di Giorgio Tarzia
IL GIUDICE TRIBUTARIO FRA SCELTE LEGISLATIVE E DUBBI DI COSTITUZIONALITÀ
Nel breve spazio di una relazione, non è certamente possibile affrontare, e neppure enumerare, tutte le
"luci" e le "ombre" della riforma del processo tributario tracciata dalla Legge delega del 1991 e dai
Decreti delegati del 1992.
Dovendo qui fare una scelta, mi sembra opportuno dedicare qualche riflessione a quello che è senza
dubbio, e di gran lunga, il punto più rilevante e "centrale" a tutta la riorganizzazione del processo
tributario: intendo dire il tema del Giudice tributario, tema tormentato ormai da decenni, e a parere dei
più (fra i quali va annoverato il sottoscritto) non ancora risolto in modo soddisfacente, neppure
dall’ultima riforma.
Per capire a fondo il problema, non si può fare a meno di una ricostruzione retrospettiva.
Il tema delle cosiddette "liti di imposta" è stato per almeno mezzo secolo dominato dall’idea, tutto
sommato giustificata dal sistema tributario dell’epoca, che almeno per la maggior parte quel contenzioso
avesse per oggetto controversie di estimazione (dei redditi o dei valori che costituiscono le basi
imponibili), e che fossero invece marginali le questioni di diritto, intese come controversie sulla
interpretazione della legge. (4)
Più o meno espressamente, si tendeva allora a ricondurre la posizione del contribuente nelle controversie
di stima a un semplice "interesse legittimo" nei confronti della Pubblica Amministrazione, considerando
solo residuali le controversie in cui potesse veramente affermarsi la necessità della tutela di un "diritto
soggettivo".
Come è evidente, tutto ciò favoriva la configurazione delle Commissioni tributarie, e degli altri organi
deputati all’esame del contenzioso fra fisco e contribuenti, come emanazioni dell’Autorità
amministrativa, potremmo dire in senso lato come organismi atti a esercitare con qualche maggiore
garanzia di obiettività il cosiddetto "autocontrollo" della Pubblica Amministrazione nell’esercizio dei
suoi poteri autoritativi, in particolare, nella fattispecie, nell’esercizio dei poteri di accertamento.
Ancora nell’anno 1942 Enrico Allorio (5) poteva dunque elaborare la tesi "amministrativistica" del
contenzioso tributario, visto come una fase dell’accertamento, nel cui svolgimento il contribuente avesse
un interesse alla corretta osservanza delle norme impositive, piuttosto che un diritto tutelabile davanti a
un Giudice "super partes".
Il primo segnale che questo inquadramento teorico non era più soddisfacente venne, peraltro, dalla
Costituzione repubblicana, nella solenne affermazione del "diritto di difesa" (6) che impegnava il
legislatore ad assicurare un "giudizio" (e quindi un Giudice) per la tutela sia dei diritti che degli interessi
legittimi nei confronti della Pubblica Amministrazione.
E difatti, già negli anni che precedettero la riforma tributaria del 1972, più volte la Corte Costituzionale
fu richiesta di pronunciarsi sulla legittimità o meno delle norme che allora disciplinavano il contenzioso
tributario.
I princìpi che venivano in gioco erano quello dell’art. 24 sul diritto alla difesa e quello degli artt. 104 e
108 sulla indipendenza della Magistratura da ogni altro potere dello Stato.
Il dilemma era quindi, in sintesi, il seguente: accettando la tradizionale concezione della natura
"amministrativa" degli Organi del contenzioso tributario, si sarebbe dovuta ravvisare una carenza del
diritto di difesa assicurato dall’art. 24 della Costituzione; qualificando invece quegli Organi come
"giurisdizionali", si poteva incorrere nella violazione degli artt. 104 e 108 della Costituzione sul punto
dell’indipendenza e dell’imparzialità del Giudice, perché allora si sarebbe trattato, nella sostanza, di un
Giudice nominato da una delle parti in lite.
Mentre la giurisprudenza della Cassazione si era arroccata sulla ripetuta affermazione della natura
giurisdizionale delle Commissioni, quella della Corte Costituzionale si mostrò oscillante sul tema, prima
aderendo alla tesi della natura giurisdizionale, poi invece affermando la natura amministrativa delle
Commissioni. (7)
Peraltro, era nel generale convincimento della dottrina (8) che queste non coerenti prese di posizione
fossero tutte ispirate, piuttosto che da un reale convincimento, dalla grave preoccupazione di evitare un
vuoto normativo, che avrebbe finito per sommergere il Giudice ordinario, già alle prese con gli eterni
problemi di organico e di strutture insufficienti, sotto l’enorme peso delle liti tributarie, certamente per
esso insostenibile.
Del resto, che questa fosse la preoccupazione che aveva ispirato gli orientamenti del Giudice delle leggi,
fu addirittura manifestato apertamente in un pubblico discorso del Presidente della Corte Costituzionale,
nell’anno 1969. (9)
Il "principio di conservazione", se così possiamo dire, cui la Corte si era attenuta nei suoi interventi sul
tema anteriori alla riforma tributaria del 1972, non venne meno negli anni successivi; e ciò sebbene
quella riforma avesse reso ancor più grave e acuto il problema.
Erano state infatti apportate profonde modifiche al diritto sostanziale tributario, riducendo sensibilmente
la discrezionalità della Amministrazione finanziaria nelle questioni estimative, e quindi riducendo il
numero delle controversie di mera stima, anche nei settori ove in passato erano più frequenti. Il diritto
tributario sostanziale fu, insomma, indirizzato verso una marcata "giuridicizzazione", laddove sul
versante del contenzioso tributario, in particolare sul punto che qui interessa, si assistette solo a
modifiche non risolutive, o, come qualche autorevole commentatore disse più drasticamente, a una non-
riforma. (10)
Le Commissioni tributarie di primo e secondo grado, istituite dal DPR n. 636/1972, e tuttora in funzione
fino al momento in cui saranno sostituite dalle nuove Commissioni regionali e provinciali, erano e sono
formate, difatti, da componenti che, per la maggioranza, provengono da designazioni dei Comuni, delle
Provincie e dell’Amministrazione finanziaria, cioè a dire dagli Enti pubblici interessati, in misura
maggiore o minore, al gettito tributario.
Il DPR n. 636/1972 fu perciò bersagliato, e diremmo con rinnovato vigore, da una nutrita serie di
eccezioni di legittimità costituzionale, da più parti sollevate, e spesso con motivazioni penetranti e
approfondite.
A questo punto, per complicare le cose, la Consulta si trovava a dover riflettere, oltreché sulle norme
costituzionali già citate, anche su di un altro problema, posto con riferimento all’art. 102, cioè con il
divieto della istituzione di Giudici straordinari o di Giudici speciali, essendo solo consentita
l’istituzione, presso gli Organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate per determinate materie.
Stavolta, l’imbarazzo del Giudice delle leggi nel dover difendere quel che ormai appariva ben
difficilmente difendibile, si manifestò anzitutto con l’enorme ritardo nel decidere: si pensi che numerose
ordinanze di rimessione rimasero giacenti, prima di essere portate alla discussione, addirittura per
cinque, sei e sette anni.
Il verdetto giunse infine nell’anno 1982, (11) e ancora una volta le Commissioni tributarie furono
"graziate".
Senza più porre in dubbio, ormai, la natura giurisdizionale delle Commissioni, per non incorrere nella
violazione dell’art. 24, la Corte ritenne che l’imparzialità e l’indipendenza del Giudice tributario potesse
ritenersi salvaguardata, sulla base di considerazioni che possono così riassumersi:
a) quanto alla possibilità che i Presidenti delle Commissioni di primo grado, delle loro sezioni e i vice Presidenti fossero scelti anche fra gli Intendenti di finanza, perché la legge richiedeva che essi fossero già collocati a riposo, e quindi non più in rapporto di servizio con l’Amministrazione statale;
b) quanto alla scelta di metà dei membri delle Commissioni da elenchi formati dall’Amministrazione finanziaria, perché si trattava di "mere designazioni", filtrate dalla scelta riservata di un Magistrato;
c) quanto alla scelta di altra metà dei membri delle Commissioni da elenchi formati dai Comuni e dalle Provincie, perché l’interesse di questi Enti all’accrescimento del gettito delle imposte doveva ritenersi come un interesse "ampio" e "generico", e certamente non riconducibile alle singole controversie che i Collegi erano chiamati a risolvere.
Si aggiungeva poi la considerazione che i componenti delle Commissioni rimanevano in carica a tempo
indeterminato, fino al raggiungimento di un limite di età, e che erano pur sempre possibili l’astensione e
la ricusazione, di fronte a situazioni concrete che comportassero sospetti sulla indipendenza o sulla
imparzialità.
Quanto al citato art. 102 della Costituzione, la Consulta fece ricorso alla sesta disposizione transitoria,
che consentiva (per la verità solo entro cinque anni dalla entrata in vigore della carta costituzionale) la
"revisione" degli Organi speciali di giurisdizione già esistenti, e ritenne che con il DPR n. 636/1972 il
legislatore si fosse appunto avvalso di quella possibilità.
La dottrina si mostrò, credo unanimemente, insoddisfatta di queste decisioni, (12) esaminandole
criticamente con riflessioni che, per brevità, si può qui omettere di ricordare. Comunque, il convincimento di
tutti fu nel senso che il problema della creazione di un Giudice tributario a livello delle esigenze costituzionali
era stato, in realtà, solo rimandato, ma per nulla affatto risolto.
E che anche in sede legislativa ci si rendesse conto della necessità di trovare altre e più consone
soluzioni, lo dimostrano le iniziative parlamentari degli anni successivi.
Meritano soprattutto di essere ricordati (anche perché non è affatto escluso che le soluzioni ivi ipotizzate
possano in futuro riemergere) la proposta n. 686/1987 di iniziativa dei deputati Usellini, Azzaro e altri, e
la proposta n. 2838/1988 di iniziativa dei deputati Bellocchio, Violante e altri. (13)
La proposta n. 686/1987 indicava come sua principale innovazione la "attribuzione della giurisdizione
tributaria ai Tribunali ordinari, e la trasformazione delle Commissioni tributarie di primo e secondo
grado in sezioni specializzate di Tribunale e di Corte d’Appello"; e concretava questa scelta con la
previsione che i Presidenti, i Presidenti di sezione e i vice Presidenti fossero scelti fra i Magistrati
ordinari, gli altri membri fossero scelti mediante sorteggio fra gli esperti iscritti in albi istituiti,
rispettivamente, presso i Tribunali e le Corti d’Appello (per la verità, largheggiando non poco sul punto
dei requisiti necessari per l’iscrizione in tali albi).
Senza scendere qui nei dettagli, voglio dire che era certamente importante la scelta di fondo, quella cioè
della configurazione degli Organi della giustizia tributaria come sezioni specializzate degli Organi della
giustizia ordinaria; seguendo, con ciò, la chiara indicazione, che ancor oggi sembra a molti essere il vero
traguardo da raggiungere, (14) suggerita dall’art. 102, comma secondo, della Costituzione.
La relazione accompagnatoria della proposta di legge osservava che l’impostazione adottata, oltre a
essere conforme alle previsioni della Corte costituzionale, appariva nel concreto l’unica praticabile,
essendo utopistico pensare a un improvviso massiccio reclutamento di nuovi Giudici di ruolo, e non
potendosi d’altra parte pensare "a un massiccio impiego di Magistrati ordinari e amministrativi che si
dedichino alla giustizia tributaria nel tempo libero", perché ciò non avrebbe fatto che aggravare la crisi
della giustizia ordinaria; si osservava, infine, che il sistema proposto avrebbe anche consentito di attuare
"con semplici disposizioni transitorie un passaggio graduale dal sistema esistente al nuovo, ed evitare
così il pericolo di un altro periodo di disordine e di ritardo nella amministrazione della giustizia
tributaria".
Diversa era la soluzione voluta dalla proposta n. 2838/1988, che sceglieva decisamente la via del
Giudice tributario di ruolo, da ammettersi all’esercizio della pubblica funzione attraverso un concorso.
E anche qui è interessante rileggere le puntuali considerazioni svolte dalla relazione accompagnatoria.
Dopo avere configurato, come sole possibili opzioni, quella dell’affidamento della giurisdizione
tributaria a sezioni specializzate della Magistratura ordinaria, e quella della creazione "di una vera e propria Magistratura speciale che, sulla falsariga dei TAR, fosse deputata ad amministrare la giurisdizione tributaria", la relazione
spiegava la sua preferenza per la seconda soluzione, sottolineando in particolare che solo il concorso
poteva assicurare il controllo preventivo della capacità e della professionalità del Giudice tributario, e
che la risposta alla domanda di giustizia in questo campo non poteva, come in tutti gli altri settori della
giurisdizione, non essere assicurata da Magistrati "a tempo pieno", salva beninteso la possibilità al
ricorso a esperti (anche qui, come accade nelle altre giurisdizioni) ogni qualvolta il caso da decidere lo
richiedesse.
Come si sa, né l’una né l’altra proposta si sono tradotte in legge. E ognuno di noi è libero di ipotizzare
perché mai non si sia riusciti a pervenire alle soluzioni certamente più corrette, e insuscettibili di dare
luogo a ulteriori dubbi sul piano costituzionale.
Essendo ormai fuori discussione, come già si è detto, che nella materia tributaria vada assicurata una
tutela giurisdizionale piena, e che l’applicazione del diritto tributario implica l’interpretazione delle leggi
e la soluzione di problemi di diritto, non meno e non diversamente da ogni altra tutela giurisdizionale, si
è talora sentito dire che il mancato raggiungimento del traguardo di una magistratura tributaria
professionale andrebbe ricercato in ragioni di contenimento della spesa pubblica.
Sarebbe questa la peggiore delle giustificazioni, inaccettabile ed erronea. Inaccettabile, anzitutto, per
fondamentali ragioni di principio, perché non si sacrifica una funzione essenziale dello Stato, qual è
quella dell’amministrazione della giustizia, per ragioni di spesa. Ma anche erronea, perché sembra
difficilmente sostenibile che un manipolo di Giudici professionali a tempo pieno debba costare di più di
un esercito di Giudici a tempo limitato, il cui compenso comunque non può non rispondere alla dignità
della funzione che esercitano.
Si è detto anche che nell’affrontare questi problemi il legislatore si trova a dover fare i conti con le forti
spinte corporative della vasta platea degli attuali membri delle Commissioni tributarie; e la "preferenza"
che a essi attribuisce l’art. 43 del DL n. 545/1992, posto fra le disposizioni transitorie e dedicato alla
nomina dei primi componenti delle nuove Commissioni regionali e provinciali, sembra confermare il
cedimento a quelle spinte.
Ma ancora una volta, se così è, viene da chiedersi fino a che punto il legislatore debba farsi condizionare
da interessi settoriali, allorquando è chiamato a compiere scelte di valenza pubblica ben superiore.
Sta di fatto, comunque, che la riforma del contenzioso tributario è oggi quella delineata dai Decreti n.
545 e n. 546 del 31 dicembre 1992; e che la stessa Legge delega, cioè l’art. 30 della Legge n. 413/1991,
sul punto che qui interessa non andava più in là di una generica raccomandazione sulla "qualificazione professionale dei Giudici tributari, in modo che venga assicurata adeguata preparazione nelle discipline giuridiche o economiche", indicando solo
per i Presidenti delle Commissioni e delle loro sezioni che la scelta dovesse avvenire "fra i Magistrati ordinari, amministrativi o militari, in servizio, a riposo o in congedo".
LA "PROFESSIONALITÀ" DEL GIUDICE TRIBUTARIO NELL’INDIRIZZO DELLA LEGGE DELEGA E NEL DECRETO DELEGATO
Dopo questa lunga digressione sui precedenti del problema, non vi è che da prendere atto che ancora una
volta, con il sistema delineato dalla Legge delega del 1991 e dai decreti delegati nel 1992, si è rinunciato
per il processo tributario sia al "Giudice di ruolo", sia alle "Sezioni specializzate presso la Magistratura
ordinaria".
E allora, resta da chiedersi se almeno sulla più arretrata trincea della "qualificazione professionale" dei
Giudici tributari la riforma abbia dato risposte adeguate.
Vengono qui in rilievo le norme degli artt. 4 e 5 del Decreto n. 545/1992, il primo dedicato ai
componenti delle Commissioni tributarie provinciali e il secondo ai componenti delle Commissioni
tributarie regionali.
Si vede subito, dalla lettura di queste norme, che il panorama è alquanto composito.
Per le Commissioni tributarie provinciali, alla possibilità di scelta fra i Magistrati ordinari,
amministrativi o militari, in servizio o a riposo, si affianca quella fra gli avvocati e procuratori dello
Stato a riposo, fra i dipendenti civili dello Stato o di altre Amministrazioni Pubbliche, in servizio o a
riposo, che abbiano prestato servizio per almeno dieci anni, fra gli Ufficiali della Guardia di Finanza
cessati dalla posizione di servizio permanente effettivo prestata per almeno dieci anni, fra gli iscritti
negli albi dei ragionieri e dei periti commerciali che abbiano esercitato per almeno dieci anni le
rispettive professioni, fra i ragionieri e periti commerciali che pur non iscritti negli albi abbiano però
svolto per almeno dieci anni alle dipendenze di terzi attività nelle materie tributarie e amministrativo-
contabili, fra gli iscritti nel ruolo o nel registro dei revisori ufficiali dei conti o dei revisori contabili, fra
gli insegnanti in materie giuridiche, economiche o tecnico-ragionieristiche che abbiano esercitato per
almeno cinque anni.
Quanto alle Commissioni tributarie regionali, ai Magistrati (in servizio o a riposo) e agli avvocati e
procuratori dello Stato (a riposo) si aggiungono docenti di ruolo e ricercatori, dipendenti civili dello
Stato e di altre Amministrazioni Pubbliche, Ufficiali superiori della Guardia di Finanza, Ispettori del
servizio centrale degli Ispettori tributari cessati dall’incarico, notai, avvocati e procuratori, dottori
commercialisti, ragionieri e periti commerciali che abbiano esercitato attività di amministratori, sindaci e
dirigenti in società di capitali; per tutti costoro è richiesto un periodo di esercizio della professione o
della funzione più lungo di quello corrispondentemente richiesto per fare parte delle Commissioni
tributarie provinciali.
Si è detto che il quadro è composito; perché, come è agevole vedere, accanto a categorie per le quali può
presumersi una preparazione adeguata per affrontare lo svolgimento del ruolo di Giudice tributario, ve
ne sono altre per le quali tale presunzione non può invece essere ragionevolmente formulata. Cosicché,
torna qui purtroppo a emergere il sospetto avanzato poco fa a proposito delle possibili motivazioni delle
scelte operate dal legislatore, quella cioè che, dovendosi delimitare un recinto, siano entrate in campo
pressioni corporative da varie direzioni, non sempre e non facilmente resistibili; anche perché, prima
della delimitazione del recinto, il terreno era libero a tutti, o quasi.
Se si affronta razionalmente il problema, si deve ammettere che l’alternativa è la seguente: o il controllo
pubblico sulla preparazione sulla idoneità per lo svolgimento della funzione giurisdizionale si fa in via
preventiva, attraverso un concorso, e allora si potrà anche in qualche misura largheggiare nei requisiti
per l’ammissione al concorso, perché la garanzia del vaglio e della selezione è data comunque da esso,
ovviamente strutturato in modo adeguato alle finalità che si vogliono raggiungere; oppure si rinuncia al
controllo pubblico preventivo, affidandosi a una presunzione di sufficiente preparazione e di idoneità
degli appartenenti a certe categorie, ma allora, ai fini di quella presunzione, già di per sé discutibile,
almeno l’identificazione delle categorie ai cui appartenenti la si può applicare deve essere rigorosa e non
lassista, restrittiva e non estensiva.
Che non sia così nel caso di cui ci stiamo occupando, penso che risulti abbastanza chiaro dalla
elencazione delle categorie enunciate dagli artt. 4 e 5 del Decreto n. 545/1992; senza bisogno di scendere
qui in esemplificazioni, che potrebbero urtare la suscettibilità di qualcuno.
Certo, la presenza di Magistrati, nel ruolo di Presidenti, di Presidenti di sezione e di vice Presidenti delle
Commissioni tributarie, è una garanzia di professionalità.
Ma si deve immediatamente osservare che, quando vi sia squilibrio fra la preparazione e la
professionalità di taluni e di altri componenti di un Collegio giudicante, lo squilibrio va a scapito della
collegialità, intesa, come è ovvio, nel suo significato sostanziale; e ciò tanto maggiormente quanto più
rilevante è quel divario, al punto che la decisione può risultare in definitiva determinata costantemente
dal convincimento dell’unico componente che abbia sufficiente capacità di decidere.
Non è certamente questo un risultato ottimale; e si può dunque concludere che, sul tema del Giudice
tributario, la legge ha bensì fatto qualche passo avanti, ma non ha ancora raggiunto il traguardo che si
auspicava.
LA DIFESA TECNICA NEL PROCESSO TRIBUTARIO
Strettamente connesso con il tema del Giudice tributario è quello della difesa tecnica.
Non sembra necessario dimostrare che il binomio è inscindibile: un vero processo, qualunque vero
processo, esige al contempo la professionalità del Giudice e quella del difensore.
Qui bisogna riconoscere che, rispetto alle deludenti previsioni della riforma del 1972, si è fatto ora con la
riforma del 1992 un passo avanti.
Come si sa, secondo l’art. 30 del DPR n. 636/1972 la difesa tecnica del contribuente era meramente
facoltativa, essendo sempre ammessa l’autodifesa, ovvero il ricorso all’ausilio di un parente o di un
affine; a essa faceva riscontro l’autodifesa dell’Amministrazione finanziaria.
Ora, invece, l’art. 12 del Decreto n. 546/1992 stabilisce finalmente l’obbligatorietà della difesa tecnica
del ricorrente, salvo che per le controversie di minor valore.
Vi è un’abilitazione generale alla difesa tecnica per gli avvocati, i procuratori legali, i dottori
commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali purché iscritti nei relativi albi; e un’abilitazione
limitata alle materie di loro competenza per i consulenti del lavoro, gli ingegneri, gli architetti, i
geometri, i periti edili, i dottori in agraria, gli agronomi e i periti commerciali, anch’essi se iscritti nei
relativi albi.
Osservando questa norma, è curioso notare da un lato che il legislatore continua a ritenere che in larga
misura le controversie tributarie si decidano su questioni tecniche, di stima e comunque di fatto; e a parte
ciò, che comunque la norma sui difensori appare in definitiva più restrittiva rispetto a quella sui Giudici
tributari, dando l’impressione che non sia stato colto appieno il nesso di interdipendenza fra l’uno e
l’altro problema di cui poco sopra dicevo. Il raffronto, anzi, a ben vedere ancor più sottolinea la
discutibilità delle scelte compiute a proposito del reclutamento dei Giudici tributari.
Sempre a proposito della difesa, due altre innovazioni dell’attuale riforma vanno salutate con vivo
favore, e senz’altro annoverate fra le "luci" del nuovo processo tributario: il patrocinio dei non abbienti,
disposto dall’art. 13 del Decreto n. 546/1992, chiaramente conseguenziale all’introduzione
dell’obbligatorietà della difesa tecnica, e che soddisfa un’esigenza di alto valore sociale sulla quale non
vi è bisogno di soffermarsi; e il patrocinio dell’Amministrazione finanziaria da parte dell’Avvocatura
dello Stato.
Su quest’ultimo punto, in passato, si era spezzata più di una lancia. E in particolare, vale la pena
ricordare quel che scriveva sul punto la relazione accompagnatoria della proposta di legge n. 2838/1988,
già sopra citata: "oggi il contenzioso è attivita' meramente residuale rispetto ad altri compiti reputati, dalla stessa Amministrazione finanziaria, piu' importanti e come tali oggetto, a differenza della cura del contenzioso, di impulso e controllo, sia qualitativo che quantitativo; conseguentemente vige il piu' totale disordine nella collazione delle pratiche per l'udienza e nello stesso riperimento delle carte; impera la piu' avvilente dequalificazione sia nell'estensione dei mezzi giurisdizionali di difesa, sia nel conferimento delle deleghe a rappresentare l’ufficio in udienza... la situazione si commenta da sola,
e da sola riteniamo valga a evidenziare l’assoluta e inderogabile esigenza di affidare la difesa del
rappresentante dell’Amministrazione a un ufficio che, in quanto specifico, abbia potere, mezzi e
personale atti a fornire all’Erario una qualità di difesa pari a quella fornita dal professionista al suo
cliente".
Parole forse un po’ forti, ma che toccavano un problema reale.
Ora la riforma prevede il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato come facoltativo. Ma vi è da sperare
che, quando il nuovo processo tributario entrerà in vigore, di quella facoltà sia fatto uso; e ciò non solo
per migliorare la qualità del processo, ma anche per un’altra e non meno importante ragione: come ogni
difensore serio e professionale, l’Avvocatura dello Stato è certamente in grado di esercitare anche una
funzione di "filtro" delle pretese, con grande vantaggio nella soluzione del perenne e assillante problema
di deflazionare il contenzioso tributario, e di ridurlo a dimensioni più fisiologiche; più in generale, si
potrebbe dire che quel "filtro" sarebbe un altro passo avanti verso la meta di un più corretto rapporto fra
i cittadini e il Fisco.
UN SALUTARE RIPENSAMENTO DEL LEGISLATORE
A queste riflessioni sul Giudice e sul difensore tributario se ne dovrebbero aggiungere molte altre, su
molteplici altri aspetti; ma lo spazio di questa relazione non lo consente.
E allora, per finire con una nota positiva, concluderò citando solo un’importante conquista: quella della
recente abolizione (15) di quell’art. 73 del Decreto n. 546/1992 che, sulle orme del famigerato art. 44 del
DPR n. 636/1972, (16) voleva onerare il ricorrente della cosiddetta "istanza di trattazione" del ricorso
avanti alle nuove Commissioni, in un breve termine perentorio, e pena l’estinzione del processo.
Quella norma, purtroppo suggerita da un inciso della legge delega, (17) era stata investita da violente
quanto sacrosante censure: perché nulla giustificava che il mutamento del rito dovesse far chiedere a chi
già aveva espresso la sua volontà di ottenere giustizia una conferma di quella volontà, presumendo in
caso contrario una sorta di tacita rinuncia; sicché, come già era avvenuto vent’anni prima, tornava ad
affacciarsi il grave sospetto di essere di fronte a un espediente, assolutamente incivile, volto ad
alleggerire e ridurre il contenzioso esistente.
Ma il legislatore, con un susseguente intervento, di tutto ciò si è reso conto, ed è tornato sui suoi passi:
abrogando quella previsione, e stabilendo che i ricorsi avanti le "vecchie" Commissioni passeranno
d’ufficio all’esame di quelle "nuove", allorquando esse entreranno in funzione.
Di questo ravvedimento, va con viva soddisfazione dato atto al nostro legislatore; e non vi è che
tributargli un meritato applauso.
NOTE
1) Contenuta nell’art. 30 della Legge 30 dicembre 1991 n. 413.
2) N. 545 e n. 546, entrambi del 31 dicembre 1992.
3) Con la Legge 26 novembre 1990 n. 353 che, si noti, portava il titolo di "provvedimenti urgenti per il
processo civile".
4) Sull’argomento vanno in particolare citate le acute osservazioni di TESAURO, A proposito di riforma
del contenzioso tributario, in Rass. trib. 1988, I, 433 sgg.
5) Nel suo fondamentale testo sul Diritto processuale tributario.
6) Contenuta nell’art. 24.
7) V. le sentenze 27 gennaio 1957 n. 12, 11 marzo 1957 n. 42, 30 dicembre 1958 n. 82, 13 luglio 1963
n. 132.
8) V. fra gli altri MAGNANI, La riforma del contenzioso tributario nel quadro della problematica sulla
qualificazione delle Commissioni, in Dir. econ. 1970, 35.
9) V. lo stralcio riportato da MARONGIU in Dubbi sulla legittimità del nuovo contenzioso tributario, in
Giur. comm. 1974, II, 758 sgg., alla nota 7.
10) V. ancora TESAURO, op. cit. alla nota 4.
11) Con le sentenze 24 novembre 1982 n. 196 e 16 dicembre 1982 n. 217, in Foro It. 1983, I, 534 sgg.
con nota di PROTO PISANI.
12) Vedasi il commento di PROTO PISANI cit. alla nota che precede, e ivi i richiami di altri Autori.
13) Entrambe negli atti parlamentari della Camera dei deputati della decima legislatura.
14) V. l’accenno di GIULIANI nel commento al DL 26 settembre 1995 n. 403, in "Il Sole-24 Ore" del 17
novembre 1995.
15) Nell’ambito della revisione di tutta la disciplina transitoria del Decreto n. 546/1992, disposta dal DL
n. 331/1993 convertito nella Legge 29 ottobre 1993 n. 427 e dal DL n. 477/1993 convertito nella
Legge 2 gennaio 1994 n. 55.
16) Che era stato anch’esso discutibilmente "graziato" dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 20
dicembre 1982 n. 243.
17) V. il paragrafo t) dell’art. 30 della Legge n. 413/1991.