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Impresa & Stato n°35

SE IL FALLIMENTO
E' DELLO STATO

Perché le politiche industriali locali hanno avuto così scarso successo?
Le affinità perverse: keynesismo e clientelismo.
Il "collo di bottiglia" della P.A.

di
ARNALDO BAGNASCO

Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta i distretti industriali italiani sono andati incontro a profondi cambiamenti. Dal distretto industriale classico ci si è mossi verso quello evoluto, frutto di una selezione di strategie e strutture aziendali, di regole di condotta e di protagonisti guidata dalle crescenti esigenze della competizione globale. Rispetto alla omogeneità che le caratterizzava in passato, le imprese distrettuali - sia quelle che hanno accesso diretto al mercato che quelle che si dividono il lavoro all'interno dell'area - si sono differenziate. Si è assistito a una crescita dimensionale legata allo sviluppo interno di funzioni di R&S, di commercializzazione e di management prima latitanti; a una selezione dei sub-fornitori "alla giapponese", con la creazione di legami privilegiati tra le aziende capofila e i migliori tra di essi; all'emergere di gruppi aziendali distrettuali, a volte estesi sino a coinvolgere consociate all'estero.
Di pari passo, le regole a base sociale locale che presiedevano alle molteplici interazioni tra le aziende del distretto si sono modificate e, da semplici e informali impegni fiduciari alla reciprocità e ai pacta sunt servanda, si sono evolute verso più elaborate culture di partnership strategica e/o accordi contrattuali formalizzati. Data la limitata dimensione aziendale di partenza, protagonisti di questi sviluppi non sono stati manager o burocrazie aziendali, ma i più dinamici tra gli imprenditori locali, attenti al mutare dei mercati e alle tendenze della globalizzazione. Essi sono stati capaci di trainare il distretto fuori dallo sterile circolo della riproduzione immutata dei suoi classici vantaggi competitivi di costo e flessibilità, ormai sempre meno efficaci. Da ultimo sulla scena dei distretti sono spesso emersi nuovi protagonisti, diversi dalle aziende, ma con la volontà di supplire alle lacune, a volte vere a volte presunte, palesate dalle piccole imprese e dall'imprenditoria minore locali. Centri per i servizi reali, organi di certificazione, consorzi per l'esportazione, società operative legate alle associazioni imprenditoriali, agenzie di politica industriale della Regione, ecc. Pubblico e privato - inteso sia come impresa che come associazionismo - si sono spesso interpenetrati in queste iniziative di politica industriale locale, le quali, globalmente considerate, hanno avuto esiti largamente inferiori alle attese e alle pretese. Certo, in alcuni distretti, di solito quelli con alle spalle una storia e dotati di una ricchezza di attori locali, i centri per i servizi reali sono entrati in significativa sinergia con le imprese più dinamiche, facendo da supporto alla riqualificazione dell'area, in qualche raro caso i consorzi per l'esportazione hanno funzionato, pur rimanendo quasi sempre nell'ambito della promozione, senza spingersi sino alla vendita; in altre circostanze ancora iniziative di R&S o di formazione professionale hanno dato buon esito. Nella maggioranza dei casi, però, le politiche industriali locali si sono scontrate con ostacoli insormontabili, dimostrandosi incapaci di suscitare reale interesse da parte delle imprese e risolvendosi in dispendiosi fallimenti dell'azione pubblica o insuccessi dell'azione dell'associazionismo privato. All'impotenza dei ministeri romani sul territorio non sono state in grado di supplire le Regioni. A corto di risorse e competenze, dotate di personale scarsamente competente, prigioniere di logiche spartitorie partitiche e/o localistiche, esse hanno dato vita a progetti che solo eccezionalmente - e per merito del tessuto locale dei distretti - hanno dato frutti.

LOGICHE SPARTITORIE, INEFFICIENZE E SPRECHI
I centri di servizio alle imprese che sono rimasti sulla carta, che vivacchiano nel piccolo cabotaggio o che addirittura costituiscono uno spreco sono purtroppo stati la maggioranza. Persino il tanto celebrato modello emiliano-romagnolo si è scontrato con difficoltà finanziarie e di consenso da parte imprenditoriale impensabili sino a pochi anni addietro. Per quanto riguarda le esperienze associative, specialmente quelle consortili, gli ostacoli sono stati di differente natura. L'assenza di un tessuto associativo forte - frutto, non da ultimo, dell'anacronistica divisione del fronte piccolo imprenditoriale tra Api e Confindustria provinciali - ha certamente contribuito ad accentuare i dilemmi dell'azione collettiva che toccano inevitabilmente ogni iniziativa di tipo consortile, indirizzata che sia all'esportazione, alla R&S, alla formazione o ad altro. La singola azienda, infatti, a fronte di benefici futuri e incerti legati all'iniziativa comune, sulla gestione della quale avrebbe peraltro solo un controllo parziale, si trova confrontata a costi di avvio ed esercizio immediati e certi. Oltre a ciò, l'azienda va incontro a una restrizione delle proprie esclusive prerogative imprenditoriali, restrizione che è tanto più forte, quanto maggiori sono le ambizioni del consorzio in questione. L'impresa sceglie così di partecipare all'iniziativa consortile solo nei rari casi in cui siano presenti condizioni locali altamente favorevoli: la presenza di capaci e convincenti figure di direzione strategica - più o meno legate all'associazionismo imprenditoriale; di una preesistente relazione di fiducia interpersonale con gli altri imprenditori coinvolti, ecc. In assenza di questi fattori, l'esito più probabile è il fallimento dell'iniziativa o il suo languire a livello subottimale. In questo modo, visto che le imprese più forti del distretto scelgono comunque la via solitaria del rafforzamento individuale (gruppi, reti di sub-fornitura qualificata, sviluppo interno, ecc.), alle medie forze locali, cui questa via è preclusa, viene a chiudersi anche la via dell'imprenditorialità consortile, l'unica compatibile con la loro scarsa dotazione di risorse. In questa situazione, i meccanismi selettivi del mercato agiscono implacabilmente, falcidiando non solo le imprese marginali ma anche quelle mediane che non sono riuscite a entrare in sinergia virtuosa con l'élite delle aziende del distretto.

ECONOMISTI, ANALISI DA AGGIORNARE
Quali sono allora le vie da indicare alla mano pubblica e a quella associativa per rendere il più possibile competitive le imprese dei nostri distretti, posizionate peraltro tutte in settori tradizionali altamente esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti? Prima di dare un'indicazione, è necessario chiarirsi le idee a proposito di alcuni assunti dati erroneamente per scontati dalla maggior parte degli economisti che studiano i distretti (i "distrettisti"), nonché dai politici e amministratori pubblici con questi in sintonia. Assunti che, a mio parere, condizionano poi negativamente le ricette sul da farsi a livello di politiche industriali locali e non.
La gran parte dei "distrettisti" italiani - per formazione intellettuale, simpatie politiche o altro - ha sin dall'inizio malinteso profondamente la natura dei processi evolutivi che avrebbero toccato le economie locali. Se questo malinteso era scusabile in sede di previsione, vent'anni orsono, non lo è più oggi, di fronte alla realtà del distretto industriale evoluto, come l'abbiamo delineata più sopra. I "distrettisti", e chi scrive non fu esente da questo peccato, avevano infatti previsto che le aziende dei distretti e i loro imprenditori non sarebbero state in grado di far fronte, da sole, ai mutamenti strategici, commerciali e tecnologici imposti dalla globalizzazione. A detta loro, si sarebbe andati incontro a disastrosi fallimenti del mercato, scongiurabili solo attraverso un intervento pubblico, non di tipo assistenzialista ovviamente, ma basato sullo strumento dei servizi reali alle imprese.
Quello che è in realtà successo è che il mercato, nel caso dei distretti, non ha fallito, anzi! I fenomeni di rafforzamento spontaneo delle aziende distrettuali che oggi sono sotto i nostri occhi sono il frutto non delle politiche dei servizi reali o delle realtà consortili - spesso, quelle sì, fallite. Sono invece il risultato del fatto che nei distretti la concorrenza intesa come processo evolutivo di scoperta di formule imprenditoriali vincenti - nel senso cioè in cui la intendeva Friedrich von Hayek - è particolarmente intensa. Lo è, proprio perché nei distretti il mercato si avvicina il più possibile a quella realtà policentrica di rivalità ed emulazione tra attori economici che incrementa notevolmente le sue caratteristiche innovative. Nei distretti industriali il mercato non è una struttura, non è un sistema, ma è, seguendo la concettualizzazione fattane dalla moderna Scuola austriaca di economia erede di Hayek un vero e proprio processo the market process. Le sensazionali prestazioni economiche palesate di recente dal Veneto, la regione di piccola impresa dove le politiche pubbliche locali sono state maggiormente latitanti, dovrebbero far riflettere molti "distrettisti"... D'altro canto, non possono essere considerati fallimenti del mercato i processi fisiologici di eliminazione delle imprese marginali o meno efficienti che sono da tempo all'opera nei distretti. Ci rode allora malizioso un dubbio. Nel dopoguerra si instaurarono in Occidente delle convergenze tra il keynesismo rampante di molti economisti e gli interessi dei politici ad ampliare la spesa pubblica. Non potrebbe allora, in Italia, essersi instaurata un'affinità elettiva tra politici locali desiderosi del centro servizi a tutti i costi (con quel che comporta in termini di consenso e di clientele) e gli economisti "distrettisti" più inclini a vedere fallimenti del mercato anche dove invece questo funziona a dovere?

IL "FALLIMENTO DELLO STATO" FRENA LA GLOBALIZZAZIONE
Che al desiderio di voti dei primi non corrisponda, nei secondi, quella che Ludwig von Mises chiamava the anti-capitalistic mentality e Georg Stigler chiama traditional hostility toward private enterprise tipica di molti intellettuali (economisti inclusi ovviamente)? Non bisogna infatti dimenticare che il distretto industriale non deve essere, oggi poi men che meno, un luogo di democrazia economica (come opportunamente rilevato dal recente rapporto Censis-Unioncamere) o un'entità organica dotata di caratteristiche etiche o sociali a sé stanti che vanno preservate anche a scapito della redditività e dell'efficienza delle imprese che lo compongono. I distretti industriali non sono nulla di più della somma delle imprese che li compongono e delle relazioni che queste stesse hanno instaurato tra di loro. I centri per i servizi e i consorzi, quando funzionino, devono spingere ancora più in là la logica del mercato centrata sull'impresa, non soprassedervi in nome di preferenze socio-politiche. Il mio suggerimento in tema di politiche pubbliche per i distretti non coincide comunque con una generica formula liberista del tipo "il mercato non ha bisogno di nient'altro" o "smantellate consorzi e centri di servizio!". Si orienta però decisamente nel senso di tentare queste esperienze solo quando a livello di attori distrettuali vi è una appurata predisposizione in favore del centro o del consorzio in questione, per cui essi sono già nell'aria e l'intervento pubblico e associativo si limita sussidiariamente a un ruolo di stimolo e coordinamento. Strategie del tipo "un centro servizi per ogni distretto o per ogni provincia", paracadutato sul posto indipendentemente dalle disposizioni degli attori locali privati e associativi, sono un velleitario spreco di denaro pubblico. Purtroppo, in non pochi casi, questo è stato il modus operandi degli amministratori regionali e locali.
A questo primo suggerimento operativo, ne corrisponde un altro ancor più vigoroso. I problemi maggiori dei distretti industriali non hanno a che fare con presunti fallimenti del mercato, bensì con un grande e pervasivo fallimento delle politiche dello Stato, che penalizza fortemente le piccole imprese di tutto il Paese e che in alcune regioni, ha addiritura dato fiato a sentimenti di rivolta imprenditoriale contro lo Stato. Rispetto ai suoi partner europei, l'Italia palesa carenze infrastrutturali spaventose (dalle strade alla telematica, passando per le ferrovie), possiede un'Amministrazione pubblica che costringe le imprese a pratiche costose ed estenuanti, esercita una pressione fiscale tanto pesante quanto irrazionale, ha solo simulacri di politiche nazionali per il commercio estero e la R&S, vanta una legislazione del mercato del lavoro fuori dai tempi. E ci fermiamo qui. Se, nelle indagini socio-economiche e sui mass media, ascoltiamo le voci dei piccoli imprenditori dei distretti, dalla dorsale adriatica al nord-est, dal centro sino alle prealpi lombarde, la richiesta più forte che portano avanti, specialmente quelli più dinamici tra di essi, è sempre la stessa: poter disporre anzitutto di servizi e infrastrutture pubbliche allo stesso livello dei propri concorrenti più avanzati. In caso contrario, anche i rari successi delle politiche locali per i distretti verranno messi a repentaglio e gli sforzi compiuti si dimostreranno vani. Lo sviluppo del modello italiano dei distretti industriali non deve temere tanto i fallimenti del mercato quanto i fallimenti dello Stato. È in questi ultimi che vi è il vero collo di bottiglia per le nostre piccole imprese nella loro marcia verso il mercato globale.