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Impresa & Stato n°37-38

L'ECONOMIA MORALE PUO' ESSERE EFFICIENTE?

Come coniugare solidarietà e razionalità economica? 
I modelli possibili di azienda nonprofit e i costi di transazione.
Un rischio: l'autoreferenzialità 

di
 MAURIZIO AMBROSINI
 
Il mondo del nonprofit pone alla riflessione organizzativa e socio-economica una questione interessante: come è possibile conseguire obiettivi di efficienza e razionalità economica, a partire da gruppi di persone che si associano perché sono motivate da valori solidaristici e provengono da percorsi di impegno al servizio di varie forme di marginalità e disagio sociale. 
Gran parte del dibattito americano, che tende a spiegare lo sviluppo del nonprofit a partire dai fallimenti dello Stato o da quelli del mercato, non coglie questo aspetto essenziale della questione: il ruolo delle motivazioni dei partecipanti, delle relazioni intersoggettive che li uniscono, delle forme di "economia morale" a cui danno luogo, ove "il comportamento è basato sulla fiducia, gli standard normativi sono condivisi e l'opportunismo evitato" (Granovetter, 1995, p.105). Come nota Zan, con riferimento a James, 1987, "le teorie sulle non profit ignorano che, e non spiegano come mai, la stragrande maggioranza di queste organizzazioni è espressione di gruppi religiosi o comunque a forte identità e caratterizzazione ideologica" (1996, p.139). 
Va notato in premessa che esistono problemi di tipologia organizzativa e di dimensioni, che rendono difficile affrontare in maniera unitaria un discorso sul nonprofit, in cui confluisce un arcipelago assai eterogeneo di forme giuridiche, tipi di iniziative, grado di orientamento ad una gestione più "aziendale", oppure più vicina alle forme tipiche del gruppo di volontariato. Conviene allora esplicitare il fatto che le osservazioni qui esposte si basano su alcune ricerche condotte nell'area milanese su organizzazioni di piccole e medie dimensioni (Ambrosini, a cura di, 1991; Ambrosini, a cura di, 1994; Ambrosini, Lodigiani, 1997). 

UNA TIPOLOGIA DEL NONPROFIT 
In termini generali, si può sostenere che si tratta di enti che presentano una peculiare complessità organizzativa, difficilmente comparabile con quella di imprese di dimensioni analoghe. Al prezzo di qualche schematizzazione, si può infatti notare sinteticamente che si tratta di organizzazioni che nascono da laboriosi processi di gestazione, non potendo essere create con la stessa facilità delle imprese economiche, e presentano il problema del mantenimento del "clima" organizzativo efficace; si giovano del contributo di un complesso di risorse umane alquanto articolato, con tipi differenti di rapporto con la struttura e con gradi diversi di coinvolgimento nelle sue attività (operatori dipendenti, professionisti esterni, volontari, sostenitori a vario titolo, talvolta persone che vivono e lavorano all'interno dell'ente); richiedono in ogni caso un alto grado di motivazione personale agli operatori e collaboratori, in quanto si basano essenzialmente su incentivi "impliciti" (la condivisione degli obiettivi organizzativi) e in una certa misura "solidaristici" (la positività del lavorare insieme, in un clima informale e amicale), mentre hanno difficoltà ad attivare incentivi di tipo materiale (per questa tipologia, il riferimento è a Clark e Wilson, 1961); comportano una forte collaborazione e integrazione reciproca, che non può essere prodotta attraverso rapporti gerarchici di tipo tradizionale. 
La ricerca "L'efficienza della solidarietà" ci ha consentito però di individuare anche  i diversi modelli organizzativi in cui si declinano queste coordinate di fondo. Se la sfida è quella di inventare e costruire giorno per giorno un'imprenditorialità solidale, rielaborando logiche e strumenti della cultura aziendale al servizio di obiettivi  di promozione sociale, la ricerca svolta ci dice infatti  che la strada dell'aziendalizzazione non è univoca e lineare. 

IL NUCLEO E LA RETE  
Le organizzazioni studiate si dispongono secondo un ventaglio piuttosto articolato di soluzioni, che tentiamo di sintetizzare nella seguente tipologia. Va precisato che non intendiamo formulare giudizi di valore: non esiste un modello necessariamente migliore degli altri, né un'evoluzione necessaria da forme più semplici a impostazioni più complesse. Inoltre, come sempre avviene, la realtà è più ricca e sfumata delle tipizzazioni disegnate in sede interpretativa. 
Un primo modello può essere definito in termini di nucleo irradiante. Si tratta della soluzione più vicina al gruppo di volontariato in senso stretto, dal momento che solo un ristretto numero di operatori lavora stabilmente per l'ente e coordina il lavoro di una cerchia molto più ampia di consulenti, collaboratori per vari tipi di prestazioni, volontari. Il consolidamento di un nucleo professionale efficiente è dunque il perno attorno a cui ruota un'organizzazione non tradizionale, a cui concorrono, come tessere di un mosaico, apporti ben definiti e caratterizzati per un certo tipo di prestazione, di disponibilità temporale, di servizio tecnico-professionale. Questa configurazione si può poi articolare in due sottotipi: uno in cui il nucleo è costituito dai responsabili dell'ente o da personale qualificato, che dirige anche sotto il profilo professionale l'effettuazione del servizio; un altro in cui il nucleo è formato da personale di segreteria, con incombenze amministrative e di coordinamento operativo delle prestazioni effettuate da professionisti e volontari. Il primo sottotipo tende quindi ad una maggiore professionalizzazione, il secondo al rafforzamento e alla razionalizzazione dell'impegno volontario originario. 
Un secondo modello è quello della micro-impresa alternativa, che tenta di combinare competitività sul mercato e solidarietà sociale. Nata per offrire sbocchi occupazionali a soggetti deboli o per rispondere a forme di emarginazione non adeguatamente coperte dai servizi esistenti a livello locale, si trova a dover reperire risorse e opportunità di lavoro per sopravvivere e consolidarsi. La formula della cooperazione sociale è in genere quella a cui si ricorre per assumere una fisionomia giuridica ed economica adeguata. A rafforzare le scelte in direzione della micro-impresa alternativa concorrono  anche le sollecitazioni esterne. Sempre più spesso, i rapporti con gli enti locali che ne avevano inizialmente agevolato i primi passi, si sono involuti o deteriorati: i servizi pubblici, sottoposti alla necessità di contenere la spesa, riducono o eliminano contributi e sovvenzioni; ritardano le erogazioni seminando incertezza; introducono regolamentazioni più restrittive e burocratizzate. Soprattutto, tendono a contrattualizzare il rapporto con gli enti, affidando loro specifici servizi sulla base di regolari gare d'appalto. Di qui deriva una forte spinta ad assumere un taglio aziendale e a competere, soprattutto sul mercato dei servizi esternalizzati dalle amministrazioni pubbliche. 
Un terzo modello, più complesso, è quello del network, che si caratterizza per la molteplicità delle iniziative collegate, sorte a catena da un ceppo comune, in base ad  una continua analisi dei bisogni del territorio, coniugata con una peculiare genialità imprenditoriale, in termini di capacità di cogliere opportunità legislative, di convogliare risorse pubbliche e private, di elaborare e gestire  progetti innovativi. La cooperazione con i soggetti pubblici è per forza di cose molto intensa e continuativa, pur risentendo anch'essa della difficile congiuntura politico-economica. Ma cruciale è anche il rapporto con la società civile, con istituzioni locali come quelle scolastiche, con le imprese, con  altre forze sociali e soggetti associativi, allo scopo di realizzare varie  attività in partnership. Un aspetto tipico è la promozione di forme specifiche di volontariato e di associazioni di "amici", con compiti di collegamento, di sensibilizzazione della società locale e di fund raising. 
Un quarto modello è quello della comunità familiare, in cui tendono a convergere sia esperienze innovative di accoglienza residenziale, sia istituzioni tradizionali che si sono adeguate a nuove forme di intervento sul disagio, anche per la pressione di specifiche normative. In questa configurazione, si tende prioritariamente a promuovere una maggiore informalità dei rapporti interni, una certa destrutturazione dei ruoli tradizionali e una partecipazione attiva dei soggetti assistiti, in vista del loro reinserimento sociale. Si punta a migliorare sia la fase di screening e di accoglienza, spesso in collaborazione con i servizi pubblici, sia la fase di fuoruscita dall'esperienza comunitaria, con soluzioni ponte di post-comunità. Gli aspetti di gestione aziendale sono in genere lasciati in secondo piano, affidati a figure amministrative tradizionali, anche per la maggiore certezza dei finanziamenti pubblici. Compare semmai l'intento di realizzare prodotti vendibili come momento educativo e di coinvolgimento degli ospiti. 
Il quinto modello è definibile come castello rinnovato, e si applica a quelle istituzioni che sono rimaste tali, ma hanno attuato uno sforzo di rinnovamento strutturale, di ripensamento dei servizi e di miglioramento gestionale. L'istituzione mantiene quindi visibilità, riconoscimento sociale, collegamento organico con il territorio. Anche le dimensioni, il numero degli ospiti, il volume del personale dipendente rimangono ragguardevoli ed hanno un impatto sociale ed economico di una certa importanza nell'ambito locale. L'istituzione si articola però maggiormente all'interno, sia in termini di servizi, sia di procedure amministrative, sia per la dotazione di risorse umane: si procede a revisioni organizzative e gestionali (per esempio, introducendo il controllo di gestione), si ricorre ad un maggior numero di persone qualificate, sia in campo assistenziale sia nei ruoli dirigenziali, si prevedono degli spazi per nuove attività (socializzazione, riabilitazione, medicina preventiva, ecc.), si tende ad intensificare i rapporti con l'ambiente esterno. Il rapporto con il volontariato, pur essendo oggetto di un'attenzione più specifica, è  visto però in genere come una dimensione accessoria e spesso discontinua dell'attività dell'ente. Il castello diventa in definitiva, più accogliente, più variegato negli spazi e nelle strutture, più propenso a tenere abbassato il ponte levatoio, pur mantenendo la sua fisionomia istituzionale. 

ORGANIZZAZIONI NONPROFIT E GESTIONE DEI COSTI DI TRANSAZIONE 
Tentiamo a questo punto di riprendere la domanda iniziale: come si muovono  queste organizzazioni per coniugare razionalità ed efficienza? Uno spunto utile, per quanto riguarda le dinamiche interne delle organizzazioni, è quello che deriva da alcuni esiti delle ricerche degli economisti neo-istituzionalisti intorno al tema dei "costi di transazione", imperniate in modo particolare da Williamson sulla coppia mercato-gerarchia. E' una corrente di pensiero che è stata oggetto di pungenti critiche da parte della nuova sociologia economica, che le ha imputato fra l'altro di non cogliere adeguatamente il problema della fiducia nelle transazioni economiche, sovrastimando l'efficacia del potere gerarchico come risposta all'opportunismo negli scambi di mercato (cfr. Granovetter, 1995). Tuttavia, mi pare che alcuni spunti della posizione neo-istituzionalista possano aiutare a cogliere aspetti importanti delle relazioni di lavoro all'interno delle organizzazioni  nonprofit. 
In modo particolare Butler ha sostenuto l'insufficienza della coppia mercato-gerarchia per spiegare la formazione e il funzionamento delle imprese e più in generale delle organizzazioni. Egli introduce così un terzo modo transazionale, che propone di denominare "collettivo", in cui "gli scambi sono mediati da rapporti affettivi, da coerenza di idee e da comunanza di scopi, non ottenibili col mercato o con la gerarchia" (1985, p.378). La transazione viene poi scomposta in due fattori: il feedback, inteso come la quantità di comunicazione e di aggiustamento che avviene durante una transazione, e la collaborazione, vista come un mezzo per economizzare sulle comunicazioni, in seguito alla riduzione delle esigenze di controllo. Va aggiunto che la "collaborazione al momento presente rappresenta delle comunicazioni svoltesi nel passato" e che quindi sussiste un "costo di avviamento" della collaborazione (p.323). Ora il collettivo, nello schema di Butler sotto riportato, rappresenta l'estremo più alto nelle due dimensioni del feedback e della collaborazione: si tratta quindi della più comunicativa e cooperativa delle modalità organizzative. Il coordinamento avviene essenzialmente per "mutuo adattamento" (Thompson, 1967); l'autorità, diversamente dalla forma gerarchica, risiede nella "capacità di un comportamento autodisciplinato, cooperativo", ed è esercitata dalla collettività nella sua interezza, pur contemplando quella che viene definita, seguendo Weber, "una forma affettiva di autorità" (p.328). Il contratto diviene quello di appartenenza, che implica impegno e fiducia, può essere rotto solo in caso di grave devianza, e richiede pertanto molta attenzione nell'ammissione dei nuovi membri. Occorre infine diffondere e mantenere i valori comuni, attraverso un'intensa attività di comunicazione, in modo che la collaborazione possa essere conservata per future transazioni. 
I problemi tipici del collettivo, secondo questa impostazione, sono di tre ordini: 
il sovraccarico di informazioni, dal momento che il collettivo, nella sua forma pura, è simile "a una rete di comunicazione totale, o a un gruppo di pari in cui ognuno comunica con tutti gli altri": ad esso si può rimediare diminuendo le dimensioni del gruppo, oppure muovendo verso una semplice forma gerarchica; 
il collasso di fiducia, derivante per esempio dalla formazione di un'oligarchia, da forme di free riding o comunque da spinte all'appropriazione individualistica dei benefici dell'organizzazione; 
la selezione dei nuovi membri, la cui affidabilità è sempre difficile da valutare e può essere misurata solo indirettamente e per gradi successivi. 
Butler  infine sposta su un piano più generale le sue osservazioni sulle transazioni interne alle organizzazioni. L'analisi del funzionamento dei collettivi si amplia in termini di critica collettivistica all'organizzazione di mercato, basata sull'assunto del fondamentale egoismo e della sfiducia reciproca tra i contraenti delle transazioni: "costruire una società sulla competizione e la sfiducia, anche se efficiente nel breve termine, alimenta semplicemente ulteriore sfiducia" (p.345). Lo sviluppo di organizzazioni e imprese con finalità solidaristiche, si potrebbe chiosare, è invece un fattore che può contribuire a diffondere valori di fiducia e aiuto reciproco nella società più ampia. 
Mi sembra invece vada specificato che la fiducia e il consenso interno non nascono dal nulla e non possono essere considerati acquisiti una volta per tutte. Qui la lezione della nuova sociologia economica va ripresa, ponendo l'accento sui contesti sociali da cui provengono i protagonisti delle iniziative nonprofit: quegli ambienti del volontariato e dell'associazionismo sociale  capaci di mobilitare risorse e  di generare motivazione all'impegno altruistico. Se le organizzazioni nonprofit possono contare su un capitale sociale di fiducia e di entusiasmo, è perché a loro volta lo ricevono da un retroterra sociale e culturale in cui idealmente affondano le radici, e che certo possono contribuire ad alimentare. 
Il concetto di network, così rilevante per la nuova sociologia economica (Granovetter, 1995; Uzzi, 1996), è a sua volta particolarmente significativo per analizzare il funzionamento delle organizzazioni nonprofit: esse vivono di intensi rapporti con l'ambiente sociale, economico e istituzionale in cui sono inserite. I loro referenti esterni hanno un'importanza vitale per assicurare accreditamento, risorse umane (anche nella tipica forma del lavoro volontario e di prestazioni professionali gratuite o prodotte a costi sensibilmente inferiori ai valori di mercato), canali di finanziamento (anche in questo caso, si può accennare al fenomeno emblematico delle elargizioni liberali), raccordi con le istituzioni locali. A loro volta si attendono una risposta ai problemi sociali della comunità locale, e contribuiscono allo sviluppo delle iniziative di terzo settore in quanto le vedono come agenzie in grado di fornire risposte concrete ed efficienti a situazioni di marginalità e disagio sociale. 
E' evidente però che non tutte le organizzazioni nonprofit riescono ad attivare questi processi. Al di là di affermazioni apodittiche sulle virtù del terzo settore,  occorre ormai pervenire ad analisi più disincantate delle diversità all'interno del nonprofit, anche in termini di risorse etiche attivate e risultati solidaristici prodotti. Così come sul mercato normale operano imprese sane  e corrette, e altre che non lo sono, anche nella galassia del nonprofit va riconosciuto che vi sono iniziative più capaci di coniugare valori solidaristici ed efficienza operativa, e altre meno valide o semplicemente sbilanciate sul versante "imprenditoriale" e pertanto più povere di connotazioni sociali. 

INTRAPRENDERE PER GLI ALTRI: SPUNTI DA UNA RICERCA 
Tenterò ora di applicare questo schema interpretativo ai risultati della nostra recente ricerca "Intraprendere per gli altri", basata sullo studio di sei cooperative sociali dell'area milanese, operanti per l'inserimento lavorativo di soggetti deboli (Ambrosini, Lodigiani, 1997). 
Rispetto al funzionamento interno, la messa a fuoco del problema dei costi di transazione secondo la versione di Butler implica il fatto che le imprese nonprofit devono affrontare difficoltà e vincoli rilevanti per riuscire a creare e ad alimentare quel "collettivo" solidale che poi però può riuscire a sviluppare forme non convenzionali ma efficaci e persino efficienti  di azione economica. Organizzazioni basate su una forte lealtà e fiducia reciproca tra i membri, su un consenso sociale diffuso nella comunità locale, su reti di relazioni intersoggettive e istituzionali, possono trovare soluzioni vincenti ad alcuni dei maggiori problemi che travagliano le imprese tradizionali: quei costi di transazione che all'interno sono  generati dalla scarsa coesione, e si manifestano sotto forma di conflitti, necessità di supervisione abbastanza stretta del lavoro dipendente, ricorso a varie forme di controllo amministrativo, affidamento ad incentivi materiali per poter accrescere il consenso e la dedizione dei membri; e che anche all'esterno implicano investimenti di varia natura per accrescere la visibilità, il consenso, l'affidabilità dei rapporti che le imprese intrattengono con l'ambiente in cui operano. 
Per questo, nella letteratura organizzativa da alcuni anni si manifesta un interesse per le logiche e i dispositivi di gestione delle organizzazioni senza scopo di lucro.  Anche le imprese tradizionali, in un certo senso, avvertono  più o meno esplicitamente il bisogno di imparare qualcosa dalle realtà che hanno obiettivi diversi da quelli del profitto, quando per esempio avvertono il limite dei soli incentivi economici, puntano a rafforzare la lealtà e il senso di appartenenza, incoraggiano il coinvolgimento e la partecipazione dei membri. La tav. 1 pone a confronto i rispettivi costi e vantaggi delle imprese orientate al profitto e delle organizzazioni nonprofit  nella gestione dei costi di transazione. 
Alla luce della ricerca, l'elemento organizzativo  che in parecchi casi consente  di quadrare il cerchio tra i costi della partecipazione diffusa e i vantaggi del collettivo butleriano, è la centralità di una leadership carismatica. Per le cooperative sociali, come per altre organizzazioni del terzo settore, una guida carismatica rappresenta  spesso una risorsa fondamentale. Un leader di questo tipo ha la capacità di coagulare le energie, di reperire le risorse necessarie, di entusiasmare collaboratori e sostenitori, di facilitare i rapporti con le istituzioni locali. Inoltre, nel funzionamento operativo, la centralizzazione dell'autorità nelle mani di un leader indiscusso apporta una serie di vantaggi: unicità del comando, rapidità di decisione, contenimento dei conflitti interni. In altri termini, la leadership  carismatica contribuisce notevolmente ad abbattere quei costi di transazione che abbiamo analizzato, abbinando la snellezza direttiva della piccola impresa con il coinvolgimento personale delle organizzazioni "normative", quelle cioè in cui la condivisione dei fini è incentivo sufficiente a promuovere la partecipazione. 
Ma la leadership carismatica ha a sua volta dei limiti. Se il leader non riesce a far crescere dei collaboratori capaci e autonomi, la sua "defezione",  motivata per esempio dall'assunzione di altri impegni rischia di compromettere la sopravvivenza della cooperativa. Inoltre, leadership forti, accentratrici, capaci comunque di risolvere in qualche modo i problemi, grazie anche  alla rete di rapporti su cui possono contare (per esempio, attivando qualche benefattore per far fronte a spese impreviste), possono bloccare inconsapevolmente lo sviluppo di un'organizzazione aziendale più razionale, efficiente,  tesa a far crescere effettive competenze gestionali. Per uno sviluppo equilibrato e duraturo delle organizzazioni nonprofit,  occorre quindi che i leader carismatici, così preziosi nella fase di avvio e di promozione dell'esperienza, siano capaci di creare attorno a sé un gruppo dirigente capace e autonomo, in grado di gestire la transizione dall'entusiasmo dell'avventura all'opacità del quotidiano. 
Non è scontato però che l'evoluzione organizzativa da un modello imparentato con il collettivo butleriano a stili più prossimi a quelli "aziendali" sia da vedere in termini univocamente positivi. Nella nostra  ricerca su cooperazione sociale e inserimento lavorativo dei soggetti deboli,  oltre ad una "dialettica della leadership", abbiamo identificato anche una "dialettica dell'aziendalizzazione" (Ambrosini, Lodigiani, 1997).  Le cooperative sociali rappresentano  una figura molto peculiare nell'ambito dei rapporti tra società ed economia. Il loro percorso si caratterizza come il tentativo di dare una forma economicamente razionale e sostenibile alle istanze solidaristiche da cui prendono le mosse. La sfida che devono affrontare è certo quella di dotarsi di un'adeguata "cultura dei mezzi" per inverare le proprie motivazioni originarie. Questo arduo scoglio seleziona in modo drastico la  popolazione  potenziale degli aspiranti cooperatori e dirigenti di imprese sociali. Richiede una impostazione strategica accurata, una formazione adeguata, la disponibilità di risorse sufficienti (capitali, ma anche conoscenze del mercato, capacità gestionali, consenso sociale, ecc.). Condiziona e limita  la stessa ampiezza degli obiettivi di inserimento occupazionale dei soggetti deboli. E quasi inevitabilmente, se non viene controbilanciato da altre forze, produce un contrasto  tra obiettivi economici (bilanci in pareggio, possibilità di operare nuovi investimenti, ecc.) e obiettivi sociali. In altri termini: per reggere la concorrenza, guadagnare efficienza e farsi spazio nel mercato, si rischia di limitare  il progetto di inserimento non solo a pochi soggetti, ma anche ai più efficienti e produttivi tra i  soggetti deboli. Inoltre, imprese sociali nate dal volontariato,  in stretto rapporto con mondi vitali capaci di fornire risorse motivazionali e materiali di varia natura, tendono quasi inevitabilmente a rendersi più autonome, auto-referenziali, organizzate secondo criteri più aziendali. Ma questo processo, fisiologico e salutare per molti aspetti, se va al di là di una certa soglia rischia di compromettere quel flusso di consenso e di comunicazione quasi osmotica tra l'impresa sociale e il contesto in cui affonda le proprie radici. Sotto il profilo economico, il rischio è quello di diventare piccole imprese obbligate a competere con durezza in interstizi sovraffollati del mercato. Sotto il profilo sociale, il rischio è quello di una perdita dell'identità originaria. 
Esistono certamente diversi gradi di "socialità" dell'impresa, anche nella forma giuridica della cooperativa sociale. Ma la specificità di questa forma di impresa consiste proprio nella combinazione tra valori solidaristici e razionalità economica. Operare tra questi due universi di valori e di approcci è certamente arduo e talvolta sfibrante. Eppure, mantenere il pur difficile equilibrio tra queste due dimensioni mi sembra la condizione saliente per alimentare quel consenso sociale e quel radicamento comunitario che risulta essere così prezioso per lo sviluppo delle iniziative e per la loro affermazione nel contesto locale da cui sono sorte. 

Tav.1. Costi e vantaggi nelle transazioni delle imprese orientate al profitto e delle organizzazioni nonprofit
Costi di transazione dell'impresa profit  Costi di transazione delle organizzazioni nonprofit 
Incertezza sulla condivisione degli obiettivi  Difficoltà di costituzione e decollo 
Necessità di un controllo abbastanza stretto sul lavoro dipendente  Necessità di un elevato consenso interno e una diffusa condivisione delle scelte d'impresa 
Costi di definizione e amministrazione dei contratti di lavoro  Maggiore complessità e possibile lentezza dei processi decisionali 
Difficoltà ad andare oltre gli incentivi materiali  Difficoltà nell'utilizzare incentivi materiali 
Conflittualità interna (esplicita o latente) derivante dalla contrapposizione tra managers e managed  Difficoltà a stabilire rapporti con altri attori economici (imprese, banche, ecc.) orientati al profitto 
Vantaggi dell'impresa profit nella gestione delle transazioni  Vantaggi delle organizzazioni nonprofit nella gestione delle transazioni 
Centralizzazione del potere  Coesione interna e fluidità dei rapporti di lavoro 
Rapidità e linearità dei processi decisionali  Elevata condivisione degli obiettivi
Facilità di accreditamento presso altri attori economici  Maggiori opportunità di consenso e accreditamento nella comunità locale 
Possibilità di utilizzare agevolmente incentivi economici  Importanza degli incentivi solidaristici e impliciti