Impresa & Stato n°37-38
L'ECONOMIA MORALE PUO' ESSERE EFFICIENTE?
Come coniugare solidarietà e razionalità economica?
I modelli possibili di azienda nonprofit e i costi di transazione.
Un rischio: l'autoreferenzialità
di
MAURIZIO
AMBROSINI
Il mondo del
nonprofit pone alla riflessione organizzativa e socio-economica una questione
interessante: come è possibile conseguire obiettivi di efficienza
e razionalità economica, a partire da gruppi di persone che si associano
perché sono motivate da valori solidaristici e provengono da percorsi
di impegno al servizio di varie forme di marginalità e disagio sociale.
Gran parte del dibattito americano, che tende a spiegare lo sviluppo
del nonprofit a partire dai fallimenti dello Stato o da quelli del mercato,
non coglie questo aspetto essenziale della questione: il ruolo delle motivazioni
dei partecipanti, delle relazioni intersoggettive che li uniscono, delle
forme di "economia morale" a cui danno luogo, ove "il comportamento è
basato sulla fiducia, gli standard normativi sono condivisi e l'opportunismo
evitato" (Granovetter, 1995, p.105). Come nota Zan, con riferimento a James,
1987, "le teorie sulle non profit ignorano che, e non spiegano come mai,
la stragrande maggioranza di queste organizzazioni è espressione
di gruppi religiosi o comunque a forte identità e caratterizzazione
ideologica" (1996, p.139).
Va notato in premessa che esistono problemi di tipologia organizzativa
e di dimensioni, che rendono difficile affrontare in maniera unitaria un
discorso sul nonprofit, in cui confluisce un arcipelago assai eterogeneo
di forme giuridiche, tipi di iniziative, grado di orientamento ad una gestione
più "aziendale", oppure più vicina alle forme tipiche del
gruppo di volontariato. Conviene allora esplicitare il fatto che le osservazioni
qui esposte si basano su alcune ricerche condotte nell'area milanese su
organizzazioni di piccole e medie dimensioni (Ambrosini, a cura di, 1991;
Ambrosini, a cura di, 1994; Ambrosini, Lodigiani, 1997).
UNA TIPOLOGIA DEL NONPROFIT
In termini generali, si può sostenere che si tratta di enti
che presentano una peculiare complessità organizzativa, difficilmente
comparabile con quella di imprese di dimensioni analoghe. Al prezzo di
qualche schematizzazione, si può infatti notare sinteticamente che
si tratta di organizzazioni che nascono da laboriosi processi di gestazione,
non potendo essere create con la stessa facilità delle imprese economiche,
e presentano il problema del mantenimento del "clima" organizzativo efficace;
si giovano del contributo di un complesso di risorse umane alquanto articolato,
con tipi differenti di rapporto con la struttura e con gradi diversi di
coinvolgimento nelle sue attività (operatori dipendenti, professionisti
esterni, volontari, sostenitori a vario titolo, talvolta persone che vivono
e lavorano all'interno dell'ente); richiedono in ogni caso un alto grado
di motivazione personale agli operatori e collaboratori, in quanto si basano
essenzialmente su incentivi "impliciti" (la condivisione degli obiettivi
organizzativi) e in una certa misura "solidaristici" (la positività
del lavorare insieme, in un clima informale e amicale), mentre hanno difficoltà
ad attivare incentivi di tipo materiale (per questa tipologia, il riferimento
è a Clark e Wilson, 1961); comportano una forte collaborazione e
integrazione reciproca, che non può essere prodotta attraverso rapporti
gerarchici di tipo tradizionale.
La ricerca "L'efficienza della solidarietà" ci ha consentito
però di individuare anche i diversi modelli organizzativi
in cui si declinano queste coordinate di fondo. Se la sfida è quella
di inventare e costruire giorno per giorno un'imprenditorialità
solidale, rielaborando logiche e strumenti della cultura aziendale al servizio
di obiettivi di promozione sociale, la ricerca svolta ci dice infatti
che la strada dell'aziendalizzazione non è univoca e lineare.
IL NUCLEO E LA RETE
Le organizzazioni studiate si dispongono secondo un ventaglio piuttosto
articolato di soluzioni, che tentiamo di sintetizzare nella seguente tipologia.
Va precisato che non intendiamo formulare giudizi di valore: non esiste
un modello necessariamente migliore degli altri, né un'evoluzione
necessaria da forme più semplici a impostazioni più complesse.
Inoltre, come sempre avviene, la realtà è più ricca
e sfumata delle tipizzazioni disegnate in sede interpretativa.
Un primo modello può essere definito in termini di nucleo irradiante.
Si tratta della soluzione più vicina al gruppo di volontariato in
senso stretto, dal momento che solo un ristretto numero di operatori lavora
stabilmente per l'ente e coordina il lavoro di una cerchia molto più
ampia di consulenti, collaboratori per vari tipi di prestazioni, volontari.
Il consolidamento di un nucleo professionale efficiente è dunque
il perno attorno a cui ruota un'organizzazione non tradizionale, a cui
concorrono, come tessere di un mosaico, apporti ben definiti e caratterizzati
per un certo tipo di prestazione, di disponibilità temporale, di
servizio tecnico-professionale. Questa configurazione si può poi
articolare in due sottotipi: uno in cui il nucleo è costituito dai
responsabili dell'ente o da personale qualificato, che dirige anche sotto
il profilo professionale l'effettuazione del servizio; un altro in cui
il nucleo è formato da personale di segreteria, con incombenze amministrative
e di coordinamento operativo delle prestazioni effettuate da professionisti
e volontari. Il primo sottotipo tende quindi ad una maggiore professionalizzazione,
il secondo al rafforzamento e alla razionalizzazione dell'impegno volontario
originario.
Un secondo modello è quello della micro-impresa alternativa,
che tenta di combinare competitività sul mercato e solidarietà
sociale. Nata per offrire sbocchi occupazionali a soggetti deboli o per
rispondere a forme di emarginazione non adeguatamente coperte dai servizi
esistenti a livello locale, si trova a dover reperire risorse e opportunità
di lavoro per sopravvivere e consolidarsi. La formula della cooperazione
sociale è in genere quella a cui si ricorre per assumere una fisionomia
giuridica ed economica adeguata. A rafforzare le scelte in direzione della
micro-impresa alternativa concorrono anche le sollecitazioni esterne.
Sempre più spesso, i rapporti con gli enti locali che ne avevano
inizialmente agevolato i primi passi, si sono involuti o deteriorati: i
servizi pubblici, sottoposti alla necessità di contenere la spesa,
riducono o eliminano contributi e sovvenzioni; ritardano le erogazioni
seminando incertezza; introducono regolamentazioni più restrittive
e burocratizzate. Soprattutto, tendono a contrattualizzare il rapporto
con gli enti, affidando loro specifici servizi sulla base di regolari gare
d'appalto. Di qui deriva una forte spinta ad assumere un taglio aziendale
e a competere, soprattutto sul mercato dei servizi esternalizzati dalle
amministrazioni pubbliche.
Un terzo modello, più complesso, è quello del network,
che si caratterizza per la molteplicità delle iniziative collegate,
sorte a catena da un ceppo comune, in base ad una continua analisi
dei bisogni del territorio, coniugata con una peculiare genialità
imprenditoriale, in termini di capacità di cogliere opportunità
legislative, di convogliare risorse pubbliche e private, di elaborare e
gestire progetti innovativi. La cooperazione con i soggetti pubblici
è per forza di cose molto intensa e continuativa, pur risentendo
anch'essa della difficile congiuntura politico-economica. Ma cruciale è
anche il rapporto con la società civile, con istituzioni locali
come quelle scolastiche, con le imprese, con altre forze sociali
e soggetti associativi, allo scopo di realizzare varie attività
in partnership. Un aspetto tipico è la promozione di forme specifiche
di volontariato e di associazioni di "amici", con compiti di collegamento,
di sensibilizzazione della società locale e di fund raising.
Un quarto modello è quello della comunità familiare,
in cui tendono a convergere sia esperienze innovative di accoglienza residenziale,
sia istituzioni tradizionali che si sono adeguate a nuove forme di intervento
sul disagio, anche per la pressione di specifiche normative. In questa
configurazione, si tende prioritariamente a promuovere una maggiore informalità
dei rapporti interni, una certa destrutturazione dei ruoli tradizionali
e una partecipazione attiva dei soggetti assistiti, in vista del loro reinserimento
sociale. Si punta a migliorare sia la fase di screening e di accoglienza,
spesso in collaborazione con i servizi pubblici, sia la fase di fuoruscita
dall'esperienza comunitaria, con soluzioni ponte di post-comunità.
Gli aspetti di gestione aziendale sono in genere lasciati in secondo piano,
affidati a figure amministrative tradizionali, anche per la maggiore certezza
dei finanziamenti pubblici. Compare semmai l'intento di realizzare prodotti
vendibili come momento educativo e di coinvolgimento degli ospiti.
Il quinto modello è definibile come castello rinnovato, e si
applica a quelle istituzioni che sono rimaste tali, ma hanno attuato uno
sforzo di rinnovamento strutturale, di ripensamento dei servizi e di miglioramento
gestionale. L'istituzione mantiene quindi visibilità, riconoscimento
sociale, collegamento organico con il territorio. Anche le dimensioni,
il numero degli ospiti, il volume del personale dipendente rimangono ragguardevoli
ed hanno un impatto sociale ed economico di una certa importanza nell'ambito
locale. L'istituzione si articola però maggiormente all'interno,
sia in termini di servizi, sia di procedure amministrative, sia per la
dotazione di risorse umane: si procede a revisioni organizzative e gestionali
(per esempio, introducendo il controllo di gestione), si ricorre ad un
maggior numero di persone qualificate, sia in campo assistenziale sia nei
ruoli dirigenziali, si prevedono degli spazi per nuove attività
(socializzazione, riabilitazione, medicina preventiva, ecc.), si tende
ad intensificare i rapporti con l'ambiente esterno. Il rapporto con il
volontariato, pur essendo oggetto di un'attenzione più specifica,
è visto però in genere come una dimensione accessoria
e spesso discontinua dell'attività dell'ente. Il castello diventa
in definitiva, più accogliente, più variegato negli spazi
e nelle strutture, più propenso a tenere abbassato il ponte levatoio,
pur mantenendo la sua fisionomia istituzionale.
ORGANIZZAZIONI NONPROFIT E GESTIONE DEI COSTI
DI TRANSAZIONE
Tentiamo a questo punto di riprendere la domanda iniziale: come si
muovono queste organizzazioni per coniugare razionalità ed
efficienza? Uno spunto utile, per quanto riguarda le dinamiche interne
delle organizzazioni, è quello che deriva da alcuni esiti delle
ricerche degli economisti neo-istituzionalisti intorno al tema dei "costi
di transazione", imperniate in modo particolare da Williamson sulla coppia
mercato-gerarchia. E' una corrente di pensiero che è stata oggetto
di pungenti critiche da parte della nuova sociologia economica, che le
ha imputato fra l'altro di non cogliere adeguatamente il problema della
fiducia nelle transazioni economiche, sovrastimando l'efficacia del potere
gerarchico come risposta all'opportunismo negli scambi di mercato (cfr.
Granovetter, 1995). Tuttavia, mi pare che alcuni spunti della posizione
neo-istituzionalista possano aiutare a cogliere aspetti importanti delle
relazioni di lavoro all'interno delle organizzazioni nonprofit.
In modo particolare Butler ha sostenuto l'insufficienza della coppia
mercato-gerarchia per spiegare la formazione e il funzionamento delle imprese
e più in generale delle organizzazioni. Egli introduce così
un terzo modo transazionale, che propone di denominare "collettivo", in
cui "gli scambi sono mediati da rapporti affettivi, da coerenza di idee
e da comunanza di scopi, non ottenibili col mercato o con la gerarchia"
(1985, p.378). La transazione viene poi scomposta in due fattori: il feedback,
inteso come la quantità di comunicazione e di aggiustamento che
avviene durante una transazione, e la collaborazione, vista come un mezzo
per economizzare sulle comunicazioni, in seguito alla riduzione delle esigenze
di controllo. Va aggiunto che la "collaborazione al momento presente rappresenta
delle comunicazioni svoltesi nel passato" e che quindi sussiste un "costo
di avviamento" della collaborazione (p.323). Ora il collettivo, nello schema
di Butler sotto riportato, rappresenta l'estremo più alto nelle
due dimensioni del feedback e della collaborazione: si tratta quindi della
più comunicativa e cooperativa delle modalità organizzative.
Il coordinamento avviene essenzialmente per "mutuo adattamento" (Thompson,
1967); l'autorità, diversamente dalla forma gerarchica, risiede
nella "capacità di un comportamento autodisciplinato, cooperativo",
ed è esercitata dalla collettività nella sua interezza, pur
contemplando quella che viene definita, seguendo Weber, "una forma affettiva
di autorità" (p.328). Il contratto diviene quello di appartenenza,
che implica impegno e fiducia, può essere rotto solo in caso di
grave devianza, e richiede pertanto molta attenzione nell'ammissione dei
nuovi membri. Occorre infine diffondere e mantenere i valori comuni, attraverso
un'intensa attività di comunicazione, in modo che la collaborazione
possa essere conservata per future transazioni.
I problemi tipici del collettivo, secondo questa impostazione, sono
di tre ordini:
il sovraccarico di informazioni, dal momento che il collettivo, nella
sua forma pura, è simile "a una rete di comunicazione totale, o
a un gruppo di pari in cui ognuno comunica con tutti gli altri": ad esso
si può rimediare diminuendo le dimensioni del gruppo, oppure muovendo
verso una semplice forma gerarchica;
il collasso di fiducia, derivante per esempio dalla formazione di un'oligarchia,
da forme di free riding o comunque da spinte all'appropriazione individualistica
dei benefici dell'organizzazione;
la selezione dei nuovi membri, la cui affidabilità è
sempre difficile da valutare e può essere misurata solo indirettamente
e per gradi successivi.
Butler infine sposta su un piano più generale le sue osservazioni
sulle transazioni interne alle organizzazioni. L'analisi del funzionamento
dei collettivi si amplia in termini di critica collettivistica all'organizzazione
di mercato, basata sull'assunto del fondamentale egoismo e della sfiducia
reciproca tra i contraenti delle transazioni: "costruire una società
sulla competizione e la sfiducia, anche se efficiente nel breve termine,
alimenta semplicemente ulteriore sfiducia" (p.345). Lo sviluppo di organizzazioni
e imprese con finalità solidaristiche, si potrebbe chiosare, è
invece un fattore che può contribuire a diffondere valori di fiducia
e aiuto reciproco nella società più ampia.
Mi sembra invece vada specificato che la fiducia e il consenso interno
non nascono dal nulla e non possono essere considerati acquisiti una volta
per tutte. Qui la lezione della nuova sociologia economica va ripresa,
ponendo l'accento sui contesti sociali da cui provengono i protagonisti
delle iniziative nonprofit: quegli ambienti del volontariato e dell'associazionismo
sociale capaci di mobilitare risorse e di generare motivazione
all'impegno altruistico. Se le organizzazioni nonprofit possono contare
su un capitale sociale di fiducia e di entusiasmo, è perché
a loro volta lo ricevono da un retroterra sociale e culturale in cui idealmente
affondano le radici, e che certo possono contribuire ad alimentare.
Il concetto di network, così rilevante per la nuova sociologia
economica (Granovetter, 1995; Uzzi, 1996), è a sua volta particolarmente
significativo per analizzare il funzionamento delle organizzazioni nonprofit:
esse vivono di intensi rapporti con l'ambiente sociale, economico e istituzionale
in cui sono inserite. I loro referenti esterni hanno un'importanza vitale
per assicurare accreditamento, risorse umane (anche nella tipica forma
del lavoro volontario e di prestazioni professionali gratuite o prodotte
a costi sensibilmente inferiori ai valori di mercato), canali di finanziamento
(anche in questo caso, si può accennare al fenomeno emblematico
delle elargizioni liberali), raccordi con le istituzioni locali. A loro
volta si attendono una risposta ai problemi sociali della comunità
locale, e contribuiscono allo sviluppo delle iniziative di terzo settore
in quanto le vedono come agenzie in grado di fornire risposte concrete
ed efficienti a situazioni di marginalità e disagio sociale.
E' evidente però che non tutte le organizzazioni nonprofit riescono
ad attivare questi processi. Al di là di affermazioni apodittiche
sulle virtù del terzo settore, occorre ormai pervenire ad
analisi più disincantate delle diversità all'interno del
nonprofit, anche in termini di risorse etiche attivate e risultati solidaristici
prodotti. Così come sul mercato normale operano imprese sane
e corrette, e altre che non lo sono, anche nella galassia del nonprofit
va riconosciuto che vi sono iniziative più capaci di coniugare valori
solidaristici ed efficienza operativa, e altre meno valide o semplicemente
sbilanciate sul versante "imprenditoriale" e pertanto più povere
di connotazioni sociali.
INTRAPRENDERE PER GLI ALTRI: SPUNTI DA UNA
RICERCA
Tenterò ora di applicare questo schema interpretativo ai risultati
della nostra recente ricerca "Intraprendere per gli altri", basata sullo
studio di sei cooperative sociali dell'area milanese, operanti per l'inserimento
lavorativo di soggetti deboli (Ambrosini, Lodigiani, 1997).
Rispetto al funzionamento interno, la messa a fuoco del problema dei
costi di transazione secondo la versione di Butler implica il fatto che
le imprese nonprofit devono affrontare difficoltà e vincoli rilevanti
per riuscire a creare e ad alimentare quel "collettivo" solidale che poi
però può riuscire a sviluppare forme non convenzionali ma
efficaci e persino efficienti di azione economica. Organizzazioni
basate su una forte lealtà e fiducia reciproca tra i membri, su
un consenso sociale diffuso nella comunità locale, su reti di relazioni
intersoggettive e istituzionali, possono trovare soluzioni vincenti ad
alcuni dei maggiori problemi che travagliano le imprese tradizionali: quei
costi di transazione che all'interno sono generati dalla scarsa coesione,
e si manifestano sotto forma di conflitti, necessità di supervisione
abbastanza stretta del lavoro dipendente, ricorso a varie forme di controllo
amministrativo, affidamento ad incentivi materiali per poter accrescere
il consenso e la dedizione dei membri; e che anche all'esterno implicano
investimenti di varia natura per accrescere la visibilità, il consenso,
l'affidabilità dei rapporti che le imprese intrattengono con l'ambiente
in cui operano.
Per questo, nella letteratura organizzativa da alcuni anni si manifesta
un interesse per le logiche e i dispositivi di gestione delle organizzazioni
senza scopo di lucro. Anche le imprese tradizionali, in un certo
senso, avvertono più o meno esplicitamente il bisogno di imparare
qualcosa dalle realtà che hanno obiettivi diversi da quelli del
profitto, quando per esempio avvertono il limite dei soli incentivi economici,
puntano a rafforzare la lealtà e il senso di appartenenza, incoraggiano
il coinvolgimento e la partecipazione dei membri. La tav. 1 pone a confronto
i rispettivi costi e vantaggi delle imprese orientate al profitto e delle
organizzazioni nonprofit nella gestione dei costi di transazione.
Alla luce della ricerca, l'elemento organizzativo che in parecchi
casi consente di quadrare il cerchio tra i costi della partecipazione
diffusa e i vantaggi del collettivo butleriano, è la centralità
di una leadership carismatica. Per le cooperative sociali, come per altre
organizzazioni del terzo settore, una guida carismatica rappresenta
spesso una risorsa fondamentale. Un leader di questo tipo ha la capacità
di coagulare le energie, di reperire le risorse necessarie, di entusiasmare
collaboratori e sostenitori, di facilitare i rapporti con le istituzioni
locali. Inoltre, nel funzionamento operativo, la centralizzazione dell'autorità
nelle mani di un leader indiscusso apporta una serie di vantaggi: unicità
del comando, rapidità di decisione, contenimento dei conflitti interni.
In altri termini, la leadership carismatica contribuisce notevolmente
ad abbattere quei costi di transazione che abbiamo analizzato, abbinando
la snellezza direttiva della piccola impresa con il coinvolgimento personale
delle organizzazioni "normative", quelle cioè in cui la condivisione
dei fini è incentivo sufficiente a promuovere la partecipazione.
Ma la leadership carismatica ha a sua volta dei limiti. Se il leader
non riesce a far crescere dei collaboratori capaci e autonomi, la sua "defezione",
motivata per esempio dall'assunzione di altri impegni rischia di compromettere
la sopravvivenza della cooperativa. Inoltre, leadership forti, accentratrici,
capaci comunque di risolvere in qualche modo i problemi, grazie anche
alla rete di rapporti su cui possono contare (per esempio, attivando qualche
benefattore per far fronte a spese impreviste), possono bloccare inconsapevolmente
lo sviluppo di un'organizzazione aziendale più razionale, efficiente,
tesa a far crescere effettive competenze gestionali. Per uno sviluppo equilibrato
e duraturo delle organizzazioni nonprofit, occorre quindi che i leader
carismatici, così preziosi nella fase di avvio e di promozione dell'esperienza,
siano capaci di creare attorno a sé un gruppo dirigente capace e
autonomo, in grado di gestire la transizione dall'entusiasmo dell'avventura
all'opacità del quotidiano.
Non è scontato però che l'evoluzione organizzativa da
un modello imparentato con il collettivo butleriano a stili più
prossimi a quelli "aziendali" sia da vedere in termini univocamente positivi.
Nella nostra ricerca su cooperazione sociale e inserimento lavorativo
dei soggetti deboli, oltre ad una "dialettica della leadership",
abbiamo identificato anche una "dialettica dell'aziendalizzazione" (Ambrosini,
Lodigiani, 1997). Le cooperative sociali rappresentano una
figura molto peculiare nell'ambito dei rapporti tra società ed economia.
Il loro percorso si caratterizza come il tentativo di dare una forma economicamente
razionale e sostenibile alle istanze solidaristiche da cui prendono le
mosse. La sfida che devono affrontare è certo quella di dotarsi
di un'adeguata "cultura dei mezzi" per inverare le proprie motivazioni
originarie. Questo arduo scoglio seleziona in modo drastico la popolazione
potenziale degli aspiranti cooperatori e dirigenti di imprese sociali.
Richiede una impostazione strategica accurata, una formazione adeguata,
la disponibilità di risorse sufficienti (capitali, ma anche conoscenze
del mercato, capacità gestionali, consenso sociale, ecc.). Condiziona
e limita la stessa ampiezza degli obiettivi di inserimento occupazionale
dei soggetti deboli. E quasi inevitabilmente, se non viene controbilanciato
da altre forze, produce un contrasto tra obiettivi economici (bilanci
in pareggio, possibilità di operare nuovi investimenti, ecc.) e
obiettivi sociali. In altri termini: per reggere la concorrenza, guadagnare
efficienza e farsi spazio nel mercato, si rischia di limitare il
progetto di inserimento non solo a pochi soggetti, ma anche ai più
efficienti e produttivi tra i soggetti deboli. Inoltre, imprese sociali
nate dal volontariato, in stretto rapporto con mondi vitali capaci
di fornire risorse motivazionali e materiali di varia natura, tendono quasi
inevitabilmente a rendersi più autonome, auto-referenziali, organizzate
secondo criteri più aziendali. Ma questo processo, fisiologico e
salutare per molti aspetti, se va al di là di una certa soglia rischia
di compromettere quel flusso di consenso e di comunicazione quasi osmotica
tra l'impresa sociale e il contesto in cui affonda le proprie radici. Sotto
il profilo economico, il rischio è quello di diventare piccole imprese
obbligate a competere con durezza in interstizi sovraffollati del mercato.
Sotto il profilo sociale, il rischio è quello di una perdita dell'identità
originaria.
Esistono certamente diversi gradi di "socialità" dell'impresa,
anche nella forma giuridica della cooperativa sociale. Ma la specificità
di questa forma di impresa consiste proprio nella combinazione tra valori
solidaristici e razionalità economica. Operare tra questi due universi
di valori e di approcci è certamente arduo e talvolta sfibrante.
Eppure, mantenere il pur difficile equilibrio tra queste due dimensioni
mi sembra la condizione saliente per alimentare quel consenso sociale e
quel radicamento comunitario che risulta essere così prezioso per
lo sviluppo delle iniziative e per la loro affermazione nel contesto locale
da cui sono sorte.
Tav.1. Costi e vantaggi nelle transazioni
delle imprese orientate al profitto e delle organizzazioni nonprofit
Costi di transazione dell'impresa profit |
Costi di transazione delle organizzazioni nonprofit |
Incertezza sulla condivisione degli obiettivi |
Difficoltà di costituzione e decollo |
Necessità di un controllo abbastanza stretto sul
lavoro dipendente |
Necessità di un elevato consenso interno e una diffusa
condivisione delle scelte d'impresa |
Costi di definizione e amministrazione dei contratti di
lavoro |
Maggiore complessità e possibile lentezza dei processi
decisionali |
Difficoltà ad andare oltre gli incentivi materiali |
Difficoltà nell'utilizzare incentivi materiali |
Conflittualità interna (esplicita o latente) derivante
dalla contrapposizione tra managers e managed |
Difficoltà a stabilire rapporti con altri attori
economici (imprese, banche, ecc.) orientati al profitto |
Vantaggi dell'impresa profit nella gestione delle transazioni |
Vantaggi delle organizzazioni nonprofit nella gestione
delle transazioni |
Centralizzazione del potere |
Coesione interna e fluidità dei rapporti di lavoro |
Rapidità e linearità dei processi decisionali |
Elevata condivisione degli obiettivi |
Facilità di accreditamento presso altri attori economici |
Maggiori opportunità di consenso e accreditamento
nella comunità locale |
Possibilità di utilizzare agevolmente incentivi
economici |
Importanza degli incentivi solidaristici e impliciti |
 
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