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Impresa & Stato N°32 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

LE POTENZIALITA' DELLE TECNOLOGIE NELLA MODIFICA DEI RAPPORTI CON LO STATO

di Giancarlo Lunati


DI FRONTE ALLE INNOVAZIONI tecnologiche ci sono sempre due rischi: di sopravvalutarle o di sottovalutarle. Questo è successo dai tempi dei motori a vapore o, più recentemente, dalla nascita dei calcolatori elettronici. Guardando oggi alle grandi organizzazioni, aziendali o statali, si possono commettere gli stessi errori.
L’esaltazione acritica delle nuove tecnologie informatiche ha già prodotto danni, la marginalizzazione dell’apporto intelligente dell’uomo, in primo piano. S’è prodotto una sorta di alibi nel giudicare l’importanza della risorsa umana, col ritenere la tecnica ben più determinante.
Questo processo di sostituzione nelle organizzazioni complesse non è mai avvenuto, né potrà mai avvenire.
Il plus dato dall’intelligenza umana si esprime in fantasia. Nessuna tecnologia lo possiede e qualunque tecnologia di fronte alla fantasia innovatrice è irrimediabilmente stupida. Perciò la scelta e la continua formazione degli uomini è e resta fondamentale.
L’altro errore, reciproco, è di minimizzare l’apporto tecnologico nelle organizzazioni sia private che pubbliche. Nel privato, tuttavia, alcune innovazioni sono arrivate rapidamente, costretti anche dalla necessità.
Il rischio di uscire dal mercato è più forte d’ogni pigrizia.
Nel pubblico tutto è più lento.
Il tema generale della riforma della Pubblica Amministrazione sovrasta ogni altra considerazione particolare, perché in cima a tutto c’è, o ci deve essere, un grande progetto innovativo, che trasformi procedure e risorse umane in funzione della nuova statualità. È irrilevante discutere di presidenzialismo all’americana o alla francese, se prima non si decide che tipo di Stato si vuole avere per il secolo futuro, che è già dietro l’angolo.
Lo Stato italiano è appesantito dalla filosofia della diffidenza, che ha creato una burocrazia elefantiaca, pignola sul particolare, lenta e inefficiente. Uomini e mezzi sono coerenti a questa vecchia e superata impostazione. Non che esistano eccellenti eccezioni, ma la regola è questa. Nei tempi recenti si è insistito su due tematiche: privatizzare tutto ciò che è possibile e portare nella organizzazione statale residua lo spirito della managerialità privata. Su entrambi i punti c’è bisogno di molta chiarezza, perché, ai fatti, di chiarezza ce n’è poca. Vi sono enti pubblici che possono tranquillamente essere privatizzati, in quantoché nulla spiega che una fabbrica di biscotti debba essere gestita dallo Stato. C’è una seconda categoria di enti che può essere pubblica e privata secondo le opportunità. Ospedali e scuole sono i primi esempi additati. Ma su questa categoria di enti è bene mantenere comunque una sorveglianza generale da parte dello Stato e il potere di indirizzo. La scuola è soprattutto un servizio pubblico, così come lo è la sanità.
Vi è una terza categoria di enti che non può essere in alcun modo privatizzata. Sono quegli enti pubblici che i tedeschi chiamano "Organträger", cioè portatori dell’essenza della statualità. E non è difficile individuarli fra le funzioni pubbliche centrali e fra quelle essenziali dell’Amministrazione periferica.
Se il primato della politica vuole essere esercitato esso si esprime e si compie nel progettare ininterrottamente migliori assetti di benessere per i cittadini e nell’avviarne la realizzazione.

PROGETTARE PER SOPRAVVIVERE

È in questo quadro di rinnovamento che si pone il problema del rapporto fra lo Stato e le imprese, fra gli uomini operanti sull’una e sull’altra area e incidenti tutti in quell’area comune che è l’innovazione tecnologica. Le identità devono sussistere accanto alle differenze. Nuove tecnologie e linguaggi comuni devono essere al servizio di categorie differenti di operatori.
In molti enti pubblici, organici al concetto medesimo di Stato, devono operare uomini dello Stato col senso dello Stato, senza alcun complesso di inferiorità nei confronti del manager privato. Ma tutti, privati e pubblici, aggiornati sui nuovi linguaggi e sulle nuove straordinarie opportunità offerte dalla tecnologia. Si è parlato recentemente della "Città invisibile", come spazio sociale telematico; s’è anche ipotizzata una società delle comunicazioni a così basso costo da avvicinarsi a tariffa zero. La spinta a una trasformazione radicale dei costumi e dei comportamenti sarebbe così forte da essere oggi difficilmente percepibile. Ci potrà essere un 20% di lavoratori a svolgere attività di telelavoro per alcuni giorni alla settimana, ci sarà un abbattimento del tempo dedicato alle riunioni, sostituite da videoconferenze. Le conseguenze saranno ovviamente molteplici: 10-15% di traffico automobilistico in meno; 20% di traffico aereo in meno. Si prevede una trasformazione urbanistica in funzione dei nuovi modi di lavorare, con proliferazione di centri sparsi lontani dalle città tradizionali. Il pendolo in tal caso oscillerà in direzione opposta all’attuale tendenza all’inurbamento e alla congestione di traffico ed edilizia nei vecchi centri storici. Anche la politica potrà cambiare, con l’ausilio di controlli diretti e continui dei cittadini sulle Pubbliche Amministrazioni.
Nella società dell’informazione l’intelligenza conoscitiva prende il posto delle materie prime e delle fonti energetiche attuali. Ma sulle autostrade informatiche potranno circolare veicoli in gran numero solo se ci saranno altrettanti piloti. Quindi si presenta indispensabile una nuova concezione della scuola e della formazione permanente. Questo scenario, tutt’altro che fantascientifico, apre un nuovo diffuso approccio all’impresa e agli affari. Il mercato si allargherà e si aprirà a tutti quelli che sapranno entrarvi. Sarà in difficoltà la logica dei monopoli, ma saranno anche in difficoltà coloro che per pigrizia o disinformazione rimarranno fuori dal gioco. L’Amministrazione Pubblica dovrà adeguarsi rapidamente; quella periferica in particolare che è sul campo a contatto diretto e quotidiano con gli utenti. Le Camere di Commercio potranno svolgere un ruolo primario, se saranno autonome e sostanzialmente autosufficienti. Ipotesi realistica perché i trasferimenti dello Stato nel 1991 erano già quasi scomparsi, mentre ancora nel 1986 il sistema camerale era sovvenzionato per circa la metà dalla finanza pubblica.
Con la Legge 580 del dicembre 1993 si sono ammesse ampie possibilità di progettare e gestire strutture atte alla promozione dell’attività imprenditoriale e complementari all’operatività dove essa è limitata o carente.
Lo Stato non deve infatti gestire enti economici produttivi, ma creare il tessuto più adatto perché gli enti privati crescano e si sviluppino. Si è già fatto molto da parte di enti camerali di grosso peso, ma il più è ancora da fare.
A monte di tutti questi discorsi c’è la formazione dei pubblici funzionari, ancora orientata al controllo di processo piuttosto che al controllo di prodotto, mancando in modo cospicuo la predisposizione alla promozione del risultato. Gli addetti del settore pubblico sono aumentati in Italia di più di un milione negli ultimi vent’anni, record percentuale assoluto nei Paesi della CEE. Ma come disse l’ex ministro Cassese: "Sono poche, nel mondo, le Amministrazioni Pubbliche nelle quali le leggi impongono in misura pari a quella italiana, il coordinamento. Ma sono poche le Amministrazioni Pubbliche nelle quali le amministrazioni siano meno coordinate che in Italia".
Ci attendono anni impegnativi: "Progettare per sopravvivere" era il titolo di un libro di un architetto americano, Richard Neutra, tradotto in Italia nel 1956. Già quarant’anni fa qualcuno capì che c’era poco tempo disponibile. Se in tempi di desiderato e sperato cambiamento, come sono gli attuali, è lecito chiedere di più, oggi ci sarebbe spazio per alzare la voce sulla spesso scarsa professionalità non solo dei politici, ma anche dei pubblici funzionari. È ritornata in campo la polemica sulla tecnocrazia e sui tecnici e perciò è bene parlarne.
La tecnologia modifica i rapporti fra la società reale, le imprese in primo piano, e lo Stato. Quindi ci si chiede se non sia poi così disdicevole tecnicizzare di più la Pubblica Amministrazione e di converso spoliticizzarla. Un governo tecnico che funzioni bene e ottenga risultati sarebbe preferibile a un governo politico rissoso e inefficiente. È un vecchio discorso condito di molti equivoci. Non esiste infatti uno stereotipo di politico fermo nel tempo. O piuttosto, se esiste, è nel negativo, nelle cattive abitudini e nella propensione alla corruzione. E non esiste uno stereotipo di burocrate prigioniero di leggi e regolamenti. Se il funzionario ha fantasia progettuale, deborda forse dai suoi compiti? E se il politico ha preparazione tecnica scende forse di livello?
La nuova statualità chiede una classe dirigente complessivamente diversa dall’attuale. Sarà possibile averla? Nel nostro inguaribile ottimismo pensiamo di sì, perché la forza delle cose lo imporrà, a meno di uscire dai mercati, dall’Europa, da ogni consorzio civile. Il tempo che abbiamo davanti è poco e la prospettiva di essere travolti esiste. Abbiamo minori speranze che sia l’amministrazione centrale il domus del rinnovamento, molte speranze invece che siano alcuni enti periferici, come le Camere di Commercio a farsi interpreti della necessità urgente di innovazioni ampie e profonde.
Gli enti camerali sono infatti tra i pochi enti pubblici a vivere in frontiera a contatto diretto e quotidiano con le imprese e con tutta l’effervescenza reale dei fattori economici in movimento e in sviluppo.