Abbiamo più volte scritto che la Costituzione Italiana
del 1948 è superata da 50 anni di storia economica e sociale
del nostro Paese che da condizioni quasi sottosviluppate è
diventato oggi il quinto Paese industrializzato al mondo.
Merito di tutto ciò va in grande misura alle imprese ma
anche ai Governi che hanno dato al Paese le condizioni di fondo
per la libertà, la democrazia, l' Europa: tre valori che
non erano affatto scontati tra i partiti non al Governo. Le involuzioni
partitocratiche degli anni Settanta e soprattutto Ottanta (nelle
quali sono decisamente corresponsabili, sia pure con diversi gradi
di colpa e responsabilità, quasi tutti gli italiani che
ne hanno goduto con rendite) e le successive vicende giudiziarie
(la cui valutazione è ancora da elaborare con la saggezza
dello storico e non con l'emotività della piazza) hanno
creato adesso una situazione paradossale: partiti con meriti e
demeriti, cancellati; altri partiti, non certo più meritevoli,
fiorenti e governanti; nuovi ceti politici, incerti e confusi;
nuovi partiti politici, radicali ed estremisti. Lo stesso dicasi
per singoli uomini politici del passato, tutti oggi considerati
corrotti e incapaci; mentre alcuni erano dotati di statura politica
purtroppo travolta indiscriminatamente dal sistema delle rendite
e della corruzione-concussione in cui il nostro Paese s'è
immerso. Su tutte queste vicende ci vorrà perciò
molto tempo per fare serena chiarezza: sin d'ora anche una commissione
di esperti (non di parlamentari) nominata dal Parlamento potrebbe
dare un contributo importante alla ricostruzione storico-politica
del passato.
Ciò premesso è evidente che le discontinuità
venute in evidenza nella storia italiana negli ultimi 4 anni sono
tali che tutti i membri della classe politica odierna, o comunque
quelli che davvero hanno a cuore le sorti del Paese e non quelle
del loro partito, dovrebbero capire che vi è una strada
maestra da seguire: quella di un'Assemblea Costituente che in
brevissimo tempo riscriva la Costituzione. Solo in tal modo si
potrà cambiare davvero e dare al popolo italiano una forte
motivazione, di sostanza e di simboli, capace di sottrarlo ad
altre spinte estremamente pericolose, come quella della sfiducia
completa verso le Istituzioni o quella delle spinte separatiste
del Nord o quella della ricerca dell'uomo forte.
Perché il cambiamento intervenuto in Italia è troppo
grande per farvi fronte con palliativi o con commissioni bicamerali
o con generiche esortazioni che già in passato hanno dimostrato
la loro incapacità di concludere. Né potranno rimediare
da sole ai guasti passati alcune personalità di Governo
di valore economico-politico ma pur sempre a rischio di veder
depotenziata la loro competenza e il loro ruolo da pesanti condizionamenti
di partiti e di maggioranze.
Come economista che considera il cambiamento innanzitutto attraverso
quello del sistema produttivo, esaminiamo allora la situazione
e le prospettive.
GRANDI IMPRESE E "TRIANGOLO OLIGARCHICO"
Alla fine della guerra il Pil italiano aveva una composizione
da Paese semi-sottosviluppato con il 30% in agricoltura, il 35%
in industria, il 35% nei servizi. Adesso le quote sono rispettivamente
il 4%, il 32%, il 64% allineate a quelle dei Paesi più
sviluppati.
Ancora nel 1955, posta eguale a 100 la produzione industriale
procapite media europea, l'Italia era solo a livello 55 e la quota
italiana su quella europea era solo il 9% contro il 14% della
Francia, il 23,5% della Germania, il 30% del Regno Unito. Il ritardo
nello sviluppo italiano era quindi grave.
Nel 1964 questo divario era già stato annullato e nel 1990
l'Italia era il quarto per produzione industriale tra i Paesi
Ocse (dopo Stati Uniti, Giappone, Germania).
La vicenda produttiva italiana di questi ultimi 50 anni si può
suddividere in due periodi: 1946-1973 e 1973-1992.
Nel primo periodo 1946-1973 si sviluppa dapprima il "miracolo
economico" con la ricostruzione, il decollo della produzione
metalmeccanica, degli autoveicoli, con le grandi infrastrutture,
con il boom edilizio. Questo slancio prosegue fino al 1971, con
qualche pausa e rallentamento. Ma nel complesso il periodo è
di grande crescita e cambiamenti strutturali. La grande impresa,
pubblica e privata, domina la situazione e riceve non pochi sostegni,
diretti e indiretti, dallo Stato. Notevole è il peso di
quella pubblica (Iri ed Eni) con consistente dislocazione nel
Mezzogiorno. Il contributo delle grandi imprese allo sviluppo
italiano è notevole ma notevoli sono i loro limiti ed è
evidente la loro incapacità di passare dallo stadio di
grandi imprese nazionali protette a grandi imprese internazionali
competitive.
In questo periodo si consolida quella cultura politica che identifica
i rapporti con l'economia a quelli con le grandi imprese "nazionali".
Impresa pubblica diviene servente i partiti, tutti; la grande
impresa privata diviene l'interlocutore politico-partitico rispettato
e rispettoso perché dalla politica si aspetta (e ottiene)
spesso favori. Anche i sindacati contano molto, e in crescente
misura, per la loro natura di interlocutori forti, monolitici,
della grande impresa e dello Stato. È l'affermazione nei
fatti della cultura economica centralista e assistenzialista che
certo corrisponde a una delle ispirazioni piuttosto esplicite
della Costituzione del 1948 che si è materializzata poi
in una intonazione statalistica e pubblicistica. Dopotutto solo
la grande impresa può essere oggetto di nazionalizzazioni,
solo quella può essere condizionata dai pubblici poteri
e anche quando privata nella proprietà può essere
in sostanza pubblica nel condizionamento; il tutto tanto più
facilmente tanto meno la grande impresa è internazionalizzata.
Tra i molti articoli della Costituzione, impressiona riassuntivamente
l'art. 47, ove si dice che la Repubblica «favorisce l'accesso
del risparmio (...) al diretto e indiretto investimento azionario
nei grandi complessi produttivi del Paese» così dandoci
una perifrasi di impresa ("i grandi complessi produttivi
del Paese") da regimi social-comunisti. È vero che
l'art. 41 nel quale si afferma la libertà dell'iniziativa
economica privata è un lasciapassare per tutti, piccoli
e grandi; ma è altrettanto vero che nei fatti le piccole-medie
imprese hanno dovuto remare controcorrente e da sole.
Nel secondo periodo 1973-1992 la crisi del sistema monetario internazionale
e la crisi petrolifera degli inizi degli anni Settanta trovano
l'Italia e le sue grandi imprese del tutto impreparate. Rallentano
i consumi di massa (auto), la meccanica, l'edilizia. Le grandi
imprese private riescono però, negli anni Ottanta, a ristrutturarsi
riducendo gli addetti, aumentando i mezzi propri e il capitale
di rischio, innovando. Tutto ciò non le qualifica però
ancora internazionalmente e basta a dimostrarlo il fatto che,
ancora nel 1994, tra i 500 maggiori gruppi al mondo erano presenti
solo 11 imprese (private e pubbliche) contro 151 degli Usa, 149
giapponesi, 44 tedesche, 40 francesi. La Fiat, la sola con qualche
accreditamento internazionale, è appena al 41° posto.
Quanto alla grande impresa pubblica il suo disastro (Iri, Efim)
appare con tutta evidenza e i tentativi di correzione si rivelano
palliativi. Altre imprese pubbliche (Eni, Enel, alcune società
del gruppo Iri come le telecomunicazioni e la telefonia), pur
continuando con grandi inefficienze, reggono bene a scapito del
consumatore essendo in situazioni monopolistiche. In tutta questa
vicenda non sembra azzardato dire che ha governato il Paese un
"triangolo oligarchico" del potere economico: Stato,
grandi imprese, sindacati.
PMI INTERNAZIONALIZZATE E "DISTRETTI PRODUTTIVI"
Ma nel periodo 1973-1992, dopo un periodo di incubazione, emergono
con prepotenza (economica) le piccole e medie imprese (Pmi) che
vanno caratterizzando i "distretti industriali", il
"made in Italy", il "tradizionale innovativo".
La dematerializzazione della produzione, la rilevanza del design,
la capacità di entrate in nicchie di mercato internazionale
con prodotti di alta qualità fanno emergere un ceto imprenditoriale
del tutto nuovo. La varietà dei settori è notevole
(tessile-abbigliamento, pelli e calzature, legno-mobilio, marmi
lavorati, meccanica tradizionale e macchine per l'industria, ecc.).
Tra le molte caratteristiche di queste Pmi ne indichiamo due.
La prima riguarda la loro capacità innovativa, snellezza
operativa, caratterizzazione "familiare", collocazione
in un contesto socio-economico-territoriale di notevole omogeneità
imprenditoriale. Le denominazioni (distretti industriali, made
in Italy, tradizionale innovativo) traducono queste caratteristiche.
Anche le "grandi imprese" di questa tipologia non hanno
perso tali caratteristiche. I distretti coprono gran parte del
nord-centro partendo da Biella (manufatti lanieri), passando dalla
Brianza (mobilio) e da Brescia (metalli e acciaio) per arrivare
a Treviso (abbigliamento). Oppure partendo da Arezzo (oreficeria)
e da Civitanova Marche (calzature), passando da Sassuolo (ceramiche)
per arrivare a Montebelluna (calzature sportive). Sono solo alcuni
nomi perché la geo-economia dei distretti e del made in
Italy è ben più ampia, con qualche propaggine meridionale.
La seconda riguarda la loro capacità di internazionalizzazione
e di dinamicità nella globalizzazione dei mercati mondiali.
L'elenco dei loro successi è lungo. L'Italia (cioè
le Pmi) è prima o seconda esportatrice mondiale di mobili,
maglieria, calzature, oreficeria-gioielleria, ceramiche, macchine
per l'industria, marmi lavorati, lavorati di cuoio, preparazioni
a base di cereali, rubinetterie e valvolame. E l'elenco potrebbe
continuare a lungo.
La conclusione di tutto ciò è che valore aggiunto
di questo complesso risulta essere, in anni recenti e inclusa
l'industria alimentare, di circa il 58% del valore aggiunto manifatturiero
italiano. Quanto alle esportazioni il saldo positivo del commercio
estero (esportazioni meno importazioni) di questi settori del
made in Italy, moderatamente positivo dal 1953 al 1963 e crescente
dal 1963 al 1973, raggiunge livelli eccezionali e crescenti dopo
il 1973. Nel 1993, primo anno in cui si sono manifestati appieno
gli effetti del deprezzamento della lira, il saldo positivo è
stato di 87.309 miliardi. Questi dati sono ancor più impressionanti
se si considera che il saldo commerciale di tutti gli altri settori
è stato sempre, e pesantemente, negativo dal 1953 recuperando
parzialmente solo dopo la svalutazione del 1992 (Fortis, 1994).
I "distretti industriali" e il "made in Italy"
sono diventati sinonimi di un modello di sviluppo italiano che
viene stimato in tutto il mondo ("The Economist", 8
marzo 1996).
Questa straordinaria crescita e la corrispondente forza economica
delle Pmi e dei distretti socio-economico-territoriali non ha
trovato però riconoscimento istituzionale e politico se
si eccettua l'ovvio enunciato costituzionale che l'iniziativa
economica privata è libera. Si può dire che la loro
crescita è avvenuta malgrado l'ostilità dello Stato,
della burocrazia, dei sindacati e spesso della pubblica opinione
alla quale le Pmi venivano presentate come i luoghi del sommerso,
del lavoro nero, della evasione fiscale generalizzata.
Ciò spiega molte delle reazioni politiche del "popolo
dei distretti" consapevole sia della propria forza economica
e del contributo alla crescita dell'Italia sia della propria irrilevanza
politico-istituzionale sia dell'immagine sgradevole di loro fornita
alla pubblica opinione e da molti mezzi di comunicazione.
DEMOCRAZIA COMPLESSA E POTERI
A fronte di un cambiamento di tali dimensioni lo Stato italiano
interpretato dalla classe politico-partitica, espressa nel potere
legislativo ed esecutivo e dalla classe giudiziaria, espressa
nella magistratura, hanno continuato il loro cammino come se ci
si trovasse a 50 anni fa. Per non parlare della burocrazia centralista,
vero legante dei poteri oligarchici.
Così la natura di Stato centralista, tipica del nostro
Paese dall'Unità d'Italia, s'è rafforzata con la
proliferazione di leggi e norme che attribuivano ai partiti legislatori
e mediatori, alla burocrazia interpretante e perdurante a fronte
dei Governi rotanti, alla magistratura giudicante e "legiferante",
un potere enorme sia di azione che di inerzia. La riforma Costituzionale
che ci si attende adesso deve affermare almeno tre grandi princìpi:
quello di sussidiarietà, quello di interdipendenza, quello
di solidarietà. Il primo principio afferma che i livelli
di governo devono essere il più possibile vicini ai destinatari
delle decisioni. Il secondo principio afferma che la diffusione
dei poteri crea tra gli stessi una interdipendenza piuttosto che
un sistema gerarchico. Il terzo principio si fonda sui due precedenti
e afferma che la solidarietà deve essere responsabile e
partecipativa, non imposta e assistenzialista ma orientata allo
sviluppo. Questi princìpi si devono esprimere in cinque
livelli di governo: sovranazionale, europeo, nazionale, regionale,
funzionale. E da ultimo in cinque poteri: legislativo, esecutivo,
giudiziario, regolativo, cameralistico.
Ma ritorniamo alle Pmi-distretti e alla necessità ch'esse
abbiano una rilevanza, forme di rappresentanza e interlocutori
non certo riconducibili solo a quelli espressi dalla rappresentanza
individuale e omogeneizzante della elezione del Parlamento Italiano,
del Governo centrale che ne è espressione, della Pubblica
amministrazione che dovrebbe eseguire. In Italia ci sono oggi
circa 5 milioni di imprese ed è impensabile che la complessità
del loro ruolo e dei loro interessi sia riconducibile al governo
dei poteri oligarchici prima descritti.
Fermo restando che la soluzione federalista per le attuali Regioni,
in vari casi da riaccorpare, è essenziale per la rappresentanza
delle varie comunità radicate sul territorio (da affiancare
a quella della volontà popolare universale), in seguito
ci interesseremo delle Autonomie funzionali, agli albori in Italia.
Varie possono essere le entità e le denominazioni che rientrano
nelle Autonomie funzionali: autorità indipendenti, poteri
regolativi, rappresentanze camerali e via di seguito. Le Autonomie
funzionali non devono essere mere articolazioni organizzative
del Governo o della funzione amministrativa ma devono essere portatrici
di autonomie proprie con riferimento a un fine pubblico generale
da perseguire. Per questo le Autonomie funzionali devono essere
istituzionalizzate attraverso il loro riconoscimento nella nuova
Costituzione Italiana nella quale dovrebbe esserci un nuovo "Titolo"
denominato "Autonomie funzionali e Autorità indipendenti".
AUTONOMIE FUNZIONALI E AUTORITA' INDIPENDENTI
Almeno tre ruoli delle Autonomie funzionali e delle Autorità
indipendenti ci preme evidenziare qui (Marzona,1995; Cassese e
Franchini,1996) Il primo è di offrire a tutte le imprese
le pari opportunità, togliere potere improprio alla intermediazione
politico-partitica, eliminare nel nostro Paese il "triangolo
oligarchico" Stato burocratico-grande impresa-sindacato.
Il secondo ruolo è quello di integrarci più rapidamente
nella Unione in Europa. Le Autonomie funzionali non hanno una
concezione protettivo-protezionistica e neppure esclusiva della
sovranità nazional-territoriale, bensì una concezione
di affermazione funzionale di soggetti economici il cui spazio
operativo è già oggi, quanto meno, l'Europa.
Il terzo ruolo è quello di dare delle certezze espresse
in scopi di comportamento che nessuna maggioranza parlamentare
e politica potrà mai modificare. Esistono infatti degli
scopi irrinunciabili in una economia avanzata di mercato integrata
nel sistema economico europeo internazionale; non perseguirli
vuol dire avviarsi verso il sottosviluppo autarchico che la storia
ha condannato come iniquo e inefficiente.
Vorrei dare al proposito riferimenti a tre Autonomie funzionali
assai diverse tra loro sia per natura giuridica che per scopi
specifici ma tutte convergenti a uno scopo generale analogo: rendere
più efficiente l'economia del nostro Paese integrandola
al più presto in Europa. Una prima Autonomia funzionale
è espressa dalla Banca Centrale, notoriamente non costituzionalizzata
in Italia diversamente che in Germania e dalla Unione Europea
(articoli 105, 107, 108 del Trattato di Maastricth) ma che nella
vicenda storica italiana ha saputo con la competenza conquistarsi
molta autonomia. Il suo scopo è il governo della moneta
per garantire la stabilità dei prezzi e anche la qualità
degli attivi bancari e quindi il risparmio attraverso la vigilanza
sul sistema bancario. Nel perseguire tali scopi una Banca Centrale
deve avere una autonomia totale che nessun Parlamento o Governo
possa ledere com'è chiaro nel Trattato sulla Unione Europea
con buona pace di molti (imprese comprese) che ancora oggi in
Italia vorrebbero condizionare la Banca Centrale nel governo dei
tassi di interesse. Ma in sovrappiù la Banca Centrale,
enuncia l'art. 105 del Trattato dell'Unione Europea, deve agire
secondo il principio di un'economia di mercato aperta e in libera
concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse.
Espressioni queste che molto potrebbero significare per rendere
più efficiente il sistema bancario italiano che presenta
un intervallo incivile tra i tassi d'interesse praticati alle
grandi imprese (prime rate) e quelli praticati alle piccole
imprese (top rate).
D'altronde la Legge n. 287/90 attribuisce alla Banca d'Italia
la garanzia sulle regole della concorrenza per il settore bancario-creditizio
dove molto c'è ancora da fare per le pari opportunità
sia tra banche (si pensi al recente caso del Banco di Napoli,
brutto per come è nato e per come è stato risolto)
che tra clienti delle banche.
Una seconda Autonomia funzionale è espressa dalla Autorità
Garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) istituita
con la Legge n. 287/1990 in coerenza al Trattato della Comunità
Economica Europea del 1957 e in particolare agli artt. 85 e 86
del Trattato stesso mai modificati e ripresi nel Trattato di Maastricht.
È stato detto (Amato, 1995b) che in Italia la cultura del
mercato è storicamente debole e che i princìpi e
le direttive della Unione Europea che c'impongono mercato e concorrenza
ci infastidiscono. È una verità assoluta che discende
nitida dal "triangolo oligarchico" che va smantellato
con priorità, alla eliminazione della invadenza pubblica
nella produzione di beni e servizi. Scopo dell'Antitrust è
sorvegliare i mercati, rimuovere, prevenire, reprimere situazioni
che falsino la concorrenza favorendo l'efficienza produttiva e
allocativa e la tutela dei consumatori. Interventi dunque sulle
intese, gli abusi di posizione dominante, concentrazioni limitanti
la concorrenza, pubblicità ingannevole e via di seguito.
Ma in tutto ciò appare nel caso italiano una grande anomalia:
l'Antitrust non ha competenza in quei settori dove operano imprese
titolari di diritti speciali ed esclusivi o privilegiate da disposizioni
normative di favore. In tali casi l'Antitrust deve limitarsi a
una segnalazione all'organo legislativo competente (il Parlamento
o le Regioni) che deve provvedere a una revisione normativa con
buona pace della concorrenza in quanto gran parte di quelle imprese
sono in mano all'operatore pubblico.
Lunga è ancora la strada dell'Antitrust in Italia e molto
dalla stessa si possono attendere le Pmi-distretti; ma la lotta
sarà dura perché la concorrenza e il mercato, se
davvero funzionanti, cambierebbero "troppo" la distribuzione
dei poteri in Italia. Sicché vedremo se alle privatizzazioni
seguiranno le liberalizzazioni.
CAMERA DI COMMERCIO E AUTONOMIA FUNZIONALE
Una terza Autonomia funzionale è quella delle Camere di
Commercio che con la Legge n. 580/1993, di natura particolarmente
innovativa, hanno assunto un nuovo ruolo definito come quello
di "enti autonomi di diritto pubblico" che possono darsi
un indirizzo politico-istituzionale con elevati gradi di indipendenza
(Bassetti, 1994, 1995).
Alle Camere di Commercio sono riservate sia delle funzioni di
supporto-promozione delle imprese sia delle funzioni amministrative.
Con riferimento alle funzioni di supporto-promozione rientrano
sia le competenze amministrative relative al controllo per il
rispetto di vincoli di interesse pubblico (certificazioni) sia
le competenze economiche relative alla promozione del mercato
(informazione, infrastrutture, raccordo imprese-Pubblica amministrazione).
Con riferimento alle funzioni amministrative rientrano sia le
competenze amministrative relative ai soggetti (albi, elenchi,
ruoli, registri) sia le competenze economiche in materia di arbitraggio
sulla applicazione delle regole. Appare di particolare innovatività
il superamento della distinzione tra funzioni amministrative e
funzioni promozionali, la ridefinizione delle competenze che non
sono fini a se stesse ma complementari per le funzioni. Il modello
di autonomia sotteso a queste funzioni delle Camere di Commercio
è quello che le rende, anche per la rappresentanza delle
varie categorie economiche in Consiglio, espressioni di autogoverno
e di rappresentanza degli interessi delle imprese in sede territoriale
locale (provinciale), che poi si unifica nelle Unioni Regionali
e in quella nazionale (Unioncamere) (Censis, 1996).
Se questa innovazione istituzionale-funzionale rende le Camere
di Commercio capaci di importantissimi ruoli per il mondo delle
imprese, la strada da percorrere non è breve anche perché
ben diversa è la situazione delle differenti Camere di
Commercio. Quella di Milano infatti rappresenta una situazione
di punta al cui opposto stanno piccole Camere di Commercio tuttora
rette da una logica burocratica inerziale per superare la quale
ci vorrà un salto culturale sia da parte delle Camere che
da parte delle imprese.
Più in generale, sui dilemmi del rapporto tra accentramento
e autonomia è eloquente la storia recente delle Camere
di Commercio il cui scopo è quello di assicurare la coesistenza
istituzionale tra comunità imprenditoriale e società
civile il che implica complesse questioni di concertazione con
gli enti locali ma al di fuori di relazioni gerarchiche e dentro
un piano di parità in quanto le Camere di Commercio sono
autonomie funzionali (Bassetti, 1996).
Riferiamoci ancora ai tre casi di Autonomie funzionali trattate:
ormai quasi tutti sono convinti che dare rilievo costituzionale
alla Banca Centrale è cosa ovvia ed è già
previsto nella costituzione europea (Trattato di Maastricht);
solo alcuni reputano invece che tale rilievo possano assumere
le autorità indipendenti come l'Antitrust; infine nessuno
osa pensare che le Camere di Commercio possano assumere una qualche
rilevanza costituzionale. In questi termini anche noi concordiamo
ma in altri termini, no. Infatti non c'è dubbio che sia
necessario approfondire i rapporti tra impresa e Stato con l'affermazione
della natura di istituzione dell'impresa (Bassetti, 1994). Più
in generale, Paesi più moderni del nostro hanno già
differenziato le loro istituzioni «affiancando agli organi
rappresentativi della volontà generale una serie cospicua
di poteri indipendenti, che non derivano la propria legittimazione
dalla rappresentanza politica e che esercitano la propria sovranità
su alcune specifiche funzioni amministrative e di regolazione
... (con una) tendenza a rafforzare i poteri e le procedure in
cui non sono le forze partitiche che consentono di decidere e
amministrare, ma le regole e la loro applicazione da parte di
enti e organi pubblici funzionali che godono di uno status di
particolare autonomia» (Bassetti, 1996, p.26). Tutto ciò
deve ancora in gran parte trovare attuazione in Italia e ciò
non accadrà appieno a nostro avviso finché non si
avrà la Costituzione di una nuova Repubblica, federalista
territorialmente, autonomista funzionalmente, europeista concettualmente.
Cioè una Repubblica fondata sulle "indipendenze interdipendenti"
a scala italo-europea; una Repubblica la cui Unità sia
poi garantita non solo dalle interdipendenze ma anche da una qualche
forma di Presidenzialismo o Cancellierato che davvero renda il
nostro Paese un interlocutore stabile sui grandi problemi di politica
ed economia internazionale e globale. L'unità di un Paese
dipende anche dalla sua rilevanza come interlocutore internazionale.
Speriamo dunque che la sovranità popolare riprenda corpo
al più presto in una Assemblea Costituente e rinnovi questo
Stato sottraendolo sia al condizionamento del "triangolo
oligarchico" di cui abbiamo parlato sia a quello del giacobinismo
francese del 1798 che, importato nel nostro Paese e variamente
reinterpretato, ha fatto credere che omogeneizzazione individuale
e centralizzazione fossero i soli sinonimi di democrazia mentre
già nel 1787 gli Stati Uniti fondavano la propria Costituzione
sulla doppia rappresentanza (individuale e territoriale) (Fabbrini,
1996). La quale oggi, tuttavia, non basta più essendo necessarie
anche delle indipendenze funzionali e in particolare delle Autorità
indipendenti le quali «(...) proprio per il loro carattere
di organismi non governativi, si porrebbero fuori dallo Stato,
come entità altre, diverse ed estranee rispetto ai poteri
con legittimazione politica, però egualmente radicate nella
società, tanto da doversi reputare fattori essenziali di
un disegno istituzionale realmente pluralista: (...) da soddisfare
attraveso l'organizzazione della sfera pubblica in una serie di
poteri neutrali, in corrispondenza della sottrazione completa
di determinati settori all'indirizzo o comunque all'influenza
politico-governativa. In questa luce, per le Autorità indipendenti
(...) si imporrebbe una qualificazione costituzionale che ne riconoscesse
il contributo costruttivo sul piano della definizione della stessa
forma di governo [con un] riferimento istituzionale (...) di matrice
europea» (Marzona, 1996, p.6).