vai al sito della Camera di Commercio di Milano

Impresa & Stato n°35

IMPRESE, AUTONOMIE FUNZIONALI
E NUOVA COSTITUZIONE

di
ALBERTO QUADRIO CURZIO

Il complesso sistema di interessi costituito dalle Pmi non è più governabile dal
"triangolo oligarchico" Stato - grande impresa - sindacato. Autonomie funzionali
per l'Europa, le regole del mercato, le pari opportunità a tutte le imprese.

Abbiamo più volte scritto che la Costituzione Italiana del 1948 è superata da 50 anni di storia economica e sociale del nostro Paese che da condizioni quasi sottosviluppate è diventato oggi il quinto Paese industrializzato al mondo.
Merito di tutto ciò va in grande misura alle imprese ma anche ai Governi che hanno dato al Paese le condizioni di fondo per la libertà, la democrazia, l' Europa: tre valori che non erano affatto scontati tra i partiti non al Governo. Le involuzioni partitocratiche degli anni Settanta e soprattutto Ottanta (nelle quali sono decisamente corresponsabili, sia pure con diversi gradi di colpa e responsabilità, quasi tutti gli italiani che ne hanno goduto con rendite) e le successive vicende giudiziarie (la cui valutazione è ancora da elaborare con la saggezza dello storico e non con l'emotività della piazza) hanno creato adesso una situazione paradossale: partiti con meriti e demeriti, cancellati; altri partiti, non certo più meritevoli, fiorenti e governanti; nuovi ceti politici, incerti e confusi; nuovi partiti politici, radicali ed estremisti. Lo stesso dicasi per singoli uomini politici del passato, tutti oggi considerati corrotti e incapaci; mentre alcuni erano dotati di statura politica purtroppo travolta indiscriminatamente dal sistema delle rendite e della corruzione-concussione in cui il nostro Paese s'è immerso. Su tutte queste vicende ci vorrà perciò molto tempo per fare serena chiarezza: sin d'ora anche una commissione di esperti (non di parlamentari) nominata dal Parlamento potrebbe dare un contributo importante alla ricostruzione storico-politica del passato.
Ciò premesso è evidente che le discontinuità venute in evidenza nella storia italiana negli ultimi 4 anni sono tali che tutti i membri della classe politica odierna, o comunque quelli che davvero hanno a cuore le sorti del Paese e non quelle del loro partito, dovrebbero capire che vi è una strada maestra da seguire: quella di un'Assemblea Costituente che in brevissimo tempo riscriva la Costituzione. Solo in tal modo si potrà cambiare davvero e dare al popolo italiano una forte motivazione, di sostanza e di simboli, capace di sottrarlo ad altre spinte estremamente pericolose, come quella della sfiducia completa verso le Istituzioni o quella delle spinte separatiste del Nord o quella della ricerca dell'uomo forte.
Perché il cambiamento intervenuto in Italia è troppo grande per farvi fronte con palliativi o con commissioni bicamerali o con generiche esortazioni che già in passato hanno dimostrato la loro incapacità di concludere. Né potranno rimediare da sole ai guasti passati alcune personalità di Governo di valore economico-politico ma pur sempre a rischio di veder depotenziata la loro competenza e il loro ruolo da pesanti condizionamenti di partiti e di maggioranze.
Come economista che considera il cambiamento innanzitutto attraverso quello del sistema produttivo, esaminiamo allora la situazione e le prospettive.

GRANDI IMPRESE E "TRIANGOLO OLIGARCHICO"
Alla fine della guerra il Pil italiano aveva una composizione da Paese semi-sottosviluppato con il 30% in agricoltura, il 35% in industria, il 35% nei servizi. Adesso le quote sono rispettivamente il 4%, il 32%, il 64% allineate a quelle dei Paesi più sviluppati.
Ancora nel 1955, posta eguale a 100 la produzione industriale procapite media europea, l'Italia era solo a livello 55 e la quota italiana su quella europea era solo il 9% contro il 14% della Francia, il 23,5% della Germania, il 30% del Regno Unito. Il ritardo nello sviluppo italiano era quindi grave.
Nel 1964 questo divario era già stato annullato e nel 1990 l'Italia era il quarto per produzione industriale tra i Paesi Ocse (dopo Stati Uniti, Giappone, Germania).
La vicenda produttiva italiana di questi ultimi 50 anni si può suddividere in due periodi: 1946-1973 e 1973-1992.
Nel primo periodo 1946-1973 si sviluppa dapprima il "miracolo economico" con la ricostruzione, il decollo della produzione metalmeccanica, degli autoveicoli, con le grandi infrastrutture, con il boom edilizio. Questo slancio prosegue fino al 1971, con qualche pausa e rallentamento. Ma nel complesso il periodo è di grande crescita e cambiamenti strutturali. La grande impresa, pubblica e privata, domina la situazione e riceve non pochi sostegni, diretti e indiretti, dallo Stato. Notevole è il peso di quella pubblica (Iri ed Eni) con consistente dislocazione nel Mezzogiorno. Il contributo delle grandi imprese allo sviluppo italiano è notevole ma notevoli sono i loro limiti ed è evidente la loro incapacità di passare dallo stadio di grandi imprese nazionali protette a grandi imprese internazionali competitive.
In questo periodo si consolida quella cultura politica che identifica i rapporti con l'economia a quelli con le grandi imprese "nazionali". Impresa pubblica diviene servente i partiti, tutti; la grande impresa privata diviene l'interlocutore politico-partitico rispettato e rispettoso perché dalla politica si aspetta (e ottiene) spesso favori. Anche i sindacati contano molto, e in crescente misura, per la loro natura di interlocutori forti, monolitici, della grande impresa e dello Stato. È l'affermazione nei fatti della cultura economica centralista e assistenzialista che certo corrisponde a una delle ispirazioni piuttosto esplicite della Costituzione del 1948 che si è materializzata poi in una intonazione statalistica e pubblicistica. Dopotutto solo la grande impresa può essere oggetto di nazionalizzazioni, solo quella può essere condizionata dai pubblici poteri e anche quando privata nella proprietà può essere in sostanza pubblica nel condizionamento; il tutto tanto più facilmente tanto meno la grande impresa è internazionalizzata. Tra i molti articoli della Costituzione, impressiona riassuntivamente l'art. 47, ove si dice che la Repubblica «favorisce l'accesso del risparmio (...) al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese» così dandoci una perifrasi di impresa ("i grandi complessi produttivi del Paese") da regimi social-comunisti. È vero che l'art. 41 nel quale si afferma la libertà dell'iniziativa economica privata è un lasciapassare per tutti, piccoli e grandi; ma è altrettanto vero che nei fatti le piccole-medie imprese hanno dovuto remare controcorrente e da sole.
Nel secondo periodo 1973-1992 la crisi del sistema monetario internazionale e la crisi petrolifera degli inizi degli anni Settanta trovano l'Italia e le sue grandi imprese del tutto impreparate. Rallentano i consumi di massa (auto), la meccanica, l'edilizia. Le grandi imprese private riescono però, negli anni Ottanta, a ristrutturarsi riducendo gli addetti, aumentando i mezzi propri e il capitale di rischio, innovando. Tutto ciò non le qualifica però ancora internazionalmente e basta a dimostrarlo il fatto che, ancora nel 1994, tra i 500 maggiori gruppi al mondo erano presenti solo 11 imprese (private e pubbliche) contro 151 degli Usa, 149 giapponesi, 44 tedesche, 40 francesi. La Fiat, la sola con qualche accreditamento internazionale, è appena al 41° posto. Quanto alla grande impresa pubblica il suo disastro (Iri, Efim) appare con tutta evidenza e i tentativi di correzione si rivelano palliativi. Altre imprese pubbliche (Eni, Enel, alcune società del gruppo Iri come le telecomunicazioni e la telefonia), pur continuando con grandi inefficienze, reggono bene a scapito del consumatore essendo in situazioni monopolistiche. In tutta questa vicenda non sembra azzardato dire che ha governato il Paese un "triangolo oligarchico" del potere economico: Stato, grandi imprese, sindacati.

PMI INTERNAZIONALIZZATE E "DISTRETTI PRODUTTIVI"
Ma nel periodo 1973-1992, dopo un periodo di incubazione, emergono con prepotenza (economica) le piccole e medie imprese (Pmi) che vanno caratterizzando i "distretti industriali", il "made in Italy", il "tradizionale innovativo". La dematerializzazione della produzione, la rilevanza del design, la capacità di entrate in nicchie di mercato internazionale con prodotti di alta qualità fanno emergere un ceto imprenditoriale del tutto nuovo. La varietà dei settori è notevole (tessile-abbigliamento, pelli e calzature, legno-mobilio, marmi lavorati, meccanica tradizionale e macchine per l'industria, ecc.). Tra le molte caratteristiche di queste Pmi ne indichiamo due.
La prima riguarda la loro capacità innovativa, snellezza operativa, caratterizzazione "familiare", collocazione in un contesto socio-economico-territoriale di notevole omogeneità imprenditoriale. Le denominazioni (distretti industriali, made in Italy, tradizionale innovativo) traducono queste caratteristiche. Anche le "grandi imprese" di questa tipologia non hanno perso tali caratteristiche. I distretti coprono gran parte del nord-centro partendo da Biella (manufatti lanieri), passando dalla Brianza (mobilio) e da Brescia (metalli e acciaio) per arrivare a Treviso (abbigliamento). Oppure partendo da Arezzo (oreficeria) e da Civitanova Marche (calzature), passando da Sassuolo (ceramiche) per arrivare a Montebelluna (calzature sportive). Sono solo alcuni nomi perché la geo-economia dei distretti e del made in Italy è ben più ampia, con qualche propaggine meridionale.
La seconda riguarda la loro capacità di internazionalizzazione e di dinamicità nella globalizzazione dei mercati mondiali. L'elenco dei loro successi è lungo. L'Italia (cioè le Pmi) è prima o seconda esportatrice mondiale di mobili, maglieria, calzature, oreficeria-gioielleria, ceramiche, macchine per l'industria, marmi lavorati, lavorati di cuoio, preparazioni a base di cereali, rubinetterie e valvolame. E l'elenco potrebbe continuare a lungo.
La conclusione di tutto ciò è che valore aggiunto di questo complesso risulta essere, in anni recenti e inclusa l'industria alimentare, di circa il 58% del valore aggiunto manifatturiero italiano. Quanto alle esportazioni il saldo positivo del commercio estero (esportazioni meno importazioni) di questi settori del made in Italy, moderatamente positivo dal 1953 al 1963 e crescente dal 1963 al 1973, raggiunge livelli eccezionali e crescenti dopo il 1973. Nel 1993, primo anno in cui si sono manifestati appieno gli effetti del deprezzamento della lira, il saldo positivo è stato di 87.309 miliardi. Questi dati sono ancor più impressionanti se si considera che il saldo commerciale di tutti gli altri settori è stato sempre, e pesantemente, negativo dal 1953 recuperando parzialmente solo dopo la svalutazione del 1992 (Fortis, 1994). I "distretti industriali" e il "made in Italy" sono diventati sinonimi di un modello di sviluppo italiano che viene stimato in tutto il mondo ("The Economist", 8 marzo 1996).
Questa straordinaria crescita e la corrispondente forza economica delle Pmi e dei distretti socio-economico-territoriali non ha trovato però riconoscimento istituzionale e politico se si eccettua l'ovvio enunciato costituzionale che l'iniziativa economica privata è libera. Si può dire che la loro crescita è avvenuta malgrado l'ostilità dello Stato, della burocrazia, dei sindacati e spesso della pubblica opinione alla quale le Pmi venivano presentate come i luoghi del sommerso, del lavoro nero, della evasione fiscale generalizzata.
Ciò spiega molte delle reazioni politiche del "popolo dei distretti" consapevole sia della propria forza economica e del contributo alla crescita dell'Italia sia della propria irrilevanza politico-istituzionale sia dell'immagine sgradevole di loro fornita alla pubblica opinione e da molti mezzi di comunicazione.

DEMOCRAZIA COMPLESSA E POTERI
A fronte di un cambiamento di tali dimensioni lo Stato italiano interpretato dalla classe politico-partitica, espressa nel potere legislativo ed esecutivo e dalla classe giudiziaria, espressa nella magistratura, hanno continuato il loro cammino come se ci si trovasse a 50 anni fa. Per non parlare della burocrazia centralista, vero legante dei poteri oligarchici.
Così la natura di Stato centralista, tipica del nostro Paese dall'Unità d'Italia, s'è rafforzata con la proliferazione di leggi e norme che attribuivano ai partiti legislatori e mediatori, alla burocrazia interpretante e perdurante a fronte dei Governi rotanti, alla magistratura giudicante e "legiferante", un potere enorme sia di azione che di inerzia. La riforma Costituzionale che ci si attende adesso deve affermare almeno tre grandi princìpi: quello di sussidiarietà, quello di interdipendenza, quello di solidarietà. Il primo principio afferma che i livelli di governo devono essere il più possibile vicini ai destinatari delle decisioni. Il secondo principio afferma che la diffusione dei poteri crea tra gli stessi una interdipendenza piuttosto che un sistema gerarchico. Il terzo principio si fonda sui due precedenti e afferma che la solidarietà deve essere responsabile e partecipativa, non imposta e assistenzialista ma orientata allo sviluppo. Questi princìpi si devono esprimere in cinque livelli di governo: sovranazionale, europeo, nazionale, regionale, funzionale. E da ultimo in cinque poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, regolativo, cameralistico.
Ma ritorniamo alle Pmi-distretti e alla necessità ch'esse abbiano una rilevanza, forme di rappresentanza e interlocutori non certo riconducibili solo a quelli espressi dalla rappresentanza individuale e omogeneizzante della elezione del Parlamento Italiano, del Governo centrale che ne è espressione, della Pubblica amministrazione che dovrebbe eseguire. In Italia ci sono oggi circa 5 milioni di imprese ed è impensabile che la complessità del loro ruolo e dei loro interessi sia riconducibile al governo dei poteri oligarchici prima descritti.
Fermo restando che la soluzione federalista per le attuali Regioni, in vari casi da riaccorpare, è essenziale per la rappresentanza delle varie comunità radicate sul territorio (da affiancare a quella della volontà popolare universale), in seguito ci interesseremo delle Autonomie funzionali, agli albori in Italia.
Varie possono essere le entità e le denominazioni che rientrano nelle Autonomie funzionali: autorità indipendenti, poteri regolativi, rappresentanze camerali e via di seguito. Le Autonomie funzionali non devono essere mere articolazioni organizzative del Governo o della funzione amministrativa ma devono essere portatrici di autonomie proprie con riferimento a un fine pubblico generale da perseguire. Per questo le Autonomie funzionali devono essere istituzionalizzate attraverso il loro riconoscimento nella nuova Costituzione Italiana nella quale dovrebbe esserci un nuovo "Titolo" denominato "Autonomie funzionali e Autorità indipendenti".

AUTONOMIE FUNZIONALI E AUTORITA' INDIPENDENTI
Almeno tre ruoli delle Autonomie funzionali e delle Autorità indipendenti ci preme evidenziare qui (Marzona,1995; Cassese e Franchini,1996) Il primo è di offrire a tutte le imprese le pari opportunità, togliere potere improprio alla intermediazione politico-partitica, eliminare nel nostro Paese il "triangolo oligarchico" Stato burocratico-grande impresa-sindacato.
Il secondo ruolo è quello di integrarci più rapidamente nella Unione in Europa. Le Autonomie funzionali non hanno una concezione protettivo-protezionistica e neppure esclusiva della sovranità nazional-territoriale, bensì una concezione di affermazione funzionale di soggetti economici il cui spazio operativo è già oggi, quanto meno, l'Europa.
Il terzo ruolo è quello di dare delle certezze espresse in scopi di comportamento che nessuna maggioranza parlamentare e politica potrà mai modificare. Esistono infatti degli scopi irrinunciabili in una economia avanzata di mercato integrata nel sistema economico europeo internazionale; non perseguirli vuol dire avviarsi verso il sottosviluppo autarchico che la storia ha condannato come iniquo e inefficiente.
Vorrei dare al proposito riferimenti a tre Autonomie funzionali assai diverse tra loro sia per natura giuridica che per scopi specifici ma tutte convergenti a uno scopo generale analogo: rendere più efficiente l'economia del nostro Paese integrandola al più presto in Europa. Una prima Autonomia funzionale è espressa dalla Banca Centrale, notoriamente non costituzionalizzata in Italia diversamente che in Germania e dalla Unione Europea (articoli 105, 107, 108 del Trattato di Maastricth) ma che nella vicenda storica italiana ha saputo con la competenza conquistarsi molta autonomia. Il suo scopo è il governo della moneta per garantire la stabilità dei prezzi e anche la qualità degli attivi bancari e quindi il risparmio attraverso la vigilanza sul sistema bancario. Nel perseguire tali scopi una Banca Centrale deve avere una autonomia totale che nessun Parlamento o Governo possa ledere com'è chiaro nel Trattato sulla Unione Europea con buona pace di molti (imprese comprese) che ancora oggi in Italia vorrebbero condizionare la Banca Centrale nel governo dei tassi di interesse. Ma in sovrappiù la Banca Centrale, enuncia l'art. 105 del Trattato dell'Unione Europea, deve agire secondo il principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse. Espressioni queste che molto potrebbero significare per rendere più efficiente il sistema bancario italiano che presenta un intervallo incivile tra i tassi d'interesse praticati alle grandi imprese (prime rate) e quelli praticati alle piccole imprese (top rate).
D'altronde la Legge n. 287/90 attribuisce alla Banca d'Italia la garanzia sulle regole della concorrenza per il settore bancario-creditizio dove molto c'è ancora da fare per le pari opportunità sia tra banche (si pensi al recente caso del Banco di Napoli, brutto per come è nato e per come è stato risolto) che tra clienti delle banche.
Una seconda Autonomia funzionale è espressa dalla Autorità Garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) istituita con la Legge n. 287/1990 in coerenza al Trattato della Comunità Economica Europea del 1957 e in particolare agli artt. 85 e 86 del Trattato stesso mai modificati e ripresi nel Trattato di Maastricht. È stato detto (Amato, 1995b) che in Italia la cultura del mercato è storicamente debole e che i princìpi e le direttive della Unione Europea che c'impongono mercato e concorrenza ci infastidiscono. È una verità assoluta che discende nitida dal "triangolo oligarchico" che va smantellato con priorità, alla eliminazione della invadenza pubblica nella produzione di beni e servizi. Scopo dell'Antitrust è sorvegliare i mercati, rimuovere, prevenire, reprimere situazioni che falsino la concorrenza favorendo l'efficienza produttiva e allocativa e la tutela dei consumatori. Interventi dunque sulle intese, gli abusi di posizione dominante, concentrazioni limitanti la concorrenza, pubblicità ingannevole e via di seguito. Ma in tutto ciò appare nel caso italiano una grande anomalia: l'Antitrust non ha competenza in quei settori dove operano imprese titolari di diritti speciali ed esclusivi o privilegiate da disposizioni normative di favore. In tali casi l'Antitrust deve limitarsi a una segnalazione all'organo legislativo competente (il Parlamento o le Regioni) che deve provvedere a una revisione normativa con buona pace della concorrenza in quanto gran parte di quelle imprese sono in mano all'operatore pubblico.
Lunga è ancora la strada dell'Antitrust in Italia e molto dalla stessa si possono attendere le Pmi-distretti; ma la lotta sarà dura perché la concorrenza e il mercato, se davvero funzionanti, cambierebbero "troppo" la distribuzione dei poteri in Italia. Sicché vedremo se alle privatizzazioni seguiranno le liberalizzazioni.

CAMERA DI COMMERCIO E AUTONOMIA FUNZIONALE
Una terza Autonomia funzionale è quella delle Camere di Commercio che con la Legge n. 580/1993, di natura particolarmente innovativa, hanno assunto un nuovo ruolo definito come quello di "enti autonomi di diritto pubblico" che possono darsi un indirizzo politico-istituzionale con elevati gradi di indipendenza (Bassetti, 1994, 1995).
Alle Camere di Commercio sono riservate sia delle funzioni di supporto-promozione delle imprese sia delle funzioni amministrative. Con riferimento alle funzioni di supporto-promozione rientrano sia le competenze amministrative relative al controllo per il rispetto di vincoli di interesse pubblico (certificazioni) sia le competenze economiche relative alla promozione del mercato (informazione, infrastrutture, raccordo imprese-Pubblica amministrazione). Con riferimento alle funzioni amministrative rientrano sia le competenze amministrative relative ai soggetti (albi, elenchi, ruoli, registri) sia le competenze economiche in materia di arbitraggio sulla applicazione delle regole. Appare di particolare innovatività il superamento della distinzione tra funzioni amministrative e funzioni promozionali, la ridefinizione delle competenze che non sono fini a se stesse ma complementari per le funzioni. Il modello di autonomia sotteso a queste funzioni delle Camere di Commercio è quello che le rende, anche per la rappresentanza delle varie categorie economiche in Consiglio, espressioni di autogoverno e di rappresentanza degli interessi delle imprese in sede territoriale locale (provinciale), che poi si unifica nelle Unioni Regionali e in quella nazionale (Unioncamere) (Censis, 1996).
Se questa innovazione istituzionale-funzionale rende le Camere di Commercio capaci di importantissimi ruoli per il mondo delle imprese, la strada da percorrere non è breve anche perché ben diversa è la situazione delle differenti Camere di Commercio. Quella di Milano infatti rappresenta una situazione di punta al cui opposto stanno piccole Camere di Commercio tuttora rette da una logica burocratica inerziale per superare la quale ci vorrà un salto culturale sia da parte delle Camere che da parte delle imprese.
Più in generale, sui dilemmi del rapporto tra accentramento e autonomia è eloquente la storia recente delle Camere di Commercio il cui scopo è quello di assicurare la coesistenza istituzionale tra comunità imprenditoriale e società civile il che implica complesse questioni di concertazione con gli enti locali ma al di fuori di relazioni gerarchiche e dentro un piano di parità in quanto le Camere di Commercio sono autonomie funzionali (Bassetti, 1996).
Riferiamoci ancora ai tre casi di Autonomie funzionali trattate: ormai quasi tutti sono convinti che dare rilievo costituzionale alla Banca Centrale è cosa ovvia ed è già previsto nella costituzione europea (Trattato di Maastricht); solo alcuni reputano invece che tale rilievo possano assumere le autorità indipendenti come l'Antitrust; infine nessuno osa pensare che le Camere di Commercio possano assumere una qualche rilevanza costituzionale. In questi termini anche noi concordiamo ma in altri termini, no. Infatti non c'è dubbio che sia necessario approfondire i rapporti tra impresa e Stato con l'affermazione della natura di istituzione dell'impresa (Bassetti, 1994). Più in generale, Paesi più moderni del nostro hanno già differenziato le loro istituzioni «affiancando agli organi rappresentativi della volontà generale una serie cospicua di poteri indipendenti, che non derivano la propria legittimazione dalla rappresentanza politica e che esercitano la propria sovranità su alcune specifiche funzioni amministrative e di regolazione ... (con una) tendenza a rafforzare i poteri e le procedure in cui non sono le forze partitiche che consentono di decidere e amministrare, ma le regole e la loro applicazione da parte di enti e organi pubblici funzionali che godono di uno status di particolare autonomia» (Bassetti, 1996, p.26). Tutto ciò deve ancora in gran parte trovare attuazione in Italia e ciò non accadrà appieno a nostro avviso finché non si avrà la Costituzione di una nuova Repubblica, federalista territorialmente, autonomista funzionalmente, europeista concettualmente. Cioè una Repubblica fondata sulle "indipendenze interdipendenti" a scala italo-europea; una Repubblica la cui Unità sia poi garantita non solo dalle interdipendenze ma anche da una qualche forma di Presidenzialismo o Cancellierato che davvero renda il nostro Paese un interlocutore stabile sui grandi problemi di politica ed economia internazionale e globale. L'unità di un Paese dipende anche dalla sua rilevanza come interlocutore internazionale.
Speriamo dunque che la sovranità popolare riprenda corpo al più presto in una Assemblea Costituente e rinnovi questo Stato sottraendolo sia al condizionamento del "triangolo oligarchico" di cui abbiamo parlato sia a quello del giacobinismo francese del 1798 che, importato nel nostro Paese e variamente reinterpretato, ha fatto credere che omogeneizzazione individuale e centralizzazione fossero i soli sinonimi di democrazia mentre già nel 1787 gli Stati Uniti fondavano la propria Costituzione sulla doppia rappresentanza (individuale e territoriale) (Fabbrini, 1996). La quale oggi, tuttavia, non basta più essendo necessarie anche delle indipendenze funzionali e in particolare delle Autorità indipendenti le quali «(...) proprio per il loro carattere di organismi non governativi, si porrebbero fuori dallo Stato, come entità altre, diverse ed estranee rispetto ai poteri con legittimazione politica, però egualmente radicate nella società, tanto da doversi reputare fattori essenziali di un disegno istituzionale realmente pluralista: (...) da soddisfare attraveso l'organizzazione della sfera pubblica in una serie di poteri neutrali, in corrispondenza della sottrazione completa di determinati settori all'indirizzo o comunque all'influenza politico-governativa. In questa luce, per le Autorità indipendenti (...) si imporrebbe una qualificazione costituzionale che ne riconoscesse il contributo costruttivo sul piano della definizione della stessa forma di governo [con un] riferimento istituzionale (...) di matrice europea» (Marzona, 1996, p.6).