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Impresa & Stato n°35

QUALE "STATUTO"
PER LE AUTORITA' INDIPENDENTI

di
FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

Il valore dell'indipendenza per le Autorità di garanzia
e la tutela dei diritti di cittadinanza
entro la "nuova statualità".

Userò per l'avvio di questa relazione un metodo più consueto agli storici, che non, come un tempo, proprio ai giuristi. Vale a dire, partendo dal significato e dall'impiego delle parole. Se il linguaggio è una istituzione, nulla meglio del linguaggio consente di penetrare nel mondo delle istituzioni. La nostra parola è "indipendente". La Costituzione italiana usa questa parola all'art. 104, 1° c., che definisce la magistratura "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere".
L'indipendenza è un predicato o proprietà della magistratura; essa è richiamata all'art. 108, 2° c., ("La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia").
Per intendere che cosa voglia significare in questi contesti "indipendenza" occorre leggere l'art. 101, 2° c.: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Dunque indipendenza vale subordinazione a nessuno, salvo che alla legge.
Dato che la magistratura, nel nostro sistema, per scelta consapevole del Costituente, che non accettò la diversa proposta del progetto Leone, non è il "potere", ma l'"ordine" giudiziario, e che la giurisdizione è funzione piuttosto che potere, tanto da polverizzare il nucleo concettuale di questo termine nell'espressione "potere diffuso", la collocazione dei giudici solo sotto la legge trova fondamento non in una condizione di parità con gli altri poteri, legislativo ed esecutivo, ma in una diversa ragione. Noi dobbiamo sgombrare le nostre menti dalla rappresentazione che il costituzionalismo liberale, a partire da Montesquieu, ha dato dello Stato di diritto come struttura tripartita di poteri. L'inveramento storico di questa ideologia liberale si è realizzato in monarchie costituzionali con una forte e significativa distorsione. Il sovrano ha progressivamente perduto prerogative formali e sostanziali rispetto a Governo e Parlamento, ma ha tenacemente conservato quella di supremo giudice.
Nello Statuto di Carlo Alberto "la giustizia emana dal Re" significa che, come correttamente si interpretò, il sistema è privo di autonomo potere giudiziario, che è come dire di potere giudiziario tout court. I giudici sono fiduciari del sovrano ed esercitano la sua prerogativa in via di delega. L'endiadi grazia e giustizia, di cui ancora si fregia il Ministro Guardasigilli, è storicamente il retaggio di tempi in cui il sovrano esercitava la giustizia civile e penale, da solo o nel suo tribunale. La grazia fu in origine il voto del sovrano nei collegi penali favorevole al reo e prevalente in caso di parità di voti (il cosiddetto calculus Minervae, sull'esempio del voto di Pallade Atena in favore di Oreste, ricordato da Eschilo nelle Eumenidi).
È con la fine della monarchia che si sarebbe potuto, come voleva il progetto Leone nella Commissione dei 75, inaugurare finalmente un potere giudiziario, adottando il modello strutturale dei tre poteri. Fu scelta invece, anche terminologicamente, un'altra forma che è quella dell'ordine giudiziario indipendente.
Il 1° c. dell'art. 101 ("La giustizia è amministrata in nome del popolo") laicizza la giustizia, che non è più "emanazione" di un carisma o virtù personale del monarca secondo la tradizione della cultura antica e poi europea, ma una funzione tecnica "amministrata" dai giudici in nome del popolo. Si adombra in questa formula una funzione sovrana, dato che il popolo è depositario della sovranità. Ma non v'è traslazione della giustizia dal popolo al giudice, com'era dal Re al giudice. Il popolo non è né ha la giustizia. Semmai ha bisogno della giustizia. Che la giustizia sia amministrata in nome del popolo e che i giudici siano soggetti solo alla legge vale a indicare quella partecipazione del giudice al livello della sovranità che si specifica come "indipendenza". Seguiamo ora un diverso percorso della nostra parola. Quando cominciano ad apparire nel nostro ordinamento le Autorità di cui discorriamo, "indipendenza", nelle leggi istitutive, è requisito delle persone chiamate a presiederle o costituirle.

INDIPENDENZA: DALL'ETICA ALL'ISTITUZIONE
Su dieci figure di Autorità, finora introdotte, per cinque di esse (Isvap - Istituto Superiore per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private; Consob - Commissione Nazionale per le Società e la Borsa; Autorità Garante della concorrenza e del mercato; Aipa - Autorità per l'Informatica nella Pubblica amministrazione; Commissione di Vigilanza su fondi pensione ricorre il requisito endiadico "indiscussa moralità e indipendenza", con la variante "notoria indipendenza" per l'Antitrust. Si tratta qui, riferito a persone, di abito etico. Ma è significativo che siffatta qualità personale sia considerata essenziale per assolvere compiti, da imputare evidentemente all'ente, con il carattere non più etico ma istituzionale di indipendenza. Proviamo ad analizzare questa relazione tra indipendenza della persona e indipendenza dell'ente.
Indipendenza della persona significa, nella sfera più propriamente intellettuale, indipendenza di giudizio, dunque assennatezza, non acquiescente a valutazioni altrui, isolate o dominanti che siano; nella sfera morale indipendenza è rispondere solo alla propria retta coscienza; in quella delle relazioni sociali è condotta non determinata da pregiudizi, culture esclusive, interessi particolari; nella vita politica è estraneità a militanze e sudditanze rette da discipline di partito e fini di fazione. Con apparente anomalia questo requisito etico di "moralità e indipendenza" non ricorre nelle leggi istitutive del Garante dell'attuazione della legge per l'editoria, e del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, ma deve considerarsi implicito in quello professionale di giudice costituzionale, e di presidente di sezione nelle supreme magistrature ordinaria, amministrativa, contabile. Il che è ancora una volta suggestivo richiamo alla "indipendenza" costituzionale dei giudici. La vicenda della parola nel linguaggio del Costituente e in quello del legislatore ci offre dunque due parametri: la indipendenza-sovranità del giudice nel senso specifico di superiorem non recognoscens nisi legem; e la indipendenza intellettuale e morale delle persone che è anch'essa sovrana, nel senso proprio che una persona non può dipendere moralmente da altri a pena della sua irresponsabilità. L'uso che invece della nostra parola fa la dottrina discende dalla importazione o dalla influenza della categoria delle autorités administratives independentes del diritto francese o dalle independent regulatory commissions statunitensi e figure analoghe britanniche e tedesche.
La conseguenza è che le analisi finora condotte dai giuristi cominciano in medias res, all'interno delle trasformazioni dell'organizzazione amministrativa, tralasciandone genesi storica e significati ideologici. Occorre, invece, iniziare dalla indipendenza delle persone, che potrebbe bene essere rispecchiata nella immagine kantiana: «il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Il bisogno di una tale indipendenza è uno degli esiti della crisi dello Stato moderno europeo. Lo Stato moderno assoluto e poi costituzionale è andato verso il corso della evoluzione democratica non riuscendo a rinunciare all'assorbimento plenario - e in talune fasi totalitario - dell'esperienza politica dentro la propria realtà esclusiva.

STATO UN RUOLO IN CRISI
Dal secondo dopoguerra in avanti l'esperienza politica si è dilatata oltre i contorni della statualità in tutta l'area dell'organismo sociale. A mano a mano che nella società si sono costituite formazioni sempre più forti e complesse, corrispondenti allo sviluppo dell'economia e al progresso tecnologico, si sono illanguiditi gli schemi della relazione cittadino-suddito e Stato e della distinzione pubblico-privato. Lo Stato ha dapprima tentato di espandersi nel mondo dell'economia sperimentando l'inadeguatezza strumentale e concettuale del suo apparato istituzionale e normativo. Ha poi progressivamente ceduto dinanzi alla più libera e rapida innovazione e inventiva della società. Questa ha a sua volta abbandonato l'atteggiamento costantemente rivendicativo di un'actio regunolorum, propria della formula protoborghese di Jean-Baptiste Portalis «al sovrano l'impero, al privato la proprietà». La proprietà non connota più da ben oltre un secolo il mondo dei privati, raggiunta e oltrepassata dal credito e dai titoli finanziari in una economia in cui crescono i servizi più ancora dei beni.
La società alleva nel suo seno poteri ben più forti dei tradizionali poteri pubblici. Basta citare quello dei gruppi della finanza transnazionale e dei mass media. La società non ha libertà civili da rivendicare contro il potere pubblico come accadeva alla conclusione del XVIII secolo nelle rivoluzioni americana e francese. Né ha più conflitti di classe che chiedono di essere sedati da uno Stato conservatore o decisi da uno Stato autoritario di destra o di sinistra, come è accaduto tra XIX e XX secolo. La società contemporanea è strutturata in interessi antagonistici dei produttori, distributori, consumatori ed utenti, i quali non replicano gli schieramenti compatti del conflitto sociale capitale-lavoro, ma sono mescolati, ciascuno essendo utente-consumatore del servizio o prodotto altrui in reciprocità.

CHI GARANTISCE L'ETA' DEI DIRITTI
La società, in questa che Bobbio ha chiamato l'età dei diritti, ha bisogno che qualcuno garantisca a ciascuno i propri diritti. La rivendicazione delle libertà era ancora sulla soglia delle società semplici, dei poveri e dei ricchi, degli operai e dei padroni, della campagna e della città, del pubblico e del privato. Oggi c'è una selva di diritti e altri e sempre nuovi diritti nascono e chiedono riconoscimento e tutela. Diritti che si affermano direttamente nei processi sociali e si ricollegano a qualche figura paradigmatica presente in quella carta costituzionale, che si usa sempre più e con ragione tornare a chiamare "patto sociale". La costituzione appartiene come nome e concetto al tempo in cui la politica aveva a soggetto lo Stato; oggi il soggetto sembra essere diventato la società, che vuole diventare luogo dei diritti e non di poteri, sia che si tratti di poteri sociali sia di poteri pubblici. Da questo punto di vista la statualità sta rivelando una profonda trasformazione la cui linea di tendenza di lunga durata non deve essere occultata o fraintesa da sintomi delle crisi di breve periodo. Lo slogan, ad esempio "Meno Stato, più mercato", non deve interpretarsi come richiesta di arretramento dello Stato dinanzi a una espansione dei privati nel mercato, ma di mutamento del ruolo dello Stato in economia: non imprenditore privilegiato e più forte con altri imprenditori, ma garante delle regole di accesso e di correttezza per tutti sul mercato. Così la polemica contro lo Stato sociale non vuole né deve accreditare la conclusione di una forma di Stato, ma certo invece l'uscita da una fase di degenerazione dispendiosa e distruttiva delle politiche di Welfare indirizzate ad assistere parassitariamente la società resa così disponibile all'occupazione dei partiti e alla sudditanza alle burocrazie.
Anche qui allo Stato sociale rigenerato si vuole chiedere un diverso compito di promozione di sinergie e di nuove strategie di regolazione. La società ha esteso a sé quell'area della politica che la statualità aveva riduttivamente interpretato come funzionale all'interesse generale, con l'equazione indebita e anacronistica interesse generale-fini pubblici. Siamo ancora avviluppati dentro simili categorie e stentiamo a uscirne. I fini sono sociali, prodotti dai soggetti sociali, in processi sociali. Lo Stato, il potere democratico legittimo dello Stato è chiamato a riconoscere, regolare, garantire i diritti che perseguono questi fini, perché i soggetti sociali non si danneggino ma si giovino vicendevolmente nei processi sociali di cui sono attori.
Questo è quello che residua dalle grandi ideologie, liberale socialista cattolica, per le quali traverso lo Stato, il potere pubblico e la legge, si sarebbe realizzato il modello o l'utopia della società individualista, collettivista, o cristiana. La statualità odierna non può condividere nessuna di queste mete né integralmente, né parzialmente, perché esse si sono trasferite nei processi sociali.

STATUALITA' "DENTRO" I PROCESSI SOCIALI
Ecco dunque dove riposa la ragione dell' "indipendenza" di questi enti o autorità in cui si va metamorfosando l'organizzazione stessa dello Stato. Uno Stato che stia dentro e non dinanzi ai processi sociali deve trovare strumenti che siano indipendenti dai poteri originari e costitutivi della statualità, il Governo e il Parlamento. E deve trovare persone eticamente indipendenti che non siano da ideologie o da interessi coinvolte come parti partigiane nei processi sociali.
Tuttavia non sembra che i legislatori, che stanno dando vita da un quindicennio a queste nuove figure, abbiano consapevolezza della portata del mutamento nella relazione Stato-società che a esse è sotteso. Né sono riconducibili a un genus unitario le loro diverse morfologie. In quanto gemmate e separate dagli apparati dell'amministrazione, la loro indipendenza viene prevalentemente letta come assenza di subordinazione gerarchica rispetto al Governo e a ciascun ministro. Ma si discute se il Governo conservi il potere generale di annullamento, stabilito dalla L. 383 del 1934, art. 6, anche nei confronti di loro atti e se contro di essi sia proponibile il ricorso straordinario al Capo dello Stato, che richiede l'intervento del Governo.
In realtà continuare ad analizzarle sotto lo stesso nomen juris, che non è peraltro il loro nomen legis, è un errore. Occorrerebbe cominciare col distinguere le agenzie specializzate, che esprimono un'esigenza di particolare organizzazione rispetto a quella generale della Pubblica amministrazione, per compiti caratterizzati da un alto tasso di tecnicità, come è il caso dell'Autorità per l'informatica nella Pubblica amministrazione o dell'Agenzia per i servizi sanitari regionali o dell'Anpa - Agenzia Nazionale per la protezione dell'ambiente o della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, rispetto alle autorità, che a loro volta vanno classificate in due diversi ordini, quelli delle Autorità di garanzia e delle Autorità di regolazione.

SCONSIDERATA PROLIFERAZIONE
E suggerire di porre un freno alla loro sconsiderata proliferazione dato che ogni intoppo dell'azione amministrativa sembra sia superabile con l'istituzione di Autorità invocate per le autostrade, le discariche, le malattie mentali, la corruzione dei pubblici uffici, il trattamento dei dati personalissimi, le tecniche di riproduzione assistita e quant'altro. Al disordine concettuale che accompagna il loro moltiplicarsi si devono le singolarità delle loro investiture. È comprensibile che il Garante dell'attuazione della legge per l'editoria, introdotto con la Legge 416/81, fosse nominato con delibera dei Presidenti della Camera e del Senato, e che il successivo Garante per la radiodiffusione e l'editoria sia nominato dal Capo dello Stato su designazione dei Presidenti dei due rami del Parlamento. Ai Presidenti delle Camere si riconosce un potere neutrale esercitabile anche oltre le incombenze di Presidenti di assemblea. La loro neutralità è garanzia di indipendenza dell'autorità da essi nominata o designata. Ma non è comprensibile che, secondo la previsione del disegno di legge sull'Autorità di garanzia per le comunicazioni che assorbirà la figura del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, l'investitura sia duplice, delle assemblee parlamentari per gli otto commissari, del Presidente del Consiglio su proposta del Ministro delle Poste e parere delle commissioni parlamentari per il Presidente. Esecutivo ed assemblee sono l'esatto contrario dei poteri neutrali e invece alle loro scelte è affidata l'indipendenza dell'istituenda autorità. Del pari investitura non neutrale hanno il Presidente e i quattro membri della Consob, nominati con DPR su proposta del Presidente del Consiglio previo delibera del Consiglio dei Ministri e parere delle competenti commissioni parlamentari.
Pure dall'esecutivo è investita l'Autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità.
A parte quelle che abbiamo convenuto di riconoscere solo come Agenzie e che meno incoerentemente derivano da nomine dell'Esecutivo, tra le autorità, oltre il Garante per la radiodiffusione e l'editoria, solo l'Autorità Garante della concorrenza e del mercato e la Comissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali sono investite su determinazione o su designazione dei poteri neutrali dei Presidenti delle Camere.
Sono queste tre sole le figure cui si può ricondurre la specie delle Autorità di garanzia, ma per la loro provvista paradossalmente non è indicato il requisito della indipendenza che per il Presidente e i membri dell'Autorità Antitrust.
Abbiamo detto che per il Garante della radiodiffusione e dell'editoria vale l'implicita indipendenza negli uffici giurisdizionali ricoperti. Ma per gli esperti chiamati nella Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero questo requisito è del tutto taciuto. Del pari rinnovabilità e durata dovrebbero essere dosate rispettivamente in ragione inversa e in ragione diretta della indipendenza che si vuole assicurare alla figura. Invece è prevista una iterazione e durata quinquennale per la Consob, una iterazione e durata triennale per la Commissione di garanzia per lo sciopero ecc. Le durate sono fissate in tre, quattro, cinque, sette anni per le diverse figure, senza una ratio evidente.
L'indipendenza non si concilia con la vigilanza ministeriale che è propria di alcune Agenzie. Ma non è giustificata da compiti che sono a loro volta di mera vigilanza e controllo. Insomma perché si richieda indipendenza occorre che l'entità che se ne assume dotata maturi una triplice funzione amministrativa, normativa e paragiudiziaria.

L'INDIPENDENZA HA TRE FUNZIONI
È dalla riunione di questi ambiti che fa di una autorità di settore una sorta di Stato nello Stato se allo Stato si voglia ancora riconoscere la struttura dei tre poteri divisi del costituzionalismo classico. Ma è proprio la creazione di Autorità indipendenti che quei tre poteri distinti esercitano sottraendoli allo Stato, a impedire che esse possano inscriversi entro la trilogia del modello liberale. In realtà le autorità e solo quelle che oltre che a vigilanza e controllo provvedono a emanare regolamenti subprimari e a irrogare sanzioni a seguito di procedimenti in contradditorio smentiscono l'attualità o almeno segnalano il superamento della struttura esaustiva della statualità dei tre poteri. È vero che i provvedimenti delle autorità sono ricorribili presso il giudice ordinario e quello amministrativo, ma questa può essere una fase transitoria, trattandosi pur sempre di una tutela giurisdizionale di diritto in seconda istanza che potrebbe non escludere in futuro la definitività delle decisioni delle autorità, quando di esse si comprenderà meglio la natura di porzioni di statualità, indipendenti dall'organismo complessivo e non più compatto del tradizionale modello dello Stato di diritto. Se le Autorità indipendenti sono questa entità nuova di Stato nello Stato, la Corte costituzionale non potrà continuare a inibir loro la vindicatio potestatis con l'argomento da considerarsi già oggi anacronistico che esse non sono abilitate a manifestare in forma definitiva la volontà di un potere dello Stato. Questo argomento è oggi una petizione di principio, perché è proprio la trilogia dei poteri che le Autorità indipendenti mettono in crisi.
Non è dubitabile che il rilievo di queste Autorità tenda a essere di rango costituzionale e non soltanto amministrativo. Una revisione della Costituzione non potrà tacere su questo loro statuto. A esemplificare la crescita di queste figure verso una rilevanza costituzionale userò il caso della sequenza Garante dell'editoria e Garante per la radiodiffusione ed editoria.
L'Ufficio del Garante per la radiodiffusione e l'editoria nasce con la Legge n. 223 del 1990, che utilizza la figura introdotta dalla Legge n. 416 del 1981, accrescendone l'originaria competenza sull'editoria con quella sulla radiotelevisione. Ma al di là dei singoli doveri e poteri si può dire che la natura dell'organo sia rimasta invariata? Nella legge del 1990 manca una definizione dei fini ultimi del Garante, che in quella del 1981 era invece esplicita: Garante dell'attuazione della legge per svolgere una azione continua di vigilanza spettante al Parlamento. Dunque quel Garante dell'editoria era un delegato del Parlamento per adempiere un compito cui il Parlamento non avrebbe potuto attendere con continuità, ma che tuttavia rivendicava e riservava come proprio.
Parlamento e stampa, questo è il legame stabilito da quella legge, se se ne voglia dare una lettura costituzionalmente significativa.

UN RUOLO COSTITUZIONALE
Non è certo la regola che il Parlamento, licenziata una legge, se ne dichiari titolare della attuazione e a tal scopo istituisca una figura di affidatario. La legge, ogni legge, ha il suo circuito naturale di destinatari che l'ordinamento ha predisposto, lungo il percorso che va dalla nomofilachia alla obbedienza.
Qui si introduce invece una cura del Parlamento che ha per contenuto la vigilanza e per gestore il Garante.
Il segnale è chiaro: è in gioco un interesse in senso pregnante politico verso la stampa di cui si fa portatore permanente quel potere che nei confronti della stampa non è soltanto legislativo, ma anche di vigilanza. Se la legge sull'editoria si interpreta come finalizzata a preservare e promuovere la libertà di stampa, si intende allora la anomala assunzione da parte del potere legislativo del compito di vigilare, tramite il Garante, sulla sua attuazione. Il potere legislativo tutela qui la sua qualità di rappresentanza della società democratica. La libertà di stampa è l'espressione di una libera democrazia e in assenza di essa o nella sua compressione, a opera anche, e oggi soprattutto, di processi di concentrazione proprietaria, il Parlamento negherebbe a se stesso la garanzia di una sua propria libera elezione.
Nel 1990, la legge ha un diverso oggetto: non la libertà di stampa, ma il modus vivendi, nell'ambito del medium radiotelevisivo, tra il servizio pubblico e l'emittenza privata. La radiotelevisione per la sua potente e invasiva diffusività si presenta meno come esercizio di una libertà e assai di più come potere. Un potere che, se lasciato totalmente alla iniziativa dei privati, postulando una concentrazione di capitali di investimento e di risorse finanziarie di gestione, e inclinando verso assetti tendenzialmente monopolistici, può contrapporsi al potere dello Stato democratico. La giurisprudenza della Corte costituzionale, anche dopo avere abbandonato la difesa del monopolio pubblico dell'etere, ha sempre intravisto nel potere della televisione un potenziale attentatore al pluralismo democratico. Di qui la necessità di conservare una molteplicità di imprese di emittenza e di controllarne il mercato per impedire abusi di posizioni dominanti e fenomeni di concentrazione.
Ma nello stesso tempo, anche nei confronti del servizio pubblico, residuo dell'originario monopolio dello Stato, si è imposto dalla Corte costituzionale un pluralismo cosiddetto "interno". Evidentemente per superare la configurazione del duopolio, tra un compatto servizio pubblico statalista e un grande soggetto privato suo antagonista. In un quadro di conflitto tra il potere dei media e il potere democratico, piuttosto che tra libertà economiche e libertà culturali, la riedizione del Garante del 1990 segna una evoluzione: esso appare sempre meno organo di garanzia del Parlamento e sempre più garante dei cittadini. Costoro, inseguiti fin nelle case dalla comunicazione televisiva, vanno maturando una richiesta di qualità e di interazione verso i produttori di media, i quali, a loro volta, agiscono sul mercato adattandolo alle proprie risorse e programmi, piuttosto che adattandosi a esso. Gli indici di audience sono un legame non si sa quanto univoco e biunivoco e quanto equivoco alla ricerca di un equilibrio tra domanda del pubblico e offerta dei media. La legislazione vigente disciplina il versante economico del mondo della comunicazione con misure antitrust e quello etico-sociale con norme di divieto di trasmissioni informative, d'intrattenimento, di pubblicità che esaltino la violenza, la pornografia o che turbino lo sviluppo psichico e morale dei minori, o che esprimano intolleranza per distinzioni di razza, sesso, religione o nazionalità. La informazione, la propaganda e la pubblicità nella comunicazione politica hanno inoltre un regime ispirato alla cosiddetta par condicio. Al Garante sono attribuiti poteri di vigilanza e di controllo e sanzioni amministrative pecuniarie o di sospensione dell'attività di un'emittenza o di revoca della concessione, di restitutio in integrum nel caso della par condicio, di imposizione della rettifica quando ne sia fatta richiesta da un privato leso da una notizia non corrispondente anche parzialmente a verità. Questo sistema funziona come ogni meccanismo repressivo.

GARANTE, NON POLIZIOTTO
L'effetto nocivo della trasgressione è irrisarcibile, dominando nella comunicazione il principio del quod factum est, infectum fieri nequit, non potendosi cancellare dalle menti degli ascoltatori quello che hanno visto e udito.
Il Garante, d'altra parte, oltre la lettera delle norme ordinarie non può dimenticare i valori costituzionali, che quelle norme dovrebbero presidiare. L'art. 21 della Costituzione, che per i cittadini utenti dei media significa libertà di informazione, vale a dire il diritto di essere informati in regime di pluralità di fonti informative e di controllo delle notizie; e che per i cittadini operatori nei media significa libertà di diffondere notizie, cioè diritto-dovere di informare. L'art. 41, che stabilisce la libertà di iniziativa economica sul mercato delle imprese di comunicazione. L'armonizzazione di questi due articoli si ottiene non spontaneamente lasciando confliggere a oltranza produttori e utenti dei media, ma persuadendo tutti che dalla composizione previa degli interessi alimentati dalle due libertà dipende la sorte di fondamentali princìpi del patto costituzionale: la formazione libera e critica della persona umana (art. 2 Cost.); la eguaglianza tra i cittadini (art. 3, 1°c.); la rimozione degli ostacoli di fatto alla partecipazione di tutti alla direzione politica del Paese (art. 3, 2°c.); in una parola diritto a vivere in una democrazia, quale è definita l'Italia nell'art. 1 della Costituzione. Se la posta in gioco, espressa in termini di valori costituzionali e non di norme di dettaglio, è questa, il Garante non può essere soltanto un vigilante che punisce i trasgressori dei divieti. Deve avere un compito positivo di mediatore fra i portatori dei diversi interessi, riconducibili ora all'una ora all'altra delle due libertà dell'art. 21 e dell'art. 41. Deve promuovere il pluralismo e non soltanto conservarne lo status quo con aderenza alle situazioni in mutamento. Deve mettere in rapporto le rappresentanze degli utenti e gli imprenditori e gli operatori dei media.
Se i nomina juris hanno un effetto immaginifico nella mentalità collettiva, ebbene è da registrare che il termine "Garante" è ricevuto dai cittadini come semanticamente apparentato a quello di "Difensore civico", di un protettore imparziale dei più deboli, di un raddrizzatore di torti. Questo è segno che il Garante è inteso come figura esponenziale di una nuova concezione della cittadinanza, che supera lo schema tradizionale della statualità come apparato che ordina la vita di una comunità di sudditi, e pone invece in primo piano la rappresentazione dei diritti costituzionali dei cittadini.
Il Garante in questa raffigurazione diacronica di vecchia statualità e nuova cittadinanza, sta dalla parte dei cittadini piuttosto che da quella dell'apparato istituzionale. E suggerisce che le situazioni giuridiche soggettive, nella gamma ordinamentale che va dagli interessi individuali a quelli diffusi, dai diritti sociali ai diritti soggettivi perfetti, non arretrino dalla linea dei diritti costituzionali di libertà, quali che siano i mezzi amministrativi o giudiziari di tutela. Siano cioè diritti costituzionali garantiti dall'autorità indipendente del Garante. Si è nell'immaginario collettivo dunque consolidata l'idea che attraverso i passaggi degli articoli indicati questo organo sia garante della Costituzione nell'ambito del mondo della comunicazione sociale. Dovremmo dunque far corrispondere a questa domanda di garanzia una normativa più avanzata di quella vigente e forse anche di quella condenda. Specialmente per quanto riguarda i cittadini-utenti una loro autonoma o almeno più rilevata rappresentanza accanto al Garante può dare migliore espressione a quei valori etico-sociali riassumibili nella dignità della persona umana e nel fondamentale dovere di rispettarla, che sono alla base della quotidiana pressante richiesta di una qualità dei media, dalla stampa alla televisione alla cinematografia, perché cessi di essere offensiva di quella dignità.
Una figura siffatta di Garante esige una legittimazione sostanziale proveniente più dal basso che dall'alto, ottenibile con poteri e strumenti che ne facciano quale Autorità di settore un interlocutore utile e non sprovveduto dei cittadini, che già da essa esigano una auctoritas con forte valenza etica, non riducibile a una sofisticata nuova macchina amministrativa, che intrecci e interferenze di competenze e di compiti con altri pezzi dello Stato possono minacciare di improduttività e condannare precocemente all'obsolescenza.
Va progettata con ogni cura una esperienza di innovazione, il cui esito deludente non potrebbe che ingenerare disincanto e distacco rispetto al modello di democrazia in cui tante speranze sono state riposte per un ordine più giusto e razionale della vita collettiva.