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Impresa & Stato N°32 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

LUCI E OMBRE DEL NUOVO PROCESSO TRIBUTARIO IN ITALIA

di Giorgio Tarzia


RICORDANDO I CONVEGNI e i dibattiti che si fecero all’indomani della legge delega per la riforma del processo tributario (1) (che sotto il titolo "disposizioni per la revisione del contributo tributario", delegava il Governo a emettere entro dodici mesi uno o più decreti sulla disciplina e sull’organizzazione del contenzioso, dettandone i princìpi informatori), non si può non riflettere oggi sul tempo trascorso senza che sia ancora entrata in vigore una riforma che, allora, sembrava imminente.
È noto che i decreti delegati (2) videro la luce proprio a poche ore di distanza dalla scadenza del termine che il legislatore aveva fissato; ma da quella data sono trascorsi circa tre anni.
Qualche perplessità è d’obbligo: non solo e non tanto per i ripetuti differimenti dell’entrata in vigore del nuovo processo (o, per usare le diverse parole dell’art. 80 del Decreto n. 546/1992, della "efficacia delle nuove disposizioni", essendosi dichiarato che l’entrata in vigore del decreto era immediata, ma la sua efficacia era rinviata all’insediamento delle nuove Commissioni tributarie), ma anche e ancor più per il fatto che, con il passare del tempo e il succedersi dei Governi, si sono udite anche, in sede politica, voci di dissenso dalle scelte normative fissate in quei testi normativi; cosicché, soprattutto lo scorso anno, si è avuta l’impressione che il succedersi delle proroghe potesse non doversi imputare solo a ragioni organizzative, ma fors’anche a un intento di ripensare i criteri della riforma, non più totalmente condivisi.
Il susseguirsi dei rinvii è noto.
Il Decreto n. 545/1992 prevedeva (nell’art. 42) l’insediamento delle nuove Commissioni tributarie regionali e provinciali entro il 1 ottobre 1993, con la contemporanea soppressione delle Commissioni tributarie di primo grado e di secondo grado, e la prorogatio della Commissione tributaria centrale fino al 31 dicembre 1995.
Poi, quel termine subì un primo rinvio al 1 ottobre 1994, un secondo rinvio al 1 ottobre 1995, e alla vigilia di quest’ultima scadenza in tutta fretta il Governo emetteva un ennesimo decreto di proroga, stavolta solo per sei mesi, cioè fino al 1 aprile 1996; ma in sede parlamentare si sviluppava un dibattito sulla durata della proroga, che talune forze politiche volevano fin d’ora far slittare all’inizio dell’anno 1997.
Alla fine, con l’insistenza del rappresentante del Governo, è prevalsa (ma di strettissima misura) la soluzione di contenere, per intanto, la proroga al 1 aprile 1996, salvo lasciare al Parlamento di stabilire semmai alla vigilia di quel termine un ulteriore slittamento, se e in quanto lo si vorrà disporre.
Queste ultime vicende sembrano confermare, mi pare, che al di là delle dichiarazioni e delle motivazioni ufficiali, che come è noto imputano l’ulteriore rinvio alla necessità di armonizzare la riforma del processo tributario con le nuove disposizioni sulla conciliazione e sull’accertamento con adesione, possa esservi qualcosa di più e di diverso; e cioè che non tutti siano ancora persuasi a fondo di quelle scelte normative, pur risalenti ormai nel tempo, e che qualche mutamento di indirizzo sia ancora fra gli eventi possibili.
D’altra parte, a questo proposito non si può non tenere conto del momento di instabilità politica che stiamo attraversando, e della possibilità che la scadenza dell’ennesima proroga trovi un Parlamento e un Governo diversi da quelli attuali.
Al di là di ciò, vengono spontanei alcuni paragoni che dimostrano quanto sia lunga e tormentata la gestazione delle leggi processuali nel nostro Paese.
Tutti ricordiamo che il nuovo processo penale ha visto la luce nell’anno 1988 dopo il susseguirsi per lustri di una serie impressionante di leggi delega, contrassegnate da ripetuti mutamenti di indirizzo, anche sugli orientamenti di fondo, cioè sulla ricerca (che in quel processo è il cuore del problema) del punto di equilibrio fra garantismo ed efficienza nella prevenzione e nella repressione dei reati.
Quanto al processo civile, è altrettanto noto che sono occorsi cinque anni perché la sua pur solo parziale riforma, varata nell’anno 1990, (3) entrasse in vigore, anche qui dopo l’incalzante succedersi di provvedimenti di proroga; e dopo quei cinque anni di attesa, l’entrata in vigore (è storia di pochi mesi fa), è stata accompagnata da violente polemiche, agitazioni, richieste di modifica dell’ultima ora. Anzi, i cinque anni sarebbero diventati sei, o più, senza l’inflessibile presa di posizione, contro ogni rinvio ulteriore e nonostante le pressioni da più parti esercitate, di un Ministro di Grazia e Giustizia che della sua congenita inflessibilità e intransigenza aveva già dato prima, e ancor più avrebbe dato dopo, fino alla traumatica conclusione del suo mandato, non poche altre e significative dimostrazioni.
Certo è che, a differenza delle riforme del diritto sostanziale, quelle del diritto processuale comportano anche la soluzione di gravi problemi strutturali e organizzativi, che già di per sé spiegano i loro tempi e le loro difficoltà.
Ma proprio da quel che recentemente è accaduto per le modifiche del processo civile si può trarre, a mio avviso, qualche insegnamento di metodo valevole anche per il tema che qui ci interessa.
Si è infatti constatato in quella occasione come, a dispetto di anni di rinvii, si possa poi giungere impreparati all’ultima scadenza, manifestando quando ormai è tardi idee e suggerimenti che ben avrebbero potuto essere espressi prima, visto che ve ne era stato tutto il tempo.
Se questo è vero, e se è condivisibile (come certamente lo è) il monito che la fretta è nemica del bene, allora, a proposito del processo tributario, l’ulteriore tempo che il legislatore ha voluto per l’avvio della riforma, e i segnali che qualche ripensamento è ancora possibile, rendono particolarmente opportuno riflettere oggi sui temi di quel processo, riprendendo e approfondendo certe discussioni che, come ricordavo all’inizio, già furono svolte all’indomani della Legge delega del dicembre 1991, che indicava gli indirizzi della riforma.

IL GIUDICE TRIBUTARIO FRA SCELTE LEGISLATIVE E DUBBI DI COSTITUZIONALITÀ

Nel breve spazio di una relazione, non è certamente possibile affrontare, e neppure enumerare, tutte le "luci" e le "ombre" della riforma del processo tributario tracciata dalla Legge delega del 1991 e dai Decreti delegati del 1992.
Dovendo qui fare una scelta, mi sembra opportuno dedicare qualche riflessione a quello che è senza dubbio, e di gran lunga, il punto più rilevante e "centrale" a tutta la riorganizzazione del processo tributario: intendo dire il tema del Giudice tributario, tema tormentato ormai da decenni, e a parere dei più (fra i quali va annoverato il sottoscritto) non ancora risolto in modo soddisfacente, neppure dall’ultima riforma.
Per capire a fondo il problema, non si può fare a meno di una ricostruzione retrospettiva.
Il tema delle cosiddette "liti di imposta" è stato per almeno mezzo secolo dominato dall’idea, tutto sommato giustificata dal sistema tributario dell’epoca, che almeno per la maggior parte quel contenzioso avesse per oggetto controversie di estimazione (dei redditi o dei valori che costituiscono le basi imponibili), e che fossero invece marginali le questioni di diritto, intese come controversie sulla interpretazione della legge. (4)
Più o meno espressamente, si tendeva allora a ricondurre la posizione del contribuente nelle controversie di stima a un semplice "interesse legittimo" nei confronti della Pubblica Amministrazione, considerando solo residuali le controversie in cui potesse veramente affermarsi la necessità della tutela di un "diritto soggettivo".
Come è evidente, tutto ciò favoriva la configurazione delle Commissioni tributarie, e degli altri organi deputati all’esame del contenzioso fra fisco e contribuenti, come emanazioni dell’Autorità amministrativa, potremmo dire in senso lato come organismi atti a esercitare con qualche maggiore garanzia di obiettività il cosiddetto "autocontrollo" della Pubblica Amministrazione nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi, in particolare, nella fattispecie, nell’esercizio dei poteri di accertamento.
Ancora nell’anno 1942 Enrico Allorio (5) poteva dunque elaborare la tesi "amministrativistica" del contenzioso tributario, visto come una fase dell’accertamento, nel cui svolgimento il contribuente avesse un interesse alla corretta osservanza delle norme impositive, piuttosto che un diritto tutelabile davanti a un Giudice "super partes".
Il primo segnale che questo inquadramento teorico non era più soddisfacente venne, peraltro, dalla Costituzione repubblicana, nella solenne affermazione del "diritto di difesa" (6) che impegnava il legislatore ad assicurare un "giudizio" (e quindi un Giudice) per la tutela sia dei diritti che degli interessi legittimi nei confronti della Pubblica Amministrazione.
E difatti, già negli anni che precedettero la riforma tributaria del 1972, più volte la Corte Costituzionale fu richiesta di pronunciarsi sulla legittimità o meno delle norme che allora disciplinavano il contenzioso tributario.
I princìpi che venivano in gioco erano quello dell’art. 24 sul diritto alla difesa e quello degli artt. 104 e 108 sulla indipendenza della Magistratura da ogni altro potere dello Stato.
Il dilemma era quindi, in sintesi, il seguente: accettando la tradizionale concezione della natura "amministrativa" degli Organi del contenzioso tributario, si sarebbe dovuta ravvisare una carenza del diritto di difesa assicurato dall’art. 24 della Costituzione; qualificando invece quegli Organi come "giurisdizionali", si poteva incorrere nella violazione degli artt. 104 e 108 della Costituzione sul punto dell’indipendenza e dell’imparzialità del Giudice, perché allora si sarebbe trattato, nella sostanza, di un Giudice nominato da una delle parti in lite.
Mentre la giurisprudenza della Cassazione si era arroccata sulla ripetuta affermazione della natura giurisdizionale delle Commissioni, quella della Corte Costituzionale si mostrò oscillante sul tema, prima aderendo alla tesi della natura giurisdizionale, poi invece affermando la natura amministrativa delle Commissioni. (7)
Peraltro, era nel generale convincimento della dottrina (8) che queste non coerenti prese di posizione fossero tutte ispirate, piuttosto che da un reale convincimento, dalla grave preoccupazione di evitare un vuoto normativo, che avrebbe finito per sommergere il Giudice ordinario, già alle prese con gli eterni problemi di organico e di strutture insufficienti, sotto l’enorme peso delle liti tributarie, certamente per esso insostenibile.
Del resto, che questa fosse la preoccupazione che aveva ispirato gli orientamenti del Giudice delle leggi, fu addirittura manifestato apertamente in un pubblico discorso del Presidente della Corte Costituzionale, nell’anno 1969. (9)
Il "principio di conservazione", se così possiamo dire, cui la Corte si era attenuta nei suoi interventi sul tema anteriori alla riforma tributaria del 1972, non venne meno negli anni successivi; e ciò sebbene quella riforma avesse reso ancor più grave e acuto il problema.
Erano state infatti apportate profonde modifiche al diritto sostanziale tributario, riducendo sensibilmente la discrezionalità della Amministrazione finanziaria nelle questioni estimative, e quindi riducendo il numero delle controversie di mera stima, anche nei settori ove in passato erano più frequenti. Il diritto tributario sostanziale fu, insomma, indirizzato verso una marcata "giuridicizzazione", laddove sul versante del contenzioso tributario, in particolare sul punto che qui interessa, si assistette solo a modifiche non risolutive, o, come qualche autorevole commentatore disse più drasticamente, a una non- riforma. (10)
Le Commissioni tributarie di primo e secondo grado, istituite dal DPR n. 636/1972, e tuttora in funzione fino al momento in cui saranno sostituite dalle nuove Commissioni regionali e provinciali, erano e sono formate, difatti, da componenti che, per la maggioranza, provengono da designazioni dei Comuni, delle Provincie e dell’Amministrazione finanziaria, cioè a dire dagli Enti pubblici interessati, in misura maggiore o minore, al gettito tributario.
Il DPR n. 636/1972 fu perciò bersagliato, e diremmo con rinnovato vigore, da una nutrita serie di eccezioni di legittimità costituzionale, da più parti sollevate, e spesso con motivazioni penetranti e approfondite.
A questo punto, per complicare le cose, la Consulta si trovava a dover riflettere, oltreché sulle norme costituzionali già citate, anche su di un altro problema, posto con riferimento all’art. 102, cioè con il divieto della istituzione di Giudici straordinari o di Giudici speciali, essendo solo consentita l’istituzione, presso gli Organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate per determinate materie.
Stavolta, l’imbarazzo del Giudice delle leggi nel dover difendere quel che ormai appariva ben difficilmente difendibile, si manifestò anzitutto con l’enorme ritardo nel decidere: si pensi che numerose ordinanze di rimessione rimasero giacenti, prima di essere portate alla discussione, addirittura per cinque, sei e sette anni.
Il verdetto giunse infine nell’anno 1982, (11) e ancora una volta le Commissioni tributarie furono "graziate".
Senza più porre in dubbio, ormai, la natura giurisdizionale delle Commissioni, per non incorrere nella violazione dell’art. 24, la Corte ritenne che l’imparzialità e l’indipendenza del Giudice tributario potesse ritenersi salvaguardata, sulla base di considerazioni che possono così riassumersi:

a) quanto alla possibilità che i Presidenti delle Commissioni di primo grado, delle loro sezioni e i vice Presidenti fossero scelti anche fra gli Intendenti di finanza, perché la legge richiedeva che essi fossero già collocati a riposo, e quindi non più in rapporto di servizio con l’Amministrazione statale;

b) quanto alla scelta di metà dei membri delle Commissioni da elenchi formati dall’Amministrazione finanziaria, perché si trattava di "mere designazioni", filtrate dalla scelta riservata di un Magistrato;

c) quanto alla scelta di altra metà dei membri delle Commissioni da elenchi formati dai Comuni e dalle Provincie, perché l’interesse di questi Enti all’accrescimento del gettito delle imposte doveva ritenersi come un interesse "ampio" e "generico", e certamente non riconducibile alle singole controversie che i Collegi erano chiamati a risolvere.

Si aggiungeva poi la considerazione che i componenti delle Commissioni rimanevano in carica a tempo indeterminato, fino al raggiungimento di un limite di età, e che erano pur sempre possibili l’astensione e la ricusazione, di fronte a situazioni concrete che comportassero sospetti sulla indipendenza o sulla imparzialità.
Quanto al citato art. 102 della Costituzione, la Consulta fece ricorso alla sesta disposizione transitoria, che consentiva (per la verità solo entro cinque anni dalla entrata in vigore della carta costituzionale) la "revisione" degli Organi speciali di giurisdizione già esistenti, e ritenne che con il DPR n. 636/1972 il legislatore si fosse appunto avvalso di quella possibilità.
La dottrina si mostrò, credo unanimemente, insoddisfatta di queste decisioni, (12) esaminandole criticamente con riflessioni che, per brevità, si può qui omettere di ricordare. Comunque, il convincimento di tutti fu nel senso che il problema della creazione di un Giudice tributario a livello delle esigenze costituzionali era stato, in realtà, solo rimandato, ma per nulla affatto risolto.
E che anche in sede legislativa ci si rendesse conto della necessità di trovare altre e più consone soluzioni, lo dimostrano le iniziative parlamentari degli anni successivi.
Meritano soprattutto di essere ricordati (anche perché non è affatto escluso che le soluzioni ivi ipotizzate possano in futuro riemergere) la proposta n. 686/1987 di iniziativa dei deputati Usellini, Azzaro e altri, e la proposta n. 2838/1988 di iniziativa dei deputati Bellocchio, Violante e altri. (13)
La proposta n. 686/1987 indicava come sua principale innovazione la "attribuzione della giurisdizione tributaria ai Tribunali ordinari, e la trasformazione delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado in sezioni specializzate di Tribunale e di Corte d’Appello"; e concretava questa scelta con la previsione che i Presidenti, i Presidenti di sezione e i vice Presidenti fossero scelti fra i Magistrati ordinari, gli altri membri fossero scelti mediante sorteggio fra gli esperti iscritti in albi istituiti, rispettivamente, presso i Tribunali e le Corti d’Appello (per la verità, largheggiando non poco sul punto dei requisiti necessari per l’iscrizione in tali albi).
Senza scendere qui nei dettagli, voglio dire che era certamente importante la scelta di fondo, quella cioè della configurazione degli Organi della giustizia tributaria come sezioni specializzate degli Organi della giustizia ordinaria; seguendo, con ciò, la chiara indicazione, che ancor oggi sembra a molti essere il vero traguardo da raggiungere, (14) suggerita dall’art. 102, comma secondo, della Costituzione.
La relazione accompagnatoria della proposta di legge osservava che l’impostazione adottata, oltre a essere conforme alle previsioni della Corte costituzionale, appariva nel concreto l’unica praticabile, essendo utopistico pensare a un improvviso massiccio reclutamento di nuovi Giudici di ruolo, e non potendosi d’altra parte pensare "a un massiccio impiego di Magistrati ordinari e amministrativi che si dedichino alla giustizia tributaria nel tempo libero", perché ciò non avrebbe fatto che aggravare la crisi della giustizia ordinaria; si osservava, infine, che il sistema proposto avrebbe anche consentito di attuare "con semplici disposizioni transitorie un passaggio graduale dal sistema esistente al nuovo, ed evitare così il pericolo di un altro periodo di disordine e di ritardo nella amministrazione della giustizia tributaria".
Diversa era la soluzione voluta dalla proposta n. 2838/1988, che sceglieva decisamente la via del Giudice tributario di ruolo, da ammettersi all’esercizio della pubblica funzione attraverso un concorso.
E anche qui è interessante rileggere le puntuali considerazioni svolte dalla relazione accompagnatoria.
Dopo avere configurato, come sole possibili opzioni, quella dell’affidamento della giurisdizione tributaria a sezioni specializzate della Magistratura ordinaria, e quella della creazione "di una vera e propria Magistratura speciale che, sulla falsariga dei TAR, fosse deputata ad amministrare la giurisdizione tributaria", la relazione spiegava la sua preferenza per la seconda soluzione, sottolineando in particolare che solo il concorso poteva assicurare il controllo preventivo della capacità e della professionalità del Giudice tributario, e che la risposta alla domanda di giustizia in questo campo non poteva, come in tutti gli altri settori della giurisdizione, non essere assicurata da Magistrati "a tempo pieno", salva beninteso la possibilità al ricorso a esperti (anche qui, come accade nelle altre giurisdizioni) ogni qualvolta il caso da decidere lo richiedesse.
Come si sa, né l’una né l’altra proposta si sono tradotte in legge. E ognuno di noi è libero di ipotizzare perché mai non si sia riusciti a pervenire alle soluzioni certamente più corrette, e insuscettibili di dare luogo a ulteriori dubbi sul piano costituzionale.
Essendo ormai fuori discussione, come già si è detto, che nella materia tributaria vada assicurata una tutela giurisdizionale piena, e che l’applicazione del diritto tributario implica l’interpretazione delle leggi e la soluzione di problemi di diritto, non meno e non diversamente da ogni altra tutela giurisdizionale, si è talora sentito dire che il mancato raggiungimento del traguardo di una magistratura tributaria professionale andrebbe ricercato in ragioni di contenimento della spesa pubblica.
Sarebbe questa la peggiore delle giustificazioni, inaccettabile ed erronea. Inaccettabile, anzitutto, per fondamentali ragioni di principio, perché non si sacrifica una funzione essenziale dello Stato, qual è quella dell’amministrazione della giustizia, per ragioni di spesa. Ma anche erronea, perché sembra difficilmente sostenibile che un manipolo di Giudici professionali a tempo pieno debba costare di più di un esercito di Giudici a tempo limitato, il cui compenso comunque non può non rispondere alla dignità della funzione che esercitano.
Si è detto anche che nell’affrontare questi problemi il legislatore si trova a dover fare i conti con le forti spinte corporative della vasta platea degli attuali membri delle Commissioni tributarie; e la "preferenza" che a essi attribuisce l’art. 43 del DL n. 545/1992, posto fra le disposizioni transitorie e dedicato alla nomina dei primi componenti delle nuove Commissioni regionali e provinciali, sembra confermare il cedimento a quelle spinte.
Ma ancora una volta, se così è, viene da chiedersi fino a che punto il legislatore debba farsi condizionare da interessi settoriali, allorquando è chiamato a compiere scelte di valenza pubblica ben superiore.
Sta di fatto, comunque, che la riforma del contenzioso tributario è oggi quella delineata dai Decreti n. 545 e n. 546 del 31 dicembre 1992; e che la stessa Legge delega, cioè l’art. 30 della Legge n. 413/1991, sul punto che qui interessa non andava più in là di una generica raccomandazione sulla "qualificazione professionale dei Giudici tributari, in modo che venga assicurata adeguata preparazione nelle discipline giuridiche o economiche", indicando solo per i Presidenti delle Commissioni e delle loro sezioni che la scelta dovesse avvenire "fra i Magistrati ordinari, amministrativi o militari, in servizio, a riposo o in congedo".

LA "PROFESSIONALITÀ" DEL GIUDICE TRIBUTARIO NELL’INDIRIZZO DELLA LEGGE DELEGA E NEL DECRETO DELEGATO

Dopo questa lunga digressione sui precedenti del problema, non vi è che da prendere atto che ancora una volta, con il sistema delineato dalla Legge delega del 1991 e dai decreti delegati nel 1992, si è rinunciato per il processo tributario sia al "Giudice di ruolo", sia alle "Sezioni specializzate presso la Magistratura ordinaria".
E allora, resta da chiedersi se almeno sulla più arretrata trincea della "qualificazione professionale" dei Giudici tributari la riforma abbia dato risposte adeguate.
Vengono qui in rilievo le norme degli artt. 4 e 5 del Decreto n. 545/1992, il primo dedicato ai componenti delle Commissioni tributarie provinciali e il secondo ai componenti delle Commissioni tributarie regionali.
Si vede subito, dalla lettura di queste norme, che il panorama è alquanto composito.
Per le Commissioni tributarie provinciali, alla possibilità di scelta fra i Magistrati ordinari, amministrativi o militari, in servizio o a riposo, si affianca quella fra gli avvocati e procuratori dello Stato a riposo, fra i dipendenti civili dello Stato o di altre Amministrazioni Pubbliche, in servizio o a riposo, che abbiano prestato servizio per almeno dieci anni, fra gli Ufficiali della Guardia di Finanza cessati dalla posizione di servizio permanente effettivo prestata per almeno dieci anni, fra gli iscritti negli albi dei ragionieri e dei periti commerciali che abbiano esercitato per almeno dieci anni le rispettive professioni, fra i ragionieri e periti commerciali che pur non iscritti negli albi abbiano però svolto per almeno dieci anni alle dipendenze di terzi attività nelle materie tributarie e amministrativo- contabili, fra gli iscritti nel ruolo o nel registro dei revisori ufficiali dei conti o dei revisori contabili, fra gli insegnanti in materie giuridiche, economiche o tecnico-ragionieristiche che abbiano esercitato per almeno cinque anni.
Quanto alle Commissioni tributarie regionali, ai Magistrati (in servizio o a riposo) e agli avvocati e procuratori dello Stato (a riposo) si aggiungono docenti di ruolo e ricercatori, dipendenti civili dello Stato e di altre Amministrazioni Pubbliche, Ufficiali superiori della Guardia di Finanza, Ispettori del servizio centrale degli Ispettori tributari cessati dall’incarico, notai, avvocati e procuratori, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali che abbiano esercitato attività di amministratori, sindaci e dirigenti in società di capitali; per tutti costoro è richiesto un periodo di esercizio della professione o della funzione più lungo di quello corrispondentemente richiesto per fare parte delle Commissioni tributarie provinciali.
Si è detto che il quadro è composito; perché, come è agevole vedere, accanto a categorie per le quali può presumersi una preparazione adeguata per affrontare lo svolgimento del ruolo di Giudice tributario, ve ne sono altre per le quali tale presunzione non può invece essere ragionevolmente formulata. Cosicché, torna qui purtroppo a emergere il sospetto avanzato poco fa a proposito delle possibili motivazioni delle scelte operate dal legislatore, quella cioè che, dovendosi delimitare un recinto, siano entrate in campo pressioni corporative da varie direzioni, non sempre e non facilmente resistibili; anche perché, prima della delimitazione del recinto, il terreno era libero a tutti, o quasi.
Se si affronta razionalmente il problema, si deve ammettere che l’alternativa è la seguente: o il controllo pubblico sulla preparazione sulla idoneità per lo svolgimento della funzione giurisdizionale si fa in via preventiva, attraverso un concorso, e allora si potrà anche in qualche misura largheggiare nei requisiti per l’ammissione al concorso, perché la garanzia del vaglio e della selezione è data comunque da esso, ovviamente strutturato in modo adeguato alle finalità che si vogliono raggiungere; oppure si rinuncia al controllo pubblico preventivo, affidandosi a una presunzione di sufficiente preparazione e di idoneità degli appartenenti a certe categorie, ma allora, ai fini di quella presunzione, già di per sé discutibile, almeno l’identificazione delle categorie ai cui appartenenti la si può applicare deve essere rigorosa e non lassista, restrittiva e non estensiva.
Che non sia così nel caso di cui ci stiamo occupando, penso che risulti abbastanza chiaro dalla elencazione delle categorie enunciate dagli artt. 4 e 5 del Decreto n. 545/1992; senza bisogno di scendere qui in esemplificazioni, che potrebbero urtare la suscettibilità di qualcuno.
Certo, la presenza di Magistrati, nel ruolo di Presidenti, di Presidenti di sezione e di vice Presidenti delle Commissioni tributarie, è una garanzia di professionalità.
Ma si deve immediatamente osservare che, quando vi sia squilibrio fra la preparazione e la professionalità di taluni e di altri componenti di un Collegio giudicante, lo squilibrio va a scapito della collegialità, intesa, come è ovvio, nel suo significato sostanziale; e ciò tanto maggiormente quanto più rilevante è quel divario, al punto che la decisione può risultare in definitiva determinata costantemente dal convincimento dell’unico componente che abbia sufficiente capacità di decidere.
Non è certamente questo un risultato ottimale; e si può dunque concludere che, sul tema del Giudice tributario, la legge ha bensì fatto qualche passo avanti, ma non ha ancora raggiunto il traguardo che si auspicava.

LA DIFESA TECNICA NEL PROCESSO TRIBUTARIO

Strettamente connesso con il tema del Giudice tributario è quello della difesa tecnica.
Non sembra necessario dimostrare che il binomio è inscindibile: un vero processo, qualunque vero processo, esige al contempo la professionalità del Giudice e quella del difensore.
Qui bisogna riconoscere che, rispetto alle deludenti previsioni della riforma del 1972, si è fatto ora con la riforma del 1992 un passo avanti.
Come si sa, secondo l’art. 30 del DPR n. 636/1972 la difesa tecnica del contribuente era meramente facoltativa, essendo sempre ammessa l’autodifesa, ovvero il ricorso all’ausilio di un parente o di un affine; a essa faceva riscontro l’autodifesa dell’Amministrazione finanziaria.
Ora, invece, l’art. 12 del Decreto n. 546/1992 stabilisce finalmente l’obbligatorietà della difesa tecnica del ricorrente, salvo che per le controversie di minor valore.
Vi è un’abilitazione generale alla difesa tecnica per gli avvocati, i procuratori legali, i dottori commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali purché iscritti nei relativi albi; e un’abilitazione limitata alle materie di loro competenza per i consulenti del lavoro, gli ingegneri, gli architetti, i geometri, i periti edili, i dottori in agraria, gli agronomi e i periti commerciali, anch’essi se iscritti nei relativi albi.
Osservando questa norma, è curioso notare da un lato che il legislatore continua a ritenere che in larga misura le controversie tributarie si decidano su questioni tecniche, di stima e comunque di fatto; e a parte ciò, che comunque la norma sui difensori appare in definitiva più restrittiva rispetto a quella sui Giudici tributari, dando l’impressione che non sia stato colto appieno il nesso di interdipendenza fra l’uno e l’altro problema di cui poco sopra dicevo. Il raffronto, anzi, a ben vedere ancor più sottolinea la discutibilità delle scelte compiute a proposito del reclutamento dei Giudici tributari.
Sempre a proposito della difesa, due altre innovazioni dell’attuale riforma vanno salutate con vivo favore, e senz’altro annoverate fra le "luci" del nuovo processo tributario: il patrocinio dei non abbienti, disposto dall’art. 13 del Decreto n. 546/1992, chiaramente conseguenziale all’introduzione dell’obbligatorietà della difesa tecnica, e che soddisfa un’esigenza di alto valore sociale sulla quale non vi è bisogno di soffermarsi; e il patrocinio dell’Amministrazione finanziaria da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Su quest’ultimo punto, in passato, si era spezzata più di una lancia. E in particolare, vale la pena ricordare quel che scriveva sul punto la relazione accompagnatoria della proposta di legge n. 2838/1988, già sopra citata: "oggi il contenzioso è attivita' meramente residuale rispetto ad altri compiti reputati, dalla stessa Amministrazione finanziaria, piu' importanti e come tali oggetto, a differenza della cura del contenzioso, di impulso e controllo, sia qualitativo che quantitativo; conseguentemente vige il piu' totale disordine nella collazione delle pratiche per l'udienza e nello stesso riperimento delle carte; impera la piu' avvilente dequalificazione sia nell'estensione dei mezzi giurisdizionali di difesa, sia nel conferimento delle deleghe a rappresentare l’ufficio in udienza... la situazione si commenta da sola, e da sola riteniamo valga a evidenziare l’assoluta e inderogabile esigenza di affidare la difesa del rappresentante dell’Amministrazione a un ufficio che, in quanto specifico, abbia potere, mezzi e personale atti a fornire all’Erario una qualità di difesa pari a quella fornita dal professionista al suo cliente".
Parole forse un po’ forti, ma che toccavano un problema reale.
Ora la riforma prevede il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato come facoltativo. Ma vi è da sperare che, quando il nuovo processo tributario entrerà in vigore, di quella facoltà sia fatto uso; e ciò non solo per migliorare la qualità del processo, ma anche per un’altra e non meno importante ragione: come ogni difensore serio e professionale, l’Avvocatura dello Stato è certamente in grado di esercitare anche una funzione di "filtro" delle pretese, con grande vantaggio nella soluzione del perenne e assillante problema di deflazionare il contenzioso tributario, e di ridurlo a dimensioni più fisiologiche; più in generale, si potrebbe dire che quel "filtro" sarebbe un altro passo avanti verso la meta di un più corretto rapporto fra i cittadini e il Fisco.

UN SALUTARE RIPENSAMENTO DEL LEGISLATORE

A queste riflessioni sul Giudice e sul difensore tributario se ne dovrebbero aggiungere molte altre, su molteplici altri aspetti; ma lo spazio di questa relazione non lo consente.
E allora, per finire con una nota positiva, concluderò citando solo un’importante conquista: quella della recente abolizione (15) di quell’art. 73 del Decreto n. 546/1992 che, sulle orme del famigerato art. 44 del DPR n. 636/1972, (16) voleva onerare il ricorrente della cosiddetta "istanza di trattazione" del ricorso avanti alle nuove Commissioni, in un breve termine perentorio, e pena l’estinzione del processo.
Quella norma, purtroppo suggerita da un inciso della legge delega, (17) era stata investita da violente quanto sacrosante censure: perché nulla giustificava che il mutamento del rito dovesse far chiedere a chi già aveva espresso la sua volontà di ottenere giustizia una conferma di quella volontà, presumendo in caso contrario una sorta di tacita rinuncia; sicché, come già era avvenuto vent’anni prima, tornava ad affacciarsi il grave sospetto di essere di fronte a un espediente, assolutamente incivile, volto ad alleggerire e ridurre il contenzioso esistente.
Ma il legislatore, con un susseguente intervento, di tutto ciò si è reso conto, ed è tornato sui suoi passi: abrogando quella previsione, e stabilendo che i ricorsi avanti le "vecchie" Commissioni passeranno d’ufficio all’esame di quelle "nuove", allorquando esse entreranno in funzione. Di questo ravvedimento, va con viva soddisfazione dato atto al nostro legislatore; e non vi è che tributargli un meritato applauso.

NOTE

1) Contenuta nell’art. 30 della Legge 30 dicembre 1991 n. 413.
2) N. 545 e n. 546, entrambi del 31 dicembre 1992.
3) Con la Legge 26 novembre 1990 n. 353 che, si noti, portava il titolo di "provvedimenti urgenti per il processo civile".
4) Sull’argomento vanno in particolare citate le acute osservazioni di TESAURO, A proposito di riforma del contenzioso tributario, in Rass. trib. 1988, I, 433 sgg.
5) Nel suo fondamentale testo sul Diritto processuale tributario.
6) Contenuta nell’art. 24.
7) V. le sentenze 27 gennaio 1957 n. 12, 11 marzo 1957 n. 42, 30 dicembre 1958 n. 82, 13 luglio 1963 n. 132.
8) V. fra gli altri MAGNANI, La riforma del contenzioso tributario nel quadro della problematica sulla qualificazione delle Commissioni, in Dir. econ. 1970, 35.
9) V. lo stralcio riportato da MARONGIU in Dubbi sulla legittimità del nuovo contenzioso tributario, in Giur. comm. 1974, II, 758 sgg., alla nota 7.
10) V. ancora TESAURO, op. cit. alla nota 4.
11) Con le sentenze 24 novembre 1982 n. 196 e 16 dicembre 1982 n. 217, in Foro It. 1983, I, 534 sgg. con nota di PROTO PISANI.
12) Vedasi il commento di PROTO PISANI cit. alla nota che precede, e ivi i richiami di altri Autori.
13) Entrambe negli atti parlamentari della Camera dei deputati della decima legislatura.
14) V. l’accenno di GIULIANI nel commento al DL 26 settembre 1995 n. 403, in "Il Sole-24 Ore" del 17 novembre 1995.
15) Nell’ambito della revisione di tutta la disciplina transitoria del Decreto n. 546/1992, disposta dal DL n. 331/1993 convertito nella Legge 29 ottobre 1993 n. 427 e dal DL n. 477/1993 convertito nella Legge 2 gennaio 1994 n. 55.
16) Che era stato anch’esso discutibilmente "graziato" dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 20 dicembre 1982 n. 243.
17) V. il paragrafo t) dell’art. 30 della Legge n. 413/1991.