVANNA ROSSI
 
La grande attenzione che oggi viene riservata al tema del terzo settore indica nuovi interessi, necessità, esigenze funzionali e aspettative nei confronti di fenomeni che  sono speso stati collocati ai margini della cultura economica e politica. Essa ora, invece, pare quasi rivendicarne i diritti di scoperta (o - meglio sarebbe dire - i diritti di appropriazione). Per questo motivo è più che mai opportuno che la sociologia - come ambito super partes - cerchi di elaborare una interpretazione del fenomeno, mettendo in luce sia i suoi caratteri di novità sia quelli di radicamento profondo nella nostra società. 
Una prima osservazione di carattere generale che il sociologo può fare, assumendo un punto di vista più elevato rispetto alle diatribe nazionali, è che, mentre in Europa si assiste ad un rivalutazione del terzo settore da parte del mercato e al tentativo di "strapparlo" dall'orbita politica alla quale è finora stato subordinato, l'opposto accade negli Stati Uniti dove una nuova valorizzazione politica si sovrappone a quella consolidata di tipo economico (Donati, 1996 c.Dello stesso autore sono le citazioni virgolettate più avanti nel testo). 
Nel complesso, emerge una sorta di convergenza trans-continentale tra interessi economico-politici nel tentativo di far proprie le risorse e le strategie di un soggetto che, invece, ha conquistato uno spazio autonomo nell'arena societaria. 
Da dove deriva l'incapacità di attribuire al terzo settore una soggettività "alla pari" rispetto a Stato e mercato? Se la società moderna si dispiegava tutta nella dicotomia pubblico/privato, la società attuale, superando la "modernità" (post-moderna) è comprensibile solo utilizzando "categorie relazionali" e non dicotomiche, perché "tende a strutturarsi attorno a quattro polarità, di cui le prime due, mercato e Stato, sono un prodotto della modernità, mentre le altre due, e cioè le organizzazioni di terzo settore e le reti informali, rappresentano quelle sfere sociali autonome di privato sociale che ermergono al di là della modernità". Tuttavia l'influenza della cultura moderna è ancora molto forte, tanto da suscitare sentimenti ambivalenti nei confronti delle modalità di azione tipiche del terzo settore: da una parte se ne esorta lo sviluppo, dall'altra se ne travisano le finalità, in una logica dell'"usa e getta", nell'ambito della quale non riesce a maturare una vera "cultura associativa", unico rimedio all'isolamento sempre più marcato delle relazioni primarie (la famiglia, in primo luogo) rispetto ad una società in cui vince la differenziazione piuttosto che la solidarietà. 

LE REGOLE DELLA SUSSIDIARIETÀ 
Da punto di vista sociologico il terzo settore si configura come un soggetto autonomo delle dinamiche societarie e ciò gli deriva dal presentare cultura, normatività, operatività e ruolo sociale suoi propri: è l'ambito della solidarietà, che segue regole di scambio diverse da quelle del mercato e dello Stato e si struttura in forme organizzative peculiari, finalizzate sì (come lo Stato) alla realizzazione del "bene comune", ma diversificandosi dallo Stato perchè specializzata nella produzione di "beni comuni relazionali". I quattro poli dell'attuale assetto societario trovano una corretta rappresentazione all'interno del classico schema parsonsiano AGIL, rivisitato in un'ottica relazionale, in base alla quale il rapporto tra tutti gli attori non è gerarchico, ma paritetico e regolato da una relazione di sussidiarietà. 

             G Stato 
             A mercato 
             I terzo settore 
             L famiglia
 E' lo stesso ri-posizionamento del terzo settore nell'arena sociale che impone di rivedere le regole del gioco: se nell'epoca moderna l'incremento geometrico della complessità e della differenziazione hanno portato lo Stato ad assumere una posizione di massimo controllore per tutelare le libertà individuali, ora si è arrivati ad un grado tale di differenziazione sociale e di controllo statale, che la tutela delle libertà si è trasformata in deresponsabilizzazione delle sfere sociali, le cui le responsabilità e competenze sono state sussunte, inglobate da parte delle istituzioni pubbliche. 
Il nuovo impulso alle attività di terzo settore è il segnale inequivocabile che la contraddizione tra libertà e privazione delle responsabilità è entrata in un vicolo cieco dal quale si può uscire solo introducendo una logica di sussidiarietà tra stato, mercato e entità di livello inferiore (Colozzi, 1996). é la strada imboccata dalla Comunità Europea che sembra aver recepito molto chiaramente che l'integrazione europea può avvenire solo attraverso l'applicazione del principio di sussidiarietà. 
L'art. 32b del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 recita: "La comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario. L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato". L'idea di cittadinanza europea va dunque nella prospettiva del principio di sussidiarietà e "pone le basi perché le associazioni, che sono il livello intersoggettivo più prossimo ai cittadini, svolgano un ruolo fondamentale come documenta la recente proposta sull'istituzione di un'associazione europea formulata a Bruxelles1" (Boccacin, 1996: 2). All'interno di questo framework di riferimento acquista un nuovo significato sia l'individuazione dello spazio sociale occupato dalle organizzazioni di terzo settore in Italia sia la riflessione sull'impatto che i più recenti interventi legislativi hanno avuto sul terzo settore. 

IL "CHI È" DEL TERZO SETTORE 
Utilizzando i dati provenienti da un'indagine comparata basata su parametri prevalentemente economici, il terzo settore risulta avere in Italia dimensioni di tutto rispetto, impiegando circa 418.000 unità di lavoro standard retribuite, cioé l'1,8% del totale degli occupati nel nostro paese, più all'incirca 273.000 volontari, 15.000 obiettori di coscienza, 16.000 persone distaccate dal proprio datore di lavoro, che sommati ai lavoratori retribuiti, fanno toccare al settore nonprofit il 3,1% dell'occupazione totale nazionale (Barbetta, 1994: 6; 1996). Altrettanto significative sono le spese complessive sostenute dal terzo settore, che ammontano a circa 29.000 miliardi di lire (il 2,1% del PIL) (Barbetta, 1994: 6; 1996). 
Secondo una ripartizione ormai classica, le diverse organizzazioni del terzo settore in Italia possono essere di quattro tipi: 
il volontariato organizzato, la forma più tradizionale (sono 8.893 le organizzazioni censite nel 1994 dalla Fondazione Italiana per il Volontariato); 
la cooperazione sociale, la formula caratteristica del contesto italiano (sono 1.926 le cooperative sociali, secondo i dati aggiornati al giugno del 1993 della Lega Cooperative e della Confcooperative); 
l'associazionismo pro-sociale o sociale, lo strumento nuovo, che preme verso un riconoscimento sociale più ampio (il 28% dei soggetti tra i 18 ei 74 anni, sarebbe impegnato in un'associazione secondo i dati Iref del 1989); 
le fondazioni pro-sociali o di utilità sociale, un tipo di attività decisamente stabile, che ha rappresentato il canale classico dell'intervento sociale in Italia fino ad alcuni decenni fa, e che costuitiscono un'incognita pressoché totale sotto il profilo della conoscenza sociologica (Boccacin, 1996: 76-77). 
Negli ultimi anni ciascuna di queste forme organizzative di terzo settore si è ritagliata segmenti diversi nel terzo settore italiano (Cecop-Cgm, 1995: 89-90): mentre il volontariato organizzato (Rossi, Boccacin,1996) si è distinto per la capacità predisporre servizi difficilmente vendibili, nei quali si offre soprattutto ÇrelazionalitàÈ, la cooperazione sociale è decollata laddove era necessario fornire servizi che richiedevano complessità organizzativa  e professionalità (con l'impiego di lavoratori retribuiti). Per quanto concerne, poi, l'associazionismo pro-sociale (Maccarini,1996) che non ha ancora una chiara connotazione giuridica (non c'è ancora una precisa distinzione tra quello a finalità sociali e quello per scopi privati), risulta a tutt'oggi il meno idoneo ad operare imprenditorialmente. Il suo spazio specifico è quello di "favorire azioni di reciprocità" (Cecop-Cgm, 1995: 89-90), senza vendere le proprie prestazioni e con un utilizzo ridotto ai minimi termini di personale remunerato. Negli ultimi anni si è verificata una crescita di attenzione per questa forma di azione nonprofit , non solo da parte dei ricercatori, ma anche del sistema politico e dell'opinione pubblica, come testimoniano le indagini dell'Iref (1990, 1993). Le fondazioni pro-sociali, invece, escludendo quelle finalizzate alla mera distribuzione di fondi per attività sociali, culturali, ecc., risultano essere le organizzazioni forse più "fortemente strutturate, capaci di operare in modo continuativo e professionale e spesso legate in modo determinante al patrimonio di un mecenate" (Cecop-Cgm, 1995: 90), anche se i casi in cui gruppi di privati cittadini uniscono le forze per dar vita ad una fondazione sono sempre più diffusi a conferma che la formula della fondazione risulta ancora vincente nel nostro contesto (Boccacin,1996). 

MA LO STATO SI ARROGA TROPPO 
La farraginosità del percorso verso la creazione di una normativa che tuteli e promuova le attività di terzo settore dipende soprattutto dall'assenza di un approccio ÇintegraleÈ al problema. Così, come prodotto di un dibattito giuridico che oscilla su obiettivi altalenanti, è nata una legislazione a compartimenti stagni (da una parte associazioni e fondazioni, da un'altra organizzazioni di volontariato, da un'altra ancora cooperazione sociale) che, facendo leva sulla diversità di trattamento fiscale come fattore di promozione di alcune attività rispetto ad altre, genera un "sistema" di ineguaglianze tra profit e nonprofit e tra le stesse organizzazioni nonprofit. 
Gli interventi legislativi vanno tutti nel segno di una legittimazione per via istituzionale di un fenomeno che istituzionale non è, secondo modalità che, anzichè introdurre criteri ispirati al principio di sussidiarietà, incrementano la dipendenza e bloccano l'autonomia. Nel complesso, comunque, gli interventi legislativi sul volontariato organizzato e sulla cooperazione sociale hanno il pregio di giungere a una legittimazione di un ampio settore dell'attività nonprofit, che "consente di formalizzare i rapporti con gli enti pubblici togliendoli dal rischio della discrezionalità" (Boccacin, 1994a: 213), di instaurare proficui rapporti di partnership tra settore nonprofit ed istituzioni. 
L'ultimo intervento legislativo sul terzo settore costituisce anche il primo tentativo di accomunare in un unico provvedimento più tipologie non profit (volontariato organizzato, cooperative sociali e organizzazioni non governative). Nell'art. 3 della Legge collegata alla "Finanziaria" per il 1997 compare la Legge delega in materia di "organizzazioni non lucrative di utilità sociale" (ONLUS): in cinque "commi" (dal 188 al 192) si esprime una definizione dei soggetti che rientrano in tale categoria e si delineano i principi e i criteri direttivi ai quali deve ispirarsi la disciplina tributaria alla quale i medesimi soggetti devono assoggettarsi. 
Tuttavia, la stessa collocazione della nuova normativa, nell'ambito della "Finanziaria", indica che la strada da percorrere verso una piena comprensione e valorizzazione del fenomeno è ancora molto lungo. Ancora una volta viene utilizzato lo strumento della legge finanziaria per effettuare, in forma "impropria" o quantomeno indiretta, interventi di politica sociale. Questa che nel nostro paese comincia ad essere una prassi consolidata mette in risalto la natura subordinata (e non sussidiaria) che le politiche sociali tuttora mantengono in Italia rispetto alle politiche economiche. Nel tempo, tale modalità genera un'acquiescenza nei confronti di uno stile programmatorio totalmente fondato sui vincoli di bilancio che diventano, di fatto, il solo criterio ordinatore delle politiche sociali (Rossi, 1993). 
Venendo ad un'analisi più dettagliata dell'approccio della legge delega al terzo settore, si possono fare alcune considerazioni critiche sintetiche: 
Si evidenzia una forte posizione dello Stato centrale, che resta il referente decisionale ultimo, mentre non viene stimolato un ruolo attivo delle Regioni o degli Enti locali e/o degli organismi amministrativi periferici che potrebbero realizzare una forma di controllo positiva, incentivante e non solo inquisitoria. Lo Stato esprime anche una chiara volontà di arrogarsi il diritto di definire i requisiti soggettivi delle attività di interesse collettivo di finalità sociale: la relazione tra lo Stato ed il terzo settore emerge, così, ancora una volta, nella prospettiva della subordinazione e non della "sussidiarietà" (Koslowski 1997). Nel complesso, la relazionalità con il mercato risulta essere debole. D'altra parte, in Italia la relazione tra terzo settore e mercato è tuttora in una fase iniziale, e sembra seguire una via indiretta di legame, mentre altrove (ad esempio in Gran Bretagna e in Germania) essa è maggiormente consolidata e perseguita attraverso forme dirette di sostegno. 
Il terzo settore viene a coincidere, nella legge delega, con le ONLUS. Comprende le realtà che tradizionalmente sono in esso inscritte (volontariato, cooperative sociali, organizzazioni non governative), mentre manca un riferimento esplicito all'associazionismo sociale. La difficoltà ad arrivare ad una comprensione piena del fenomeno del terzo settore in tutte le sue diverse espressioni dipende probabilmente dalla mancanza di una legge quadro nazionale che affronti in modo organico il problema dei presupposti e dei requisiti degli organismi che afferiscono al terzo settore. La normativa non prevede, tra l'altro uno specifico coordinamento tra soggetti diversi di terzo settore o soggetti che operano in un medesimo ambito di intervento indebolendo in tal modo la loro relazionalità "interna". 
In conclusione, sulla strada verso la piena valorizzazione della soggettività sociale del terzo settore restano parecchi ostacoli. 
Risulta difficile ipotizzare che si possa perseguire un'effettiva promozione del terzo settore nel suo complesso attraverso una norma di natura tributaria. Il rischio è ancora quello di stabilizzarlo in una posizione residuale, proprio a seguito di un intervento legislativo che si ferma alla questione fiscale. Il dilemma fondamentale resta, così, quello tra sussunzione o sussidiarietà rispetto allo Stato. Ed anche nel caso in cui la cultura istituzionale si posizioni sul secondo principio, è necessario che non resti ad un puro livello teorico, ma si trovino le soluzioni adeguate per trasformarlo in strumenti tecnici di attuazione. 

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