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Impresa & Stato n°35

GOVERNARE
I TEMPI DELL'ECONOMIA

Velocità del cambiamento, lentezza della formazione delle risorse competitive:
l'effetto-sistema dei distretti può governare la contraddizione?

di
ARNALDO BAGNASCO

L'Italia, anche se può sembrare banale ricordarlo, è un Paese con forti differenziazioni territoriali. Naturalmente tutti i Paesi sono più o meno disomogenei, ma alcuni sono più differenziati sul territorio di altri; questo significa che la chiave regionale di lettura di una società molto differenziata è primaria per comprendere il modo in cui tutto sta insieme. Alcune di queste differenze vengono dal passato, sono per così dire "originarie" visto che le aree precedenti all'unità d'Italia erano già molto diversificate fra di loro, per esempio per livello di sviluppo dell'economia.
Queste differenze devono però essere considerate se e in quanto sono innestate su altre nuove. Per quanto riguarda l'evoluzione economica, le nuove differenze sono nello spazio degli evidenti modelli specifici di evoluzione dell'economia stessa. Queste tendenze sono già visibili nei decenni di grande crescita dell'economia mondiale e nazionale che a volte sono stati interpretati in maniera molto semplificata, come è successo per il Mezzogiorno. Di recente, invece, la spinta di regionalizzazione dell'economia italiana più evidente è lo sviluppo di piccole imprese delle aree del centro e del nord-est del Paese.
È opportuno ripartire da quelli che sono stati chiamati "localismi", "distretti industriali", ovvero sistemi locali di piccole imprese, anche se i concetti spesso hanno semplificato realtà più differenziate. Si tratta di una forma di sviluppo della piccola impresa che pur avendo inizi precedenti, esplode verso la fine degli anni Sessanta, e che da quel momento si cercò di interpretare in vari modi: prima con il decentramento produttivo, poi con l'economia informale; si cercò di non considerare questa situazione come un fuoco di paglia, dato che la forza di questa economia non era chiara a tutti.

IL GIOCO DELL'ITALIA DELLE 1000 CITTA'
Per tentativi ed errori si cominciò a capire che si trattava di qualcosa di robusto, che si sarebbe radicato. Gli economisti cominciarono a studiare perché la piccola impresa ritrovava uno spazio nell'economia contemporanea. E cominciarono ad arrivare risposte che erano collegate da un lato all'ampliarsi dei mercati di consumo; inoltre, ma questo si cominciò a vedere in un secondo momento, la tecnologia contemporanea poteva essere applicata anche alle piccole imprese. Strutture organizzative più agili, maggiore capacità di stare su mercati instabili, nuovo spazio per la produzione di piccola serie, aumenti in genere dei mercati mondiali dei beni di consumo: tutto questo stava ridando spazio alla piccola impresa. Ciò avveniva nel momento di crisi della grande impresa. A questo punto la questione era nel chiedersi perché certe aree riuscivano a giocare il nuovo gioco e altre no, perché altre meno, altre prima o dopo. Semplificando molto, si pensò al gioco di una particolare società urbana e una particolare organizzazione della società nelle campagne. Le aree nella tradizione dell'"Italia delle città" avevano radicato sul territorio delle infrastrutture, magari non molto ricche, ma molto diffuse: strade, mezzi di comunicazione, banche locali, istituti di formazione e così via. Tutte risorse che diventeranno preziose come strutturazione del territorio quando tutto questo diventerà attivo. Ma le stesse città erano anche sede e tradizione di artigianato importante, qualche volta di industria, tradizioni bancarie, finanziarie, di relazioni con l'estero, tradizioni commerciali; si trattava di una tradizione che risaliva al primo capitalismo fra Medioevo e Rinascimento. Del resto queste erano aree che, pur avendo vissuto evidentemente una modernizzazione della cultura e della loro economia, non avevano mai conosciuto, se non per eccezione, la grande industrializzazione. Non erano mai state delle aree "fordiste"; anzi, quando si studierà poi un po' da vicino queste regioni si troverà che le aree che più avevano conosciuto la grande industria, spesso non erano diventate delle tipiche aree a sviluppo di piccola impresa.

MECCANISMI DI MERCATO CHE VENGONO DA LONTANO
Queste città, con le loro figure sociali e le loro tradizioni furono gli attivatori del processo; però, al tempo stesso, l'interazione con una campagna particolare (quella delle grandi famiglie che già erano loro stesse delle specie di imprese perché aree di lavoro contadino autonomo, importanti per la formazione anche dell'imprenditorialità artigiana) creò un mercato del lavoro estremamente mobile, sensibile e poco costoso che era esattamente quello di cui avevano bisogno in quel momento le piccole imprese. Quindi all'inizio la situazione sociale di questa forma si spiega con queste possibilità di compensazione del mercato e di attivazione su una matrice precedente che dava anche continuità culturale con il passato. Diversi elementi di questa "archeologia" ritornano, soprattutto quando si prova a concettualizzare in modo un po' più astratto l'interpretazione delle economie regionali, anche per quello che riguarda altri contesti. Si provi a considerare una di queste economie locali come sistema, per vedere quali sono i meccanismi che lo regolano in questa fase. Anzitutto il mercato. Il mercato del lavoro implica che le persone si spostino da un'impresa all'altra, a seconda dei periodi e così via; questo accade anche oggi con meccanismi simili a quelli prima descritti, i quali compensano e rendono possibile il mercato stesso: per esempio la famiglia "paracadute", o la buona conoscenza e fiducia interpersonale fra le persone. O ancora le istituzioni locali - le banche citate prima - e altri elementi, sintetizzabili con la parola "comunità" o "comunità locale". Questo mix di mercato e società locale rendeva possibile il funzionamento del mercato stesso.
Storicamente, la crescita economica ha comportato concentrazione organizzativa. Nel nostro caso, c'è stata una crescita organizzativa, ma non è andata nel senso della concentrazione industriale; chi ha studiato queste cose ha attirato l'attenzione soprattutto sulla tendenza a forme di organizzazione che potremmo chiamare "appropriata", cioè specifica, caratteristica di queste forme. Consorzi, per esempio, oppure contratti di lunga durata, joint venture fra imprese, contratti per mettere insieme tecnologie.
Non c'è stato un processo di concentrazione anche se di fatto un sistema può diventare molto unitario e complesso. C'è un'evoluzione da studiare, cresce il livello organizzativo, ma si mantengono unità indipendenti. Questa è una linea di sviluppo che in ipotesi poteva essere fatta e che varrà la pena di considerare nei suoi sviluppi attuali e futuri.


CAMERE DI COMMERCIO: MOTORE DEI DISTRETTI


Intervista ad Alessandro Rubino*


I&S Quali sono, a Suo avviso, le principali problematiche riguardanti i distretti industriali nella fase attuale di transizione verso il mercato globale?

A. R. Tendenzialmente per un mercato come il nostro, ove la presenza della piccola e media impresa è fortissima, senza eguali in altre esperienze europee, in assenza di politiche di traino del Governo e degli enti preposti alla penetrazione delle nostre imprese sui mercati europei, i distretti industriali, ove effettivamente tali, sono un'utile forma di salvaguardia delle nostre imprese per rimanere competitive nella globalizzazione del mercato in atto.

I&S Come membro della Commissione Attività Produttive, quali ritiene debbano essere le linee d'intervento in un tema di distretti industriali?

A. R. Intensificare la presenza e le nascite dei distretti, specialmente nelle aree di crisi del Paese, affiancando a tale iniziativa la nascita di circuiti telematici di borse locali che possano favorire l'accesso di capitale di rischio alla piccola e media impresa; defiscalizzare le nuove imprese, per i primi tre anni di attività, nei distretti delle aree di crisi allentando anche la morsa degli eccessivi oneri che gravano sul costo del lavoro per permettere lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali, riformare radicalmente l'ICE ponendolo nelle condizioni di essere sul mercato al fianco delle nostre imprese e dei consorzi export da creare all'interno dei distretti.

I&S Quali rapporti Lei ritiene debbano esistere tra istituzioni europee, nazionali, locali e funzionali nel gestire la transizione dei distretti industriali?

A. R. Secondo il principio di sussidiarietà si deve instaurare una filiera di collaborazioni atte a favorirne lo sviluppo.

I&S Quale ruolo devono avere le Camere di Commercio per i distretti industriali ora che la Legge di riforma 580/93 attribuisce loro nuove competenze?

A.R. Le Camere di Commercio in quest'ottica, a mio parere, dovranno essere il centro motore dei distretti industriali, con ciò sopperendo alle mancanze e alle lentezze della macchina statale di supporto alle imprese.

I&S Le nuove modalità di formazione degli stessi consigli camerali introdurranno, da questo punto di vista, dei cambiamenti?

A. R. La Legge 580/93 porta un contributo significativo per il raggiungimento di ancora maggior efficienza per il sistema camerale che comunque funziona già bene.

* Parlamentare, Commissione Attività Produttive Camera


ORGANIZZARE LA SOCIETA' INTORNO ALL'IMPRESA
L'altra è la ridefinizione delle comunità tradizionali attraverso anche la politica. Non è che la politica non sia mai stata importante in questi sistemi; anzi lo è stata soprattutto nell'organizzare la società del luogo, visto che si può dire che queste aree hanno avuto in genere una buona amministrazione locale, migliore di quella di molte altre aree del Paese. Sono luoghi dove il fare politica si era storicamente specializzato nel fare politica a livello locale; ciò a volte aveva delle varianti rosse, a volte bianche, ma tutto sommato, e nonostante le differenze importanti che ci sono e che possono essere studiate, i tipi di pratiche messe in atto erano simili, ed erano soprattutto quelle di organizzare la società intorno all'impresa. Nessuno ha mai "progettato" politicamente le piccole imprese, esse sono venute su per conto proprio. Qualche volta si è cominciato a fornire servizi, a razionalizzare opportunità e così via, ma soprattutto nella fase prima descritta la politica agiva nelle condizioni al contorno; per così dire prolungava la comunità e faceva parte di quell'insieme di strutture che riproduceva quelle condizioni.
Da questo punto di vista si poteva ipotizzare che le condizioni necessarie perché si riproducesse nel tempo il vantaggio al gioco incrociato di attori locali sarebbe diventato più complicato. Le famiglie non sarebbero più bastate, così come non erano più sufficienti le scuole tradizionali generiche e altri elementi della società tradizionale; sarebbero state richieste delle funzioni più complesse e un'efficienza amministrativa diversa, che avrebbe potuto essere presente o mancare; qualora fosse mancata, le convenienze non sarebbero più state costruite a livello locale. Tenendo presente tutto ciò, vorrei arrivare all'attuale situazione dell'economia, ricordando anche che evidentemente non abbiamo soltanto delle aree di piccola impresa, dei distretti; esiste anche un problema generale di evoluzione dell'economia contemporanea, con delle conseguenze sulla sua organizzazione spaziale.

LA CRISI DELLO STATO NAZIONALE
Sullo sfondo vanno posti due processi che stanno avanzando, anche se non sono cominciati adesso.
Il primo di questi processi è la costruzione europea, che ai fini del nostro discorso va richiamata per un effetto ormai del tutto evidente. Certamente oggi gli Stati perdono funzioni e, soprattutto, c'è una confusione proprio di funzioni tra Stati nazionali e costruzione europea. Ciò significa che abbiamo tavoli nazionali ed europei sui quali contrattare determinate cose e tutto questo ridà spazio a città e regioni. Le città stanno ridiventando degli attori istituzionali: ciò significa che ci sono nuovi spazi istituzionali per degli attori locali. Il secondo processo riguarda la mondializzazione o, come si dice, la globalizzazione dell'economia. Anche qui siamo entrati in una situazione in cui lo Stato nazionale è sempre più sorpassato dalla libera azione sui mercati delle imprese. Questo, tra l'altro, è uno dei motivi per cui gli Stati ormai sono in grado di regolare male al loro interno il grande gioco delle variabili aggregate, visto che comunque l'economia "scappa" da tutte le parti. Siamo di fronte a un'economia molto fluida, che è governata dalla mobilità dei fattori, dal mercato più che dall'organizzazione. Il mercato stesso è il meccanismo più semplice per rimettere a posteriori insieme le cose e questo sposta la visione della redditività a corto termine, genera un minor interesse a effetti di sistema.
Naturalmente ci sono delle diversità settoriali, perché vi sono settori che giocano meglio in questa nuova situazione e ce ne sono altri che lo fanno meno bene perché hanno più bisogno di organizzazione. Basti comunque il fatto che tutto questo certamente favorisce la mobilità anche spaziale dei fattori; ovvero ci sono spinte alla delocalizzazione e certamente flussi di capitale, ma anche di capitale fisso, di persone o altro; secondo alcuni questo avrebbe portato a una esplosione dei sistemi locali verso una economia globalizzata per imprese a rete.
La grande impresa moderna è un'impresa che stabilisce, appunto, delle reti di fornitori e di venditori più o meno grandi, suoi interlocutori nel mondo, li va a cercare dove ci sono convenienze; queste reti possono cambiare nel tempo, sono relativamente instabili.

ECONOMIA, VELOCITA' VERSUS STABILITA'
Questo sarebbe certamente favorito dalla nuova tecnologia, perché da un lato la microelettronica permette la diffusione delle attività di produzione, dall'altro la telematica permette il controllo accentrato di grandi sistemi. Però la determinazione non è tecnologica; si tratta dei nuovi mercati aperti, fluidi, instabili che in questa età dell'incertezza regolano l'economia a posteriori e con visioni di breve periodo. Chi aderisce di più a questa possibilità galleggia, ma quali siano le conseguenze a lungo termine o allargate di questo fatto è un altro discorso.
Secondo alcuni tutto ciò avrebbe comportato anche spinte forti di delocalizzazione. Che queste ci siano è innegabile. I geografi, ma anche gli economisti, ci mostrano però l'evidenza empirica della controtendenza al persistere della concentrazione delle grandi aree metropolitane; quindi dobbiamo partire dall'idea che, da un lato, stanno sviluppandosi insieme un aumento dei flussi e della velocità dell'economia, ma anche il radicamento locale di questa. Sembra a prima vista una contraddizione in termini, ma in realtà quello che noi dobbiamo cercare di capire è proprio perché queste due cose si verificano insieme. Gli economisti possono avere parole diverse per spiegare questo paradosso, ma quando ci provano usano un linguaggio molto sociologico.
Esiste una tensione fra la velocizzazione, il cambiamento dell'economia e il fatto che la competitività nell'economia reale mette in gioco risorse che non possono essere che create e rinnovate nella stabilità e nella durata.

TERRITORIO E FORMAZIONE DELLE "RISORSE LENTE"
Tutto questo spesso fa sì che il territorio sia l'elemento chiave per governare i tempi contraddittori dell'economia contemporanea. Il territorio, inteso come struttura di organizzazione dei tempi dell'economia, da un lato è un fattore di ancoraggio che permette di rallentare i ritmi, rendendo possibile l'accesso alle risorse lente della competitività, cioè agli effetti di sistema. Un territorio può convincere degli attori a giocare insieme su un medio periodo, a rinnovare insieme delle risorse, delle opportunità che poi diventano una specie di bene collettivo al quale la società locale può attingere. D'altro canto, una società locale abbastanza complessa è una macchina per accelerare i flussi (si pensi alla elasticità di trovare dei sub-fornitori e di cambiarli, oppure a un mercato del lavoro differenziato e flessibile). L'economista Pierre Veltz per esemplificare questo tipo di cose anche in apparenza banali, ma in realtà molto istruttive dice, per esempio: «In questo momento non c'è più nessuna grande impresa francese che investa in provincia». Uno dei motivi per cui le grandi imprese investono in grandi aree ha a che fare coi servizi e con il mercato del lavoro che trovano. Ma se in un'area periferica si dovesse chiudere una grande fabbrica, o anche solo ridimensionarla, questo sarebbe un enorme problema sociale, mentre in un'area metropolitana più grande e complessa, diventa un problema più piccolo da gestire complessivamente.
Un altro esempio, questa volta guardando al mercato del lavoro in senso stretto, è uno dei problemi emersi in modo rilevante in Francia: per spostare un dirigente come un impiegato o un operaio specializzato da un Paese a un altro, il mercato del lavoro dovrebbe garantire anche un lavoro al coniuge. Quanto più grande è il sistema locale, tanto più è probabile che questo secondo lavoro si trovi.
Sono casi al limite e tutto sommato possiamo anche considerarli secondari, ma molto indicativi di una quantità di fattori che stanno cospirando a mantenere una concentrazione che può essere in certi casi metropolitana; in questo caso si fa l'esempio dell'Ile de France, ma potrebbe trattarsi di insiemi più piccoli.
Cose simili, in realtà, accadevano nei distretti industriali in cui lavoravano mariti e mogli, con modelli diversi di presenza di età sul mercato del lavoro a seconda delle culture locali; ciò tornava comunque nel conto dell'architettura complessiva. Attualmente stiamo riscoprendo la stessa cosa. Perché si poteva licenziare facilmente anche in un distretto industriale? Perché era una economia così plastica che dopo un mese, al massimo, uno ritrovava lavoro, era sicuro che non sarebbe rimasto a lungo a casa.
Non solo ma, come ci hanno sempre insegnato gli economisti che hanno studiato Prato, quando un impannatore al mercato di Londra prendeva un'ordinazione relativa a una fornitura, non sapeva ancora esattamente chi avrebbe eseguito il lavoro, però era sicuro di trovare a Prato qualcuno che lo avrebbe fatto e qualcun altro che gli avrebbe modificato la macchina necessaria a quella specifica lavorazione. Sono questi effetti di sistema che rallentano l'economia e rendono possibile la riproduzione di risorse lente, cioè spostano in un'ottica di sistema nel medio periodo e sono dunque un fattore di ancoraggio che al tempo stesso permette elasticità.


UN TAVOLO PER DISCUTERE LE STRATEGIE DI SVILUPPO


Intervista a Marco Citterio*


I&S Si parla di un momento di difficoltà da parte dei distretti industriali nel gestire il cambiamento tecnologico e di mercato. Qual è la sua opinione?

M.C. Le difficoltà congiunturali investono anche i distretti industriali. La situazione al loro interno è molto più complessa di quanto appaia. Molti fenomeni non vengono percepiti dalle rilevazioni statistiche. Nel distretto del mobile, ad esempio, vi sono almeno 500 imprenditori operanti sui mercati dell'Est europeo, dei quali le statistiche del distretto non sanno nulla. Nel tessile vi è una grande spinta all'innovazione; vi sono dinamiche trainate dalla globalizzazione che agiscono sull'organizzazione delle imprese, che sfuggono alle analisi degli economisti.

I&S Ma i processi di globalizzazione non mettono in difficoltà proprio le imprese minori?

M.C. Nel distretto del mobile, per esempio, i processi di internazionalizzazione procedono non per singola impresa ma per sistema di imprese. Si sviluppano nuove capacità di fare marketing più aggressivo. Vi è una ripresa di quote di mercato prima lasciate ad altri distretti ed è in atto una grande flessibilità. Io non parlerei di una crisi delle piccole imprese. Per il tessile la globalizzazione dei mercati non è un problema. Il settore è presente, con la sua miriade di imprese, in tutto il mondo. I nodi critici sono costituiti dalla concorrenza dei Paesi emergenti e riguardano le produzioni di qualità medio-bassa, per i quali i nostri costi non sono più competitivi. Tali problemi investono trasversalmente tutto il settore e non solo le microimprese.

I&S Qual è il ruolo delle istituzioni pubbliche locali nelle politiche a favore dello sviluppo del sistema produttivo?

M.C. Attuare una politica a livello regionale per i distretti oggi è molto problematico. La legge regionale del '93 già nell'individuazione dei distretti, ha operato sulla base di dati statistici vecchi, senza tenere conto dell'evoluzione dell'economia. Inoltre la legge presumeva di rinviare ai distretti l'attuazione delle politiche industriali, senza però attuare gli strumenti. Quando si passa dalla fase di programmazione a quella della predisposizione dei piani da parte della Regione ci si scontra con una visione centralistica dell'economia che porta a risultati distorti. Infine c'è anche un problema di legittimazione degli organi del distretto, che sono attualmente comitati che si autoproclamano su base volontaria.

I&S Quale ruolo possono esercitare le Camere di Commercio, presenti nei comitati?

M.C. Serve un tavolo per discutere e confrontare le strategie di sviluppo industriale nel distretto: non per decidere, perché sono le imprese a prendere le decisioni, non le istituzioni. Le Camere di Commercio sono chiamate a svolgere un ruolo di coordinamento di tutte le forze economiche e sociali. Il loro compito è di verificare la priorità degli investimenti sul territorio, in funzione delle strategie adottate.

*Presidente Camera di Commercio di Como


TUTELARE, UN MESTIERE DIFFICILE
Ammettiamo l'ipotesi che tutto questo aumenti il bisogno di organizzazione e di governo, intendendo l'espressione "governo" nel senso in cui gli inglesi usano governance. Questa è solo una parte del tipo di governo di cui hanno bisogno i sistemi territoriali attuali. La funzione "politica" fondamentale non è quella di pianificare e dirigere una direzione di sviluppo, ma la capacità di integrare e rappresentare dei soggetti locali reali. Si tratta di sviluppare una razionalità di processo fra attori, i quali devono interloquire fra di loro cercando soluzioni senza averle precostituite, combinando mercato e atti amministrativi, forme associative e tavoli di contrattazione. Questa forma di "governo" implica un rapporto pubblico e privato, una capacità di agire in sintonia e di integrare in un nuovo soggetto collettivo che non dovrà mai essere così rigido da impedire agli attori singoli di agire in altre direzioni (guai a limitarli soltanto nel distretto); allo stesso tempo dovrà essere un "governo" sufficientemente autorevole da mettere insieme attori diversi, da convincerli a investire sulla riproduzione dei beni pubblici e di capitale sociale come si usa anche dire oggi, che appartiene a un certo distretto.
È un mestiere difficilissimo ed evidentemente non abbiamo ancora imparato a farlo. Credo che ci sia qualche segno positivo che sta emergendo anche in molte situazioni locali.

Questo articolo è la rielaborazione dell'intervento al seminario: "Istituzioni, territorio ed economie locali: quali politiche?", svoltosi il 20 maggio '96 presso la CCIAA di Milano.