Userò per l'avvio di questa relazione un metodo più
consueto agli storici, che non, come un tempo, proprio ai giuristi.
Vale a dire, partendo dal significato e dall'impiego delle parole.
Se il linguaggio è una istituzione, nulla meglio del linguaggio
consente di penetrare nel mondo delle istituzioni. La nostra parola
è "indipendente". La Costituzione italiana usa
questa parola all'art. 104, 1° c., che definisce la magistratura
"ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere".
L'indipendenza è un predicato o proprietà della
magistratura; essa è richiamata all'art. 108, 2° c.,
("La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni
speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei
che partecipano all'amministrazione della giustizia").
Per intendere che cosa voglia significare in questi contesti "indipendenza"
occorre leggere l'art. 101, 2° c.: "I giudici sono soggetti
soltanto alla legge". Dunque indipendenza vale subordinazione
a nessuno, salvo che alla legge.
Dato che la magistratura, nel nostro sistema, per scelta consapevole
del Costituente, che non accettò la diversa proposta del
progetto Leone, non è il "potere", ma l'"ordine"
giudiziario, e che la giurisdizione è funzione piuttosto
che potere, tanto da polverizzare il nucleo concettuale di questo
termine nell'espressione "potere diffuso", la collocazione
dei giudici solo sotto la legge trova fondamento non in una condizione
di parità con gli altri poteri, legislativo ed esecutivo,
ma in una diversa ragione. Noi dobbiamo sgombrare le nostre menti
dalla rappresentazione che il costituzionalismo liberale, a partire
da Montesquieu, ha dato dello Stato di diritto come struttura
tripartita di poteri. L'inveramento storico di questa ideologia
liberale si è realizzato in monarchie costituzionali con
una forte e significativa distorsione. Il sovrano ha progressivamente
perduto prerogative formali e sostanziali rispetto a Governo e
Parlamento, ma ha tenacemente conservato quella di supremo giudice.
Nello Statuto di Carlo Alberto "la giustizia emana dal Re"
significa che, come correttamente si interpretò, il sistema
è privo di autonomo potere giudiziario, che è come
dire di potere giudiziario tout court. I giudici sono fiduciari
del sovrano ed esercitano la sua prerogativa in via di delega.
L'endiadi grazia e giustizia, di cui ancora si fregia il Ministro
Guardasigilli, è storicamente il retaggio di tempi in cui
il sovrano esercitava la giustizia civile e penale, da solo o
nel suo tribunale. La grazia fu in origine il voto del sovrano
nei collegi penali favorevole al reo e prevalente in caso di parità
di voti (il cosiddetto calculus Minervae, sull'esempio
del voto di Pallade Atena in favore di Oreste, ricordato da Eschilo
nelle Eumenidi).
È con la fine della monarchia che si sarebbe potuto, come
voleva il progetto Leone nella Commissione dei 75, inaugurare
finalmente un potere giudiziario, adottando il modello
strutturale dei tre poteri. Fu scelta invece, anche terminologicamente,
un'altra forma che è quella dell'ordine giudiziario indipendente.
Il 1° c. dell'art. 101 ("La giustizia è amministrata
in nome del popolo") laicizza la giustizia, che non è
più "emanazione" di un carisma o virtù
personale del monarca secondo la tradizione della cultura antica
e poi europea, ma una funzione tecnica "amministrata"
dai giudici in nome del popolo. Si adombra in questa formula una
funzione sovrana, dato che il popolo è depositario della
sovranità. Ma non v'è traslazione della giustizia
dal popolo al giudice, com'era dal Re al giudice. Il popolo non
è né ha la giustizia. Semmai ha bisogno della giustizia.
Che la giustizia sia amministrata in nome del popolo e che i giudici
siano soggetti solo alla legge vale a indicare quella partecipazione
del giudice al livello della sovranità che si specifica
come "indipendenza". Seguiamo ora un diverso percorso
della nostra parola. Quando cominciano ad apparire nel nostro
ordinamento le Autorità di cui discorriamo, "indipendenza",
nelle leggi istitutive, è requisito delle persone chiamate
a presiederle o costituirle.
INDIPENDENZA: DALL'ETICA ALL'ISTITUZIONE
Su dieci figure di Autorità, finora introdotte, per cinque
di esse (Isvap - Istituto Superiore per la Vigilanza sulle Assicurazioni
Private; Consob - Commissione Nazionale per le Società
e la Borsa; Autorità Garante della concorrenza e del mercato;
Aipa - Autorità per l'Informatica nella Pubblica amministrazione;
Commissione di Vigilanza su fondi pensione ricorre il requisito
endiadico "indiscussa moralità e indipendenza",
con la variante "notoria indipendenza" per l'Antitrust.
Si tratta qui, riferito a persone, di abito etico. Ma è
significativo che siffatta qualità personale sia considerata
essenziale per assolvere compiti, da imputare evidentemente all'ente,
con il carattere non più etico ma istituzionale di indipendenza.
Proviamo ad analizzare questa relazione tra indipendenza della
persona e indipendenza dell'ente.
Indipendenza della persona significa, nella sfera più propriamente
intellettuale, indipendenza di giudizio, dunque assennatezza,
non acquiescente a valutazioni altrui, isolate o dominanti che
siano; nella sfera morale indipendenza è rispondere solo
alla propria retta coscienza; in quella delle relazioni sociali
è condotta non determinata da pregiudizi, culture esclusive,
interessi particolari; nella vita politica è estraneità
a militanze e sudditanze rette da discipline di partito e fini
di fazione. Con apparente anomalia questo requisito etico di
"moralità e indipendenza" non ricorre nelle leggi
istitutive del Garante dell'attuazione della legge per l'editoria,
e del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, ma deve considerarsi
implicito in quello professionale di giudice costituzionale, e
di presidente di sezione nelle supreme magistrature ordinaria,
amministrativa, contabile. Il che è ancora una volta suggestivo
richiamo alla "indipendenza" costituzionale dei giudici.
La vicenda della parola nel linguaggio del Costituente e in quello
del legislatore ci offre dunque due parametri: la indipendenza-sovranità
del giudice nel senso specifico di superiorem non recognoscens
nisi legem; e la indipendenza intellettuale e morale delle
persone che è anch'essa sovrana, nel senso proprio che
una persona non può dipendere moralmente da altri a pena
della sua irresponsabilità. L'uso che invece della nostra
parola fa la dottrina discende dalla importazione o dalla influenza
della categoria delle autorités administratives independentes
del diritto francese o dalle independent regulatory commissions
statunitensi e figure analoghe britanniche e tedesche.
La conseguenza è che le analisi finora condotte dai giuristi
cominciano in medias res, all'interno delle trasformazioni dell'organizzazione
amministrativa, tralasciandone genesi storica e significati ideologici.
Occorre, invece, iniziare dalla indipendenza delle persone, che
potrebbe bene essere rispecchiata nella immagine kantiana: «il
cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».
Il bisogno di una tale indipendenza è uno degli esiti della
crisi dello Stato moderno europeo. Lo Stato moderno assoluto
e poi costituzionale è andato verso il corso della evoluzione
democratica non riuscendo a rinunciare all'assorbimento plenario
- e in talune fasi totalitario - dell'esperienza politica dentro
la propria realtà esclusiva.
STATO UN RUOLO IN CRISI
Dal secondo dopoguerra in avanti l'esperienza politica si è
dilatata oltre i contorni della statualità in tutta l'area
dell'organismo sociale. A mano a mano che nella società
si sono costituite formazioni sempre più forti e complesse,
corrispondenti allo sviluppo dell'economia e al progresso tecnologico,
si sono illanguiditi gli schemi della relazione cittadino-suddito
e Stato e della distinzione pubblico-privato. Lo Stato ha dapprima
tentato di espandersi nel mondo dell'economia sperimentando l'inadeguatezza
strumentale e concettuale del suo apparato istituzionale e normativo.
Ha poi progressivamente ceduto dinanzi alla più libera
e rapida innovazione e inventiva della società. Questa
ha a sua volta abbandonato l'atteggiamento costantemente rivendicativo
di un'actio regunolorum, propria della formula protoborghese
di Jean-Baptiste Portalis «al sovrano l'impero, al privato
la proprietà». La proprietà non connota più
da ben oltre un secolo il mondo dei privati, raggiunta e oltrepassata
dal credito e dai titoli finanziari in una economia in cui crescono
i servizi più ancora dei beni.
La società alleva nel suo seno poteri ben più forti
dei tradizionali poteri pubblici. Basta citare quello dei gruppi
della finanza transnazionale e dei mass media. La società
non ha libertà civili da rivendicare contro il potere pubblico
come accadeva alla conclusione del XVIII secolo nelle rivoluzioni
americana e francese. Né ha più conflitti di classe
che chiedono di essere sedati da uno Stato conservatore o decisi
da uno Stato autoritario di destra o di sinistra, come è
accaduto tra XIX e XX secolo. La società contemporanea
è strutturata in interessi antagonistici dei produttori,
distributori, consumatori ed utenti, i quali non replicano gli
schieramenti compatti del conflitto sociale capitale-lavoro, ma
sono mescolati, ciascuno essendo utente-consumatore del servizio
o prodotto altrui in reciprocità.
CHI GARANTISCE L'ETA' DEI DIRITTI
La società, in questa che Bobbio ha chiamato l'età
dei diritti, ha bisogno che qualcuno garantisca a ciascuno i propri
diritti. La rivendicazione delle libertà era ancora sulla
soglia delle società semplici, dei poveri e dei ricchi,
degli operai e dei padroni, della campagna e della città,
del pubblico e del privato. Oggi c'è una selva di diritti
e altri e sempre nuovi diritti nascono e chiedono riconoscimento
e tutela. Diritti che si affermano direttamente nei processi sociali
e si ricollegano a qualche figura paradigmatica presente in quella
carta costituzionale, che si usa sempre più e con ragione
tornare a chiamare "patto sociale". La costituzione
appartiene come nome e concetto al tempo in cui la politica aveva
a soggetto lo Stato; oggi il soggetto sembra essere diventato
la società, che vuole diventare luogo dei diritti e non
di poteri, sia che si tratti di poteri sociali sia di poteri pubblici.
Da questo punto di vista la statualità sta rivelando una
profonda trasformazione la cui linea di tendenza di lunga durata
non deve essere occultata o fraintesa da sintomi delle crisi di
breve periodo. Lo slogan, ad esempio "Meno Stato, più
mercato", non deve interpretarsi come richiesta di arretramento
dello Stato dinanzi a una espansione dei privati nel mercato,
ma di mutamento del ruolo dello Stato in economia: non imprenditore
privilegiato e più forte con altri imprenditori, ma garante
delle regole di accesso e di correttezza per tutti sul mercato.
Così la polemica contro lo Stato sociale non vuole né
deve accreditare la conclusione di una forma di Stato, ma certo
invece l'uscita da una fase di degenerazione dispendiosa e distruttiva
delle politiche di Welfare indirizzate ad assistere parassitariamente
la società resa così disponibile all'occupazione
dei partiti e alla sudditanza alle burocrazie.
Anche qui allo Stato sociale rigenerato si vuole chiedere un diverso
compito di promozione di sinergie e di nuove strategie di regolazione.
La società ha esteso a sé quell'area della politica
che la statualità aveva riduttivamente interpretato come
funzionale all'interesse generale, con l'equazione indebita e
anacronistica interesse generale-fini pubblici. Siamo ancora
avviluppati dentro simili categorie e stentiamo a uscirne. I fini
sono sociali, prodotti dai soggetti sociali, in processi sociali.
Lo Stato, il potere democratico legittimo dello Stato è
chiamato a riconoscere, regolare, garantire i diritti che perseguono
questi fini, perché i soggetti sociali non si danneggino
ma si giovino vicendevolmente nei processi sociali di cui sono
attori.
Questo è quello che residua dalle grandi ideologie, liberale
socialista cattolica, per le quali traverso lo Stato, il potere
pubblico e la legge, si sarebbe realizzato il modello o l'utopia
della società individualista, collettivista, o cristiana.
La statualità odierna non può condividere nessuna
di queste mete né integralmente, né parzialmente,
perché esse si sono trasferite nei processi sociali.
STATUALITA' "DENTRO" I PROCESSI SOCIALI
Ecco dunque dove riposa la ragione dell' "indipendenza"
di questi enti o autorità in cui si va metamorfosando
l'organizzazione stessa dello Stato. Uno Stato che stia dentro
e non dinanzi ai processi sociali deve trovare strumenti che siano
indipendenti dai poteri originari e costitutivi della statualità,
il Governo e il Parlamento. E deve trovare persone eticamente
indipendenti che non siano da ideologie o da interessi coinvolte
come parti partigiane nei processi sociali.
Tuttavia non sembra che i legislatori, che stanno dando vita da
un quindicennio a queste nuove figure, abbiano consapevolezza
della portata del mutamento nella relazione Stato-società
che a esse è sotteso. Né sono riconducibili a un
genus unitario le loro diverse morfologie. In quanto gemmate
e separate dagli apparati dell'amministrazione, la loro indipendenza
viene prevalentemente letta come assenza di subordinazione gerarchica
rispetto al Governo e a ciascun ministro. Ma si discute se il
Governo conservi il potere generale di annullamento, stabilito
dalla L. 383 del 1934, art. 6, anche nei confronti di loro atti
e se contro di essi sia proponibile il ricorso straordinario al
Capo dello Stato, che richiede l'intervento del Governo.
In realtà continuare ad analizzarle sotto lo stesso nomen
juris, che non è peraltro il loro nomen legis,
è un errore. Occorrerebbe cominciare col distinguere le
agenzie specializzate, che esprimono un'esigenza di particolare
organizzazione rispetto a quella generale della Pubblica amministrazione,
per compiti caratterizzati da un alto tasso di tecnicità,
come è il caso dell'Autorità per l'informatica nella
Pubblica amministrazione o dell'Agenzia per i servizi sanitari
regionali o dell'Anpa - Agenzia Nazionale per la protezione dell'ambiente
o della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, rispetto
alle autorità, che a loro volta vanno classificate in due
diversi ordini, quelli delle Autorità di garanzia e delle
Autorità di regolazione.
SCONSIDERATA PROLIFERAZIONE
E suggerire di porre un freno alla loro sconsiderata proliferazione
dato che ogni intoppo dell'azione amministrativa sembra sia superabile
con l'istituzione di Autorità invocate per le autostrade,
le discariche, le malattie mentali, la corruzione dei pubblici
uffici, il trattamento dei dati personalissimi, le tecniche di
riproduzione assistita e quant'altro. Al disordine concettuale
che accompagna il loro moltiplicarsi si devono le singolarità
delle loro investiture. È comprensibile che il Garante
dell'attuazione della legge per l'editoria, introdotto con la
Legge 416/81, fosse nominato con delibera dei Presidenti della
Camera e del Senato, e che il successivo Garante per la radiodiffusione
e l'editoria sia nominato dal Capo dello Stato su designazione
dei Presidenti dei due rami del Parlamento. Ai Presidenti delle
Camere si riconosce un potere neutrale esercitabile anche oltre
le incombenze di Presidenti di assemblea. La loro neutralità
è garanzia di indipendenza dell'autorità da essi
nominata o designata. Ma non è comprensibile che, secondo
la previsione del disegno di legge sull'Autorità di garanzia
per le comunicazioni che assorbirà la figura del Garante
per la radiodiffusione e l'editoria, l'investitura sia duplice,
delle assemblee parlamentari per gli otto commissari, del Presidente
del Consiglio su proposta del Ministro delle Poste e parere delle
commissioni parlamentari per il Presidente. Esecutivo ed assemblee
sono l'esatto contrario dei poteri neutrali e invece alle loro
scelte è affidata l'indipendenza dell'istituenda autorità.
Del pari investitura non neutrale hanno il Presidente e i quattro
membri della Consob, nominati con DPR su proposta del Presidente
del Consiglio previo delibera del Consiglio dei Ministri e parere
delle competenti commissioni parlamentari.
Pure dall'esecutivo è investita l'Autorità di regolazione
di servizi di pubblica utilità.
A parte quelle che abbiamo convenuto di riconoscere solo come
Agenzie e che meno incoerentemente derivano da nomine dell'Esecutivo,
tra le autorità, oltre il Garante per la radiodiffusione
e l'editoria, solo l'Autorità Garante della concorrenza
e del mercato e la Comissione di garanzia dell'attuazione della
legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali sono investite
su determinazione o su designazione dei poteri neutrali dei Presidenti
delle Camere.
Sono queste tre sole le figure cui si può ricondurre la
specie delle Autorità di garanzia, ma per la loro provvista
paradossalmente non è indicato il requisito della indipendenza
che per il Presidente e i membri dell'Autorità Antitrust.
Abbiamo detto che per il Garante della radiodiffusione e dell'editoria
vale l'implicita indipendenza negli uffici giurisdizionali ricoperti.
Ma per gli esperti chiamati nella Commissione di garanzia dell'attuazione
della legge sullo sciopero questo requisito è del tutto
taciuto. Del pari rinnovabilità e durata dovrebbero essere
dosate rispettivamente in ragione inversa e in ragione diretta
della indipendenza che si vuole assicurare alla figura. Invece
è prevista una iterazione e durata quinquennale per la
Consob, una iterazione e durata triennale per la Commissione di
garanzia per lo sciopero ecc. Le durate sono fissate in tre, quattro,
cinque, sette anni per le diverse figure, senza una ratio
evidente.
L'indipendenza non si concilia con la vigilanza ministeriale che
è propria di alcune Agenzie. Ma non è giustificata
da compiti che sono a loro volta di mera vigilanza e controllo.
Insomma perché si richieda indipendenza occorre che l'entità
che se ne assume dotata maturi una triplice funzione amministrativa,
normativa e paragiudiziaria.
L'INDIPENDENZA HA TRE FUNZIONI
È dalla riunione di questi ambiti che fa di una autorità
di settore una sorta di Stato nello Stato se allo Stato si voglia
ancora riconoscere la struttura dei tre poteri divisi del costituzionalismo
classico. Ma è proprio la creazione di Autorità
indipendenti che quei tre poteri distinti esercitano sottraendoli
allo Stato, a impedire che esse possano inscriversi entro la trilogia
del modello liberale. In realtà le autorità e solo
quelle che oltre che a vigilanza e controllo provvedono a emanare
regolamenti subprimari e a irrogare sanzioni a seguito di procedimenti
in contradditorio smentiscono l'attualità o almeno segnalano
il superamento della struttura esaustiva della statualità
dei tre poteri. È vero che i provvedimenti delle autorità
sono ricorribili presso il giudice ordinario e quello amministrativo,
ma questa può essere una fase transitoria, trattandosi
pur sempre di una tutela giurisdizionale di diritto in seconda
istanza che potrebbe non escludere in futuro la definitività
delle decisioni delle autorità, quando di esse si comprenderà
meglio la natura di porzioni di statualità, indipendenti
dall'organismo complessivo e non più compatto del tradizionale
modello dello Stato di diritto. Se le Autorità indipendenti
sono questa entità nuova di Stato nello Stato, la Corte
costituzionale non potrà continuare a inibir loro la vindicatio
potestatis con l'argomento da considerarsi già oggi
anacronistico che esse non sono abilitate a manifestare in forma
definitiva la volontà di un potere dello Stato. Questo
argomento è oggi una petizione di principio, perché
è proprio la trilogia dei poteri che le Autorità
indipendenti mettono in crisi.
Non è dubitabile che il rilievo di queste Autorità
tenda a essere di rango costituzionale e non soltanto amministrativo.
Una revisione della Costituzione non potrà tacere su questo
loro statuto. A esemplificare la crescita di queste figure verso
una rilevanza costituzionale userò il caso della sequenza
Garante dell'editoria e Garante per la radiodiffusione ed editoria.
L'Ufficio del Garante per la radiodiffusione e l'editoria nasce
con la Legge n. 223 del 1990, che utilizza la figura introdotta
dalla Legge n. 416 del 1981, accrescendone l'originaria competenza
sull'editoria con quella sulla radiotelevisione. Ma al di là
dei singoli doveri e poteri si può dire che la natura dell'organo
sia rimasta invariata? Nella legge del 1990 manca una definizione
dei fini ultimi del Garante, che in quella del 1981 era invece
esplicita: Garante dell'attuazione della legge per svolgere una
azione continua di vigilanza spettante al Parlamento. Dunque quel
Garante dell'editoria era un delegato del Parlamento per adempiere
un compito cui il Parlamento non avrebbe potuto attendere con
continuità, ma che tuttavia rivendicava e riservava come
proprio.
Parlamento e stampa, questo è il legame stabilito da quella
legge, se se ne voglia dare una lettura costituzionalmente significativa.
UN RUOLO COSTITUZIONALE
Non è certo la regola che il Parlamento, licenziata una
legge, se ne dichiari titolare della attuazione e a tal scopo
istituisca una figura di affidatario. La legge, ogni legge, ha
il suo circuito naturale di destinatari che l'ordinamento ha predisposto,
lungo il percorso che va dalla nomofilachia alla obbedienza.
Qui si introduce invece una cura del Parlamento che ha per contenuto
la vigilanza e per gestore il Garante.
Il segnale è chiaro: è in gioco un interesse in
senso pregnante politico verso la stampa di cui si fa portatore
permanente quel potere che nei confronti della stampa non è
soltanto legislativo, ma anche di vigilanza. Se la legge sull'editoria
si interpreta come finalizzata a preservare e promuovere la libertà
di stampa, si intende allora la anomala assunzione da parte del
potere legislativo del compito di vigilare, tramite il Garante,
sulla sua attuazione. Il potere legislativo tutela qui la sua
qualità di rappresentanza della società democratica.
La libertà di stampa è l'espressione di una libera
democrazia e in assenza di essa o nella sua compressione, a opera
anche, e oggi soprattutto, di processi di concentrazione proprietaria,
il Parlamento negherebbe a se stesso la garanzia di una sua propria
libera elezione.
Nel 1990, la legge ha un diverso oggetto: non la libertà
di stampa, ma il modus vivendi, nell'ambito del medium
radiotelevisivo, tra il servizio pubblico e l'emittenza privata.
La radiotelevisione per la sua potente e invasiva diffusività
si presenta meno come esercizio di una libertà e assai
di più come potere. Un potere che, se lasciato totalmente
alla iniziativa dei privati, postulando una concentrazione di
capitali di investimento e di risorse finanziarie di gestione,
e inclinando verso assetti tendenzialmente monopolistici, può
contrapporsi al potere dello Stato democratico. La giurisprudenza
della Corte costituzionale, anche dopo avere abbandonato la difesa
del monopolio pubblico dell'etere, ha sempre intravisto nel potere
della televisione un potenziale attentatore al pluralismo democratico.
Di qui la necessità di conservare una molteplicità
di imprese di emittenza e di controllarne il mercato per impedire
abusi di posizioni dominanti e fenomeni di concentrazione.
Ma nello stesso tempo, anche nei confronti del servizio pubblico,
residuo dell'originario monopolio dello Stato, si è imposto
dalla Corte costituzionale un pluralismo cosiddetto "interno".
Evidentemente per superare la configurazione del duopolio, tra
un compatto servizio pubblico statalista e un grande soggetto
privato suo antagonista. In un quadro di conflitto tra il potere
dei media e il potere democratico, piuttosto che tra libertà
economiche e libertà culturali, la riedizione del Garante
del 1990 segna una evoluzione: esso appare sempre meno organo
di garanzia del Parlamento e sempre più garante dei cittadini.
Costoro, inseguiti fin nelle case dalla comunicazione televisiva,
vanno maturando una richiesta di qualità e di interazione
verso i produttori di media, i quali, a loro volta, agiscono sul
mercato adattandolo alle proprie risorse e programmi, piuttosto
che adattandosi a esso. Gli indici di audience sono un legame
non si sa quanto univoco e biunivoco e quanto equivoco alla ricerca
di un equilibrio tra domanda del pubblico e offerta dei media.
La legislazione vigente disciplina il versante economico del
mondo della comunicazione con misure antitrust e quello etico-sociale
con norme di divieto di trasmissioni informative, d'intrattenimento,
di pubblicità che esaltino la violenza, la pornografia
o che turbino lo sviluppo psichico e morale dei minori, o che
esprimano intolleranza per distinzioni di razza, sesso, religione
o nazionalità. La informazione, la propaganda e la pubblicità
nella comunicazione politica hanno inoltre un regime ispirato
alla cosiddetta par condicio. Al Garante sono attribuiti
poteri di vigilanza e di controllo e sanzioni amministrative pecuniarie
o di sospensione dell'attività di un'emittenza o di revoca
della concessione, di restitutio in integrum nel caso della
par condicio, di imposizione della rettifica quando ne
sia fatta richiesta da un privato leso da una notizia non corrispondente
anche parzialmente a verità. Questo sistema funziona come
ogni meccanismo repressivo.
GARANTE, NON POLIZIOTTO
L'effetto nocivo della trasgressione è irrisarcibile, dominando
nella comunicazione il principio del quod factum est, infectum
fieri nequit, non potendosi cancellare dalle menti degli ascoltatori
quello che hanno visto e udito.
Il Garante, d'altra parte, oltre la lettera delle norme ordinarie
non può dimenticare i valori costituzionali, che quelle
norme dovrebbero presidiare. L'art. 21 della Costituzione, che
per i cittadini utenti dei media significa libertà di informazione,
vale a dire il diritto di essere informati in regime di pluralità
di fonti informative e di controllo delle notizie; e che per i
cittadini operatori nei media significa libertà di diffondere
notizie, cioè diritto-dovere di informare. L'art. 41, che
stabilisce la libertà di iniziativa economica sul mercato
delle imprese di comunicazione. L'armonizzazione di questi due
articoli si ottiene non spontaneamente lasciando confliggere a
oltranza produttori e utenti dei media, ma persuadendo tutti che
dalla composizione previa degli interessi alimentati dalle due
libertà dipende la sorte di fondamentali princìpi
del patto costituzionale: la formazione libera e critica della
persona umana (art. 2 Cost.); la eguaglianza tra i cittadini (art.
3, 1°c.); la rimozione degli ostacoli di fatto alla partecipazione
di tutti alla direzione politica del Paese (art. 3, 2°c.);
in una parola diritto a vivere in una democrazia, quale è
definita l'Italia nell'art. 1 della Costituzione. Se la posta
in gioco, espressa in termini di valori costituzionali e non di
norme di dettaglio, è questa, il Garante non può
essere soltanto un vigilante che punisce i trasgressori dei divieti.
Deve avere un compito positivo di mediatore fra i portatori dei
diversi interessi, riconducibili ora all'una ora all'altra delle
due libertà dell'art. 21 e dell'art. 41. Deve promuovere
il pluralismo e non soltanto conservarne lo status quo con aderenza
alle situazioni in mutamento. Deve mettere in rapporto le rappresentanze
degli utenti e gli imprenditori e gli operatori dei media.
Se i nomina juris hanno un effetto immaginifico nella mentalità
collettiva, ebbene è da registrare che il termine "Garante"
è ricevuto dai cittadini come semanticamente apparentato
a quello di "Difensore civico", di un protettore imparziale
dei più deboli, di un raddrizzatore di torti. Questo è
segno che il Garante è inteso come figura esponenziale
di una nuova concezione della cittadinanza, che supera lo schema
tradizionale della statualità come apparato che ordina
la vita di una comunità di sudditi, e pone invece in primo
piano la rappresentazione dei diritti costituzionali dei cittadini.
Il Garante in questa raffigurazione diacronica di vecchia statualità
e nuova cittadinanza, sta dalla parte dei cittadini piuttosto
che da quella dell'apparato istituzionale. E suggerisce che le
situazioni giuridiche soggettive, nella gamma ordinamentale che
va dagli interessi individuali a quelli diffusi, dai diritti sociali
ai diritti soggettivi perfetti, non arretrino dalla linea dei
diritti costituzionali di libertà, quali che siano i mezzi
amministrativi o giudiziari di tutela. Siano cioè diritti
costituzionali garantiti dall'autorità indipendente del
Garante. Si è nell'immaginario collettivo dunque consolidata
l'idea che attraverso i passaggi degli articoli indicati questo
organo sia garante della Costituzione nell'ambito del mondo della
comunicazione sociale. Dovremmo dunque far corrispondere a questa
domanda di garanzia una normativa più avanzata di quella
vigente e forse anche di quella condenda. Specialmente per quanto
riguarda i cittadini-utenti una loro autonoma o almeno più
rilevata rappresentanza accanto al Garante può dare migliore
espressione a quei valori etico-sociali riassumibili nella dignità
della persona umana e nel fondamentale dovere di rispettarla,
che sono alla base della quotidiana pressante richiesta di una
qualità dei media, dalla stampa alla televisione alla cinematografia,
perché cessi di essere offensiva di quella dignità.
Una figura siffatta di Garante esige una legittimazione sostanziale
proveniente più dal basso che dall'alto, ottenibile con
poteri e strumenti che ne facciano quale Autorità di settore
un interlocutore utile e non sprovveduto dei cittadini, che già
da essa esigano una auctoritas con forte valenza etica, non riducibile
a una sofisticata nuova macchina amministrativa, che intrecci
e interferenze di competenze e di compiti con altri pezzi dello
Stato possono minacciare di improduttività e condannare
precocemente all'obsolescenza.
Va progettata con ogni cura una esperienza di innovazione, il
cui esito deludente non potrebbe che ingenerare disincanto e distacco
rispetto al modello di democrazia in cui tante speranze sono state
riposte per un ordine più giusto e razionale della vita
collettiva.