Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta i distretti industriali
italiani sono andati incontro a profondi cambiamenti. Dal distretto
industriale classico ci si è mossi verso quello evoluto,
frutto di una selezione di strategie e strutture aziendali, di
regole di condotta e di protagonisti guidata dalle crescenti esigenze
della competizione globale. Rispetto alla omogeneità che
le caratterizzava in passato, le imprese distrettuali - sia quelle
che hanno accesso diretto al mercato che quelle che si dividono
il lavoro all'interno dell'area - si sono differenziate. Si è
assistito a una crescita dimensionale legata allo sviluppo interno
di funzioni di R&S, di commercializzazione e di management
prima latitanti; a una selezione dei sub-fornitori "alla
giapponese", con la creazione di legami privilegiati tra
le aziende capofila e i migliori tra di essi; all'emergere di
gruppi aziendali distrettuali, a volte estesi sino a coinvolgere
consociate all'estero.
Di pari passo, le regole a base sociale locale che presiedevano
alle molteplici interazioni tra le aziende del distretto si sono
modificate e, da semplici e informali impegni fiduciari alla reciprocità
e ai pacta sunt servanda, si sono evolute verso più
elaborate culture di partnership strategica e/o accordi contrattuali
formalizzati. Data la limitata dimensione aziendale di partenza,
protagonisti di questi sviluppi non sono stati manager o burocrazie
aziendali, ma i più dinamici tra gli imprenditori locali,
attenti al mutare dei mercati e alle tendenze della globalizzazione.
Essi sono stati capaci di trainare il distretto fuori dallo sterile
circolo della riproduzione immutata dei suoi classici vantaggi
competitivi di costo e flessibilità, ormai sempre meno
efficaci. Da ultimo sulla scena dei distretti sono spesso emersi
nuovi protagonisti, diversi dalle aziende, ma con la volontà
di supplire alle lacune, a volte vere a volte presunte, palesate
dalle piccole imprese e dall'imprenditoria minore locali. Centri
per i servizi reali, organi di certificazione, consorzi per l'esportazione,
società operative legate alle associazioni imprenditoriali,
agenzie di politica industriale della Regione, ecc. Pubblico
e privato - inteso sia come impresa che come associazionismo -
si sono spesso interpenetrati in queste iniziative di politica
industriale locale, le quali, globalmente considerate, hanno avuto
esiti largamente inferiori alle attese e alle pretese. Certo,
in alcuni distretti, di solito quelli con alle spalle una storia
e dotati di una ricchezza di attori locali, i centri per i servizi
reali sono entrati in significativa sinergia con le imprese più
dinamiche, facendo da supporto alla riqualificazione dell'area,
in qualche raro caso i consorzi per l'esportazione hanno funzionato,
pur rimanendo quasi sempre nell'ambito della promozione, senza
spingersi sino alla vendita; in altre circostanze ancora iniziative
di R&S o di formazione professionale hanno dato buon esito.
Nella maggioranza dei casi, però, le politiche industriali
locali si sono scontrate con ostacoli insormontabili, dimostrandosi
incapaci di suscitare reale interesse da parte delle imprese e
risolvendosi in dispendiosi fallimenti dell'azione pubblica o
insuccessi dell'azione dell'associazionismo privato. All'impotenza
dei ministeri romani sul territorio non sono state in grado di
supplire le Regioni. A corto di risorse e competenze, dotate di
personale scarsamente competente, prigioniere di logiche spartitorie
partitiche e/o localistiche, esse hanno dato vita a progetti che
solo eccezionalmente - e per merito del tessuto locale dei distretti
- hanno dato frutti.
LOGICHE SPARTITORIE, INEFFICIENZE E SPRECHI
I centri di servizio alle imprese che sono rimasti sulla carta,
che vivacchiano nel piccolo cabotaggio o che addirittura costituiscono
uno spreco sono purtroppo stati la maggioranza. Persino il tanto
celebrato modello emiliano-romagnolo si è scontrato con
difficoltà finanziarie e di consenso da parte imprenditoriale
impensabili sino a pochi anni addietro. Per quanto riguarda le
esperienze associative, specialmente quelle consortili, gli ostacoli
sono stati di differente natura. L'assenza di un tessuto associativo
forte - frutto, non da ultimo, dell'anacronistica divisione del
fronte piccolo imprenditoriale tra Api e Confindustria provinciali
- ha certamente contribuito ad accentuare i dilemmi dell'azione
collettiva che toccano inevitabilmente ogni iniziativa di tipo
consortile, indirizzata che sia all'esportazione, alla R&S,
alla formazione o ad altro. La singola azienda, infatti, a fronte
di benefici futuri e incerti legati all'iniziativa comune, sulla
gestione della quale avrebbe peraltro solo un controllo parziale,
si trova confrontata a costi di avvio ed esercizio immediati e
certi. Oltre a ciò, l'azienda va incontro a una restrizione
delle proprie esclusive prerogative imprenditoriali, restrizione
che è tanto più forte, quanto maggiori sono le ambizioni
del consorzio in questione. L'impresa sceglie così di partecipare
all'iniziativa consortile solo nei rari casi in cui siano presenti
condizioni locali altamente favorevoli: la presenza di capaci
e convincenti figure di direzione strategica - più o meno
legate all'associazionismo imprenditoriale; di una preesistente
relazione di fiducia interpersonale con gli altri imprenditori
coinvolti, ecc. In assenza di questi fattori, l'esito più
probabile è il fallimento dell'iniziativa o il suo languire
a livello subottimale. In questo modo, visto che le imprese più
forti del distretto scelgono comunque la via solitaria del rafforzamento
individuale (gruppi, reti di sub-fornitura qualificata, sviluppo
interno, ecc.), alle medie forze locali, cui questa via è
preclusa, viene a chiudersi anche la via dell'imprenditorialità
consortile, l'unica compatibile con la loro scarsa dotazione di
risorse. In questa situazione, i meccanismi selettivi del mercato
agiscono implacabilmente, falcidiando non solo le imprese marginali
ma anche quelle mediane che non sono riuscite a entrare in sinergia
virtuosa con l'élite delle aziende del distretto.
ECONOMISTI, ANALISI DA AGGIORNARE
Quali sono allora le vie da indicare alla mano pubblica e a quella
associativa per rendere il più possibile competitive le
imprese dei nostri distretti, posizionate peraltro tutte in settori
tradizionali altamente esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti?
Prima di dare un'indicazione, è necessario chiarirsi le
idee a proposito di alcuni assunti dati erroneamente per scontati
dalla maggior parte degli economisti che studiano i distretti
(i "distrettisti"), nonché dai politici e amministratori
pubblici con questi in sintonia. Assunti che, a mio parere, condizionano
poi negativamente le ricette sul da farsi a livello di politiche
industriali locali e non.
La gran parte dei "distrettisti" italiani - per formazione
intellettuale, simpatie politiche o altro - ha sin dall'inizio
malinteso profondamente la natura dei processi evolutivi che avrebbero
toccato le economie locali. Se questo malinteso era scusabile
in sede di previsione, vent'anni orsono, non lo è più
oggi, di fronte alla realtà del distretto industriale evoluto,
come l'abbiamo delineata più sopra. I "distrettisti",
e chi scrive non fu esente da questo peccato, avevano infatti
previsto che le aziende dei distretti e i loro imprenditori non
sarebbero state in grado di far fronte, da sole, ai mutamenti
strategici, commerciali e tecnologici imposti dalla globalizzazione.
A detta loro, si sarebbe andati incontro a disastrosi fallimenti
del mercato, scongiurabili solo attraverso un intervento pubblico,
non di tipo assistenzialista ovviamente, ma basato sullo strumento
dei servizi reali alle imprese.
Quello che è in realtà successo è che il
mercato, nel caso dei distretti, non ha fallito, anzi! I fenomeni
di rafforzamento spontaneo delle aziende distrettuali che oggi
sono sotto i nostri occhi sono il frutto non delle politiche dei
servizi reali o delle realtà consortili - spesso, quelle
sì, fallite. Sono invece il risultato del fatto che nei
distretti la concorrenza intesa come processo evolutivo di scoperta
di formule imprenditoriali vincenti - nel senso cioè in
cui la intendeva Friedrich von Hayek - è particolarmente
intensa. Lo è, proprio perché nei distretti il mercato
si avvicina il più possibile a quella realtà policentrica
di rivalità ed emulazione tra attori economici che incrementa
notevolmente le sue caratteristiche innovative. Nei distretti
industriali il mercato non è una struttura, non è
un sistema, ma è, seguendo la concettualizzazione fattane
dalla moderna Scuola austriaca di economia erede di Hayek un vero
e proprio processo the market process. Le sensazionali
prestazioni economiche palesate di recente dal Veneto, la regione
di piccola impresa dove le politiche pubbliche locali sono state
maggiormente latitanti, dovrebbero far riflettere molti "distrettisti"...
D'altro canto, non possono essere considerati fallimenti del mercato
i processi fisiologici di eliminazione delle imprese marginali
o meno efficienti che sono da tempo all'opera nei distretti. Ci
rode allora malizioso un dubbio. Nel dopoguerra si instaurarono
in Occidente delle convergenze tra il keynesismo rampante di molti
economisti e gli interessi dei politici ad ampliare la spesa pubblica.
Non potrebbe allora, in Italia, essersi instaurata un'affinità
elettiva tra politici locali desiderosi del centro servizi a tutti
i costi (con quel che comporta in termini di consenso e di clientele)
e gli economisti "distrettisti" più inclini a
vedere fallimenti del mercato anche dove invece questo funziona
a dovere?
IL "FALLIMENTO DELLO STATO" FRENA LA GLOBALIZZAZIONE
Che al desiderio di voti dei primi non corrisponda, nei secondi,
quella che Ludwig von Mises chiamava the anti-capitalistic
mentality e Georg Stigler chiama traditional hostility
toward private enterprise tipica di molti intellettuali (economisti
inclusi ovviamente)? Non bisogna infatti dimenticare che il distretto
industriale non deve essere, oggi poi men che meno, un luogo di
democrazia economica (come opportunamente rilevato dal recente
rapporto Censis-Unioncamere) o un'entità organica dotata
di caratteristiche etiche o sociali a sé stanti che vanno
preservate anche a scapito della redditività e dell'efficienza
delle imprese che lo compongono. I distretti industriali non sono
nulla di più della somma delle imprese che li compongono
e delle relazioni che queste stesse hanno instaurato tra di loro.
I centri per i servizi e i consorzi, quando funzionino, devono
spingere ancora più in là la logica del mercato
centrata sull'impresa, non soprassedervi in nome di preferenze
socio-politiche. Il mio suggerimento in tema di politiche pubbliche
per i distretti non coincide comunque con una generica formula
liberista del tipo "il mercato non ha bisogno di nient'altro"
o "smantellate consorzi e centri di servizio!". Si orienta
però decisamente nel senso di tentare queste esperienze
solo quando a livello di attori distrettuali vi è una appurata
predisposizione in favore del centro o del consorzio in questione,
per cui essi sono già nell'aria e l'intervento pubblico
e associativo si limita sussidiariamente a un ruolo di stimolo
e coordinamento. Strategie del tipo "un centro servizi per
ogni distretto o per ogni provincia", paracadutato sul posto
indipendentemente dalle disposizioni degli attori locali privati
e associativi, sono un velleitario spreco di denaro pubblico.
Purtroppo, in non pochi casi, questo è stato il modus
operandi degli amministratori regionali e locali.
A questo primo suggerimento operativo, ne corrisponde un altro
ancor più vigoroso. I problemi maggiori dei distretti industriali
non hanno a che fare con presunti fallimenti del mercato, bensì
con un grande e pervasivo fallimento delle politiche dello Stato,
che penalizza fortemente le piccole imprese di tutto il Paese
e che in alcune regioni, ha addiritura dato fiato a sentimenti
di rivolta imprenditoriale contro lo Stato. Rispetto ai suoi partner
europei, l'Italia palesa carenze infrastrutturali spaventose (dalle
strade alla telematica, passando per le ferrovie), possiede un'Amministrazione
pubblica che costringe le imprese a pratiche costose ed estenuanti,
esercita una pressione fiscale tanto pesante quanto irrazionale,
ha solo simulacri di politiche nazionali per il commercio estero
e la R&S, vanta una legislazione del mercato del lavoro fuori
dai tempi. E ci fermiamo qui. Se, nelle indagini socio-economiche
e sui mass media, ascoltiamo le voci dei piccoli imprenditori
dei distretti, dalla dorsale adriatica al nord-est, dal centro
sino alle prealpi lombarde, la richiesta più forte che
portano avanti, specialmente quelli più dinamici tra di
essi, è sempre la stessa: poter disporre anzitutto di servizi
e infrastrutture pubbliche allo stesso livello dei propri concorrenti
più avanzati. In caso contrario, anche i rari successi
delle politiche locali per i distretti verranno messi a repentaglio
e gli sforzi compiuti si dimostreranno vani. Lo sviluppo del modello
italiano dei distretti industriali non deve temere tanto i fallimenti
del mercato quanto i fallimenti dello Stato. È in questi
ultimi che vi è il vero collo di bottiglia per le nostre
piccole imprese nella loro marcia verso il mercato globale.