L'Italia, anche se può sembrare banale ricordarlo, è
un Paese con forti differenziazioni territoriali. Naturalmente
tutti i Paesi sono più o meno disomogenei, ma alcuni sono
più differenziati sul territorio di altri; questo significa
che la chiave regionale di lettura di una società molto
differenziata è primaria per comprendere il modo in cui
tutto sta insieme. Alcune di queste differenze vengono dal passato,
sono per così dire "originarie" visto che le
aree precedenti all'unità d'Italia erano già molto
diversificate fra di loro, per esempio per livello di sviluppo
dell'economia.
Queste differenze devono però essere considerate se e in
quanto sono innestate su altre nuove. Per quanto riguarda l'evoluzione
economica, le nuove differenze sono nello spazio degli evidenti
modelli specifici di evoluzione dell'economia stessa. Queste tendenze
sono già visibili nei decenni di grande crescita dell'economia
mondiale e nazionale che a volte sono stati interpretati in maniera
molto semplificata, come è successo per il Mezzogiorno.
Di recente, invece, la spinta di regionalizzazione dell'economia
italiana più evidente è lo sviluppo di piccole imprese
delle aree del centro e del nord-est del Paese.
È opportuno ripartire da quelli che sono stati chiamati
"localismi", "distretti industriali", ovvero
sistemi locali di piccole imprese, anche se i concetti spesso
hanno semplificato realtà più differenziate. Si
tratta di una forma di sviluppo della piccola impresa che pur
avendo inizi precedenti, esplode verso la fine degli anni Sessanta,
e che da quel momento si cercò di interpretare in vari
modi: prima con il decentramento produttivo, poi con l'economia
informale; si cercò di non considerare questa situazione
come un fuoco di paglia, dato che la forza di questa economia
non era chiara a tutti.
IL GIOCO DELL'ITALIA DELLE 1000 CITTA'
Per tentativi ed errori si cominciò a capire che si trattava
di qualcosa di robusto, che si sarebbe radicato. Gli economisti
cominciarono a studiare perché la piccola impresa ritrovava
uno spazio nell'economia contemporanea. E cominciarono ad arrivare
risposte che erano collegate da un lato all'ampliarsi dei mercati
di consumo; inoltre, ma questo si cominciò a vedere in
un secondo momento, la tecnologia contemporanea poteva essere
applicata anche alle piccole imprese. Strutture organizzative
più agili, maggiore capacità di stare su mercati
instabili, nuovo spazio per la produzione di piccola serie, aumenti
in genere dei mercati mondiali dei beni di consumo: tutto questo
stava ridando spazio alla piccola impresa. Ciò avveniva
nel momento di crisi della grande impresa. A questo punto la
questione era nel chiedersi perché certe aree riuscivano
a giocare il nuovo gioco e altre no, perché altre meno,
altre prima o dopo. Semplificando molto, si pensò al gioco
di una particolare società urbana e una particolare organizzazione
della società nelle campagne. Le aree nella tradizione
dell'"Italia delle città" avevano radicato sul
territorio delle infrastrutture, magari non molto ricche, ma molto
diffuse: strade, mezzi di comunicazione, banche locali, istituti
di formazione e così via. Tutte risorse che diventeranno
preziose come strutturazione del territorio quando tutto questo
diventerà attivo. Ma le stesse città erano anche
sede e tradizione di artigianato importante, qualche volta di
industria, tradizioni bancarie, finanziarie, di relazioni con
l'estero, tradizioni commerciali; si trattava di una tradizione
che risaliva al primo capitalismo fra Medioevo e Rinascimento.
Del resto queste erano aree che, pur avendo vissuto evidentemente
una modernizzazione della cultura e della loro economia, non avevano
mai conosciuto, se non per eccezione, la grande industrializzazione.
Non erano mai state delle aree "fordiste"; anzi, quando
si studierà poi un po' da vicino queste regioni si troverà
che le aree che più avevano conosciuto la grande industria,
spesso non erano diventate delle tipiche aree a sviluppo di piccola
impresa.
MECCANISMI DI MERCATO CHE VENGONO DA LONTANO
Queste città, con le loro figure sociali e le loro tradizioni
furono gli attivatori del processo; però, al tempo stesso,
l'interazione con una campagna particolare (quella delle grandi
famiglie che già erano loro stesse delle specie di imprese
perché aree di lavoro contadino autonomo, importanti per
la formazione anche dell'imprenditorialità artigiana) creò
un mercato del lavoro estremamente mobile, sensibile e poco costoso
che era esattamente quello di cui avevano bisogno in quel momento
le piccole imprese. Quindi all'inizio la situazione sociale di
questa forma si spiega con queste possibilità di compensazione
del mercato e di attivazione su una matrice precedente che dava
anche continuità culturale con il passato. Diversi elementi
di questa "archeologia" ritornano, soprattutto quando
si prova a concettualizzare in modo un po' più astratto
l'interpretazione delle economie regionali, anche per quello che
riguarda altri contesti. Si provi a considerare una di queste
economie locali come sistema, per vedere quali sono i meccanismi
che lo regolano in questa fase. Anzitutto il mercato. Il mercato
del lavoro implica che le persone si spostino da un'impresa all'altra,
a seconda dei periodi e così via; questo accade anche oggi
con meccanismi simili a quelli prima descritti, i quali compensano
e rendono possibile il mercato stesso: per esempio la famiglia
"paracadute", o la buona conoscenza e fiducia interpersonale
fra le persone. O ancora le istituzioni locali - le banche citate
prima - e altri elementi, sintetizzabili con la parola "comunità"
o "comunità locale". Questo mix di mercato e
società locale rendeva possibile il funzionamento del mercato
stesso.
Storicamente, la crescita economica ha comportato concentrazione
organizzativa. Nel nostro caso, c'è stata una crescita
organizzativa, ma non è andata nel senso della concentrazione
industriale; chi ha studiato queste cose ha attirato l'attenzione
soprattutto sulla tendenza a forme di organizzazione che potremmo
chiamare "appropriata", cioè specifica, caratteristica
di queste forme. Consorzi, per esempio, oppure contratti di lunga
durata, joint venture fra imprese, contratti per mettere insieme
tecnologie.
Non c'è stato un processo di concentrazione anche se di
fatto un sistema può diventare molto unitario e complesso.
C'è un'evoluzione da studiare, cresce il livello organizzativo,
ma si mantengono unità indipendenti. Questa è una
linea di sviluppo che in ipotesi poteva essere fatta e che varrà
la pena di considerare nei suoi sviluppi attuali e futuri.
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Intervista ad Alessandro Rubino*
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I&S Quali sono, a Suo avviso, le principali problematiche riguardanti i distretti industriali nella fase attuale di transizione verso il mercato globale? A. R. Tendenzialmente per un mercato come il nostro, ove la presenza della piccola e media impresa è fortissima, senza eguali in altre esperienze europee, in assenza di politiche di traino del Governo e degli enti preposti alla penetrazione delle nostre imprese sui mercati europei, i distretti industriali, ove effettivamente tali, sono un'utile forma di salvaguardia delle nostre imprese per rimanere competitive nella globalizzazione del mercato in atto. I&S Come membro della Commissione Attività Produttive, quali ritiene debbano essere le linee d'intervento in un tema di distretti industriali? A. R. Intensificare la presenza e le nascite dei distretti, specialmente nelle aree di crisi del Paese, affiancando a tale iniziativa la nascita di circuiti telematici di borse locali che possano favorire l'accesso di capitale di rischio alla piccola e media impresa; defiscalizzare le nuove imprese, per i primi tre anni di attività, nei distretti delle aree di crisi allentando anche la morsa degli eccessivi oneri che gravano sul costo del lavoro per permettere lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali, riformare radicalmente l'ICE ponendolo nelle condizioni di essere sul mercato al fianco delle nostre imprese e dei consorzi export da creare all'interno dei distretti. I&S Quali rapporti Lei ritiene debbano esistere tra istituzioni europee, nazionali, locali e funzionali nel gestire la transizione dei distretti industriali? A. R. Secondo il principio di sussidiarietà si deve instaurare una filiera di collaborazioni atte a favorirne lo sviluppo. I&S Quale ruolo devono avere le Camere di Commercio per i distretti industriali ora che la Legge di riforma 580/93 attribuisce loro nuove competenze? A.R. Le Camere di Commercio in quest'ottica, a mio parere, dovranno essere il centro motore dei distretti industriali, con ciò sopperendo alle mancanze e alle lentezze della macchina statale di supporto alle imprese. I&S Le nuove modalità di formazione degli stessi consigli camerali introdurranno, da questo punto di vista, dei cambiamenti? A. R. La Legge 580/93 porta un contributo significativo per il raggiungimento di ancora maggior efficienza per il sistema camerale che comunque funziona già bene. * Parlamentare, Commissione Attività Produttive Camera
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ORGANIZZARE LA SOCIETA' INTORNO ALL'IMPRESA
L'altra è la ridefinizione delle comunità tradizionali
attraverso anche la politica. Non è che la politica non
sia mai stata importante in questi sistemi; anzi lo è stata
soprattutto nell'organizzare la società del luogo, visto
che si può dire che queste aree hanno avuto in genere una
buona amministrazione locale, migliore di quella di molte altre
aree del Paese. Sono luoghi dove il fare politica si era storicamente
specializzato nel fare politica a livello locale; ciò a
volte aveva delle varianti rosse, a volte bianche, ma tutto sommato,
e nonostante le differenze importanti che ci sono e che possono
essere studiate, i tipi di pratiche messe in atto erano simili,
ed erano soprattutto quelle di organizzare la società intorno
all'impresa. Nessuno ha mai "progettato" politicamente
le piccole imprese, esse sono venute su per conto proprio. Qualche
volta si è cominciato a fornire servizi, a razionalizzare
opportunità e così via, ma soprattutto nella fase
prima descritta la politica agiva nelle condizioni al contorno;
per così dire prolungava la comunità e faceva parte
di quell'insieme di strutture che riproduceva quelle condizioni.
Da questo punto di vista si poteva ipotizzare che le condizioni
necessarie perché si riproducesse nel tempo il vantaggio
al gioco incrociato di attori locali sarebbe diventato più
complicato. Le famiglie non sarebbero più bastate, così
come non erano più sufficienti le scuole tradizionali generiche
e altri elementi della società tradizionale; sarebbero
state richieste delle funzioni più complesse e un'efficienza
amministrativa diversa, che avrebbe potuto essere presente o mancare;
qualora fosse mancata, le convenienze non sarebbero più
state costruite a livello locale. Tenendo presente tutto ciò,
vorrei arrivare all'attuale situazione dell'economia, ricordando
anche che evidentemente non abbiamo soltanto delle aree di piccola
impresa, dei distretti; esiste anche un problema generale di evoluzione
dell'economia contemporanea, con delle conseguenze sulla sua organizzazione
spaziale.
LA CRISI DELLO STATO NAZIONALE
Sullo sfondo vanno posti due processi che stanno avanzando, anche
se non sono cominciati adesso.
Il primo di questi processi è la costruzione europea, che
ai fini del nostro discorso va richiamata per un effetto ormai
del tutto evidente. Certamente oggi gli Stati perdono funzioni
e, soprattutto, c'è una confusione proprio di funzioni
tra Stati nazionali e costruzione europea. Ciò significa
che abbiamo tavoli nazionali ed europei sui quali contrattare
determinate cose e tutto questo ridà spazio a città
e regioni. Le città stanno ridiventando degli attori istituzionali:
ciò significa che ci sono nuovi spazi istituzionali per
degli attori locali. Il secondo processo riguarda la mondializzazione
o, come si dice, la globalizzazione dell'economia. Anche qui siamo
entrati in una situazione in cui lo Stato nazionale è sempre
più sorpassato dalla libera azione sui mercati delle imprese.
Questo, tra l'altro, è uno dei motivi per cui gli Stati
ormai sono in grado di regolare male al loro interno il grande
gioco delle variabili aggregate, visto che comunque l'economia
"scappa" da tutte le parti. Siamo di fronte a un'economia
molto fluida, che è governata dalla mobilità dei
fattori, dal mercato più che dall'organizzazione. Il mercato
stesso è il meccanismo più semplice per rimettere
a posteriori insieme le cose e questo sposta la visione della
redditività a corto termine, genera un minor interesse
a effetti di sistema.
Naturalmente ci sono delle diversità settoriali, perché
vi sono settori che giocano meglio in questa nuova situazione
e ce ne sono altri che lo fanno meno bene perché hanno
più bisogno di organizzazione. Basti comunque il fatto
che tutto questo certamente favorisce la mobilità anche
spaziale dei fattori; ovvero ci sono spinte alla delocalizzazione
e certamente flussi di capitale, ma anche di capitale fisso, di
persone o altro; secondo alcuni questo avrebbe portato a una esplosione
dei sistemi locali verso una economia globalizzata per imprese
a rete.
La grande impresa moderna è un'impresa che stabilisce,
appunto, delle reti di fornitori e di venditori più o meno
grandi, suoi interlocutori nel mondo, li va a cercare dove ci
sono convenienze; queste reti possono cambiare nel tempo, sono
relativamente instabili.
ECONOMIA, VELOCITA' VERSUS STABILITA'
Questo sarebbe certamente favorito dalla nuova tecnologia, perché
da un lato la microelettronica permette la diffusione delle attività
di produzione, dall'altro la telematica permette il controllo
accentrato di grandi sistemi. Però la determinazione non
è tecnologica; si tratta dei nuovi mercati aperti, fluidi,
instabili che in questa età dell'incertezza regolano l'economia
a posteriori e con visioni di breve periodo. Chi aderisce di più
a questa possibilità galleggia, ma quali siano le conseguenze
a lungo termine o allargate di questo fatto è un altro
discorso.
Secondo alcuni tutto ciò avrebbe comportato anche spinte
forti di delocalizzazione. Che queste ci siano è innegabile.
I geografi, ma anche gli economisti, ci mostrano però l'evidenza
empirica della controtendenza al persistere della concentrazione
delle grandi aree metropolitane; quindi dobbiamo partire dall'idea
che, da un lato, stanno sviluppandosi insieme un aumento dei flussi
e della velocità dell'economia, ma anche il radicamento
locale di questa. Sembra a prima vista una contraddizione in termini,
ma in realtà quello che noi dobbiamo cercare di capire
è proprio perché queste due cose si verificano insieme.
Gli economisti possono avere parole diverse per spiegare questo
paradosso, ma quando ci provano usano un linguaggio molto sociologico.
Esiste una tensione fra la velocizzazione, il cambiamento dell'economia
e il fatto che la competitività nell'economia reale mette
in gioco risorse che non possono essere che create e rinnovate
nella stabilità e nella durata.
TERRITORIO E FORMAZIONE DELLE "RISORSE LENTE"
Tutto questo spesso fa sì che il territorio sia l'elemento
chiave per governare i tempi contraddittori dell'economia contemporanea.
Il territorio, inteso come struttura di organizzazione dei tempi
dell'economia, da un lato è un fattore di ancoraggio che
permette di rallentare i ritmi, rendendo possibile l'accesso alle
risorse lente della competitività, cioè agli effetti
di sistema. Un territorio può convincere degli attori a
giocare insieme su un medio periodo, a rinnovare insieme delle
risorse, delle opportunità che poi diventano una specie
di bene collettivo al quale la società locale può
attingere. D'altro canto, una società locale abbastanza
complessa è una macchina per accelerare i flussi (si pensi
alla elasticità di trovare dei sub-fornitori e di cambiarli,
oppure a un mercato del lavoro differenziato e flessibile). L'economista
Pierre Veltz per esemplificare questo tipo di cose anche in apparenza
banali, ma in realtà molto istruttive dice, per esempio:
«In questo momento non c'è più nessuna grande
impresa francese che investa in provincia». Uno dei motivi
per cui le grandi imprese investono in grandi aree ha a che fare
coi servizi e con il mercato del lavoro che trovano. Ma se in
un'area periferica si dovesse chiudere una grande fabbrica, o
anche solo ridimensionarla, questo sarebbe un enorme problema
sociale, mentre in un'area metropolitana più grande e complessa,
diventa un problema più piccolo da gestire complessivamente.
Un altro esempio, questa volta guardando al mercato del lavoro
in senso stretto, è uno dei problemi emersi in modo rilevante
in Francia: per spostare un dirigente come un impiegato o un operaio
specializzato da un Paese a un altro, il mercato del lavoro dovrebbe
garantire anche un lavoro al coniuge. Quanto più grande
è il sistema locale, tanto più è probabile
che questo secondo lavoro si trovi.
Sono casi al limite e tutto sommato possiamo anche considerarli
secondari, ma molto indicativi di una quantità di fattori
che stanno cospirando a mantenere una concentrazione che può
essere in certi casi metropolitana; in questo caso si fa l'esempio
dell'Ile de France, ma potrebbe trattarsi di insiemi più
piccoli.
Cose simili, in realtà, accadevano nei distretti industriali
in cui lavoravano mariti e mogli, con modelli diversi di presenza
di età sul mercato del lavoro a seconda delle culture locali;
ciò tornava comunque nel conto dell'architettura complessiva.
Attualmente stiamo riscoprendo la stessa cosa. Perché si
poteva licenziare facilmente anche in un distretto industriale?
Perché era una economia così plastica che dopo un
mese, al massimo, uno ritrovava lavoro, era sicuro che non sarebbe
rimasto a lungo a casa.
Non solo ma, come ci hanno sempre insegnato gli economisti che
hanno studiato Prato, quando un impannatore al mercato di Londra
prendeva un'ordinazione relativa a una fornitura, non sapeva ancora
esattamente chi avrebbe eseguito il lavoro, però era sicuro
di trovare a Prato qualcuno che lo avrebbe fatto e qualcun altro
che gli avrebbe modificato la macchina necessaria a quella specifica
lavorazione. Sono questi effetti di sistema che rallentano l'economia
e rendono possibile la riproduzione di risorse lente, cioè
spostano in un'ottica di sistema nel medio periodo e sono dunque
un fattore di ancoraggio che al tempo stesso permette elasticità.
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Intervista a Marco Citterio*
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I&S Si parla di un momento di difficoltà da parte dei distretti industriali nel gestire il cambiamento tecnologico e di mercato. Qual è la sua opinione? M.C. Le difficoltà congiunturali investono anche i distretti industriali. La situazione al loro interno è molto più complessa di quanto appaia. Molti fenomeni non vengono percepiti dalle rilevazioni statistiche. Nel distretto del mobile, ad esempio, vi sono almeno 500 imprenditori operanti sui mercati dell'Est europeo, dei quali le statistiche del distretto non sanno nulla. Nel tessile vi è una grande spinta all'innovazione; vi sono dinamiche trainate dalla globalizzazione che agiscono sull'organizzazione delle imprese, che sfuggono alle analisi degli economisti. I&S Ma i processi di globalizzazione non mettono in difficoltà proprio le imprese minori? M.C. Nel distretto del mobile, per esempio, i processi di internazionalizzazione procedono non per singola impresa ma per sistema di imprese. Si sviluppano nuove capacità di fare marketing più aggressivo. Vi è una ripresa di quote di mercato prima lasciate ad altri distretti ed è in atto una grande flessibilità. Io non parlerei di una crisi delle piccole imprese. Per il tessile la globalizzazione dei mercati non è un problema. Il settore è presente, con la sua miriade di imprese, in tutto il mondo. I nodi critici sono costituiti dalla concorrenza dei Paesi emergenti e riguardano le produzioni di qualità medio-bassa, per i quali i nostri costi non sono più competitivi. Tali problemi investono trasversalmente tutto il settore e non solo le microimprese. I&S Qual è il ruolo delle istituzioni pubbliche locali nelle politiche a favore dello sviluppo del sistema produttivo? M.C. Attuare una politica a livello regionale per i distretti oggi è molto problematico. La legge regionale del '93 già nell'individuazione dei distretti, ha operato sulla base di dati statistici vecchi, senza tenere conto dell'evoluzione dell'economia. Inoltre la legge presumeva di rinviare ai distretti l'attuazione delle politiche industriali, senza però attuare gli strumenti. Quando si passa dalla fase di programmazione a quella della predisposizione dei piani da parte della Regione ci si scontra con una visione centralistica dell'economia che porta a risultati distorti. Infine c'è anche un problema di legittimazione degli organi del distretto, che sono attualmente comitati che si autoproclamano su base volontaria. I&S Quale ruolo possono esercitare le Camere di Commercio, presenti nei comitati? M.C. Serve un tavolo per discutere e confrontare le strategie di sviluppo industriale nel distretto: non per decidere, perché sono le imprese a prendere le decisioni, non le istituzioni. Le Camere di Commercio sono chiamate a svolgere un ruolo di coordinamento di tutte le forze economiche e sociali. Il loro compito è di verificare la priorità degli investimenti sul territorio, in funzione delle strategie adottate. *Presidente Camera di Commercio di Como
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TUTELARE, UN MESTIERE DIFFICILE
Ammettiamo l'ipotesi che tutto questo aumenti il bisogno di organizzazione
e di governo, intendendo l'espressione "governo" nel
senso in cui gli inglesi usano governance. Questa è
solo una parte del tipo di governo di cui hanno bisogno i sistemi
territoriali attuali. La funzione "politica" fondamentale
non è quella di pianificare e dirigere una direzione di
sviluppo, ma la capacità di integrare e rappresentare dei
soggetti locali reali. Si tratta di sviluppare una razionalità
di processo fra attori, i quali devono interloquire fra di loro
cercando soluzioni senza averle precostituite, combinando mercato
e atti amministrativi, forme associative e tavoli di contrattazione.
Questa forma di "governo" implica un rapporto pubblico
e privato, una capacità di agire in sintonia e di integrare
in un nuovo soggetto collettivo che non dovrà mai essere
così rigido da impedire agli attori singoli di agire in
altre direzioni (guai a limitarli soltanto nel distretto); allo
stesso tempo dovrà essere un "governo" sufficientemente
autorevole da mettere insieme attori diversi, da convincerli a
investire sulla riproduzione dei beni pubblici e di capitale sociale
come si usa anche dire oggi, che appartiene a un certo distretto.
È un mestiere difficilissimo ed evidentemente non abbiamo
ancora imparato a farlo. Credo che ci sia qualche segno positivo
che sta emergendo anche in molte situazioni locali.
Questo articolo è la rielaborazione dell'intervento
al seminario: "Istituzioni, territorio ed economie locali:
quali politiche?", svoltosi il 20 maggio '96 presso la CCIAA
di Milano.