di Tiziano Treu
ADEGUARE LE RISORSE UMANE ALLE ESIGENZE DI MERCATO
La disciplina e la gestione del personale sono costruite per
svolgere compiti di uniamministrazione di altri tempi,
orientata a funzioni di autorita', non alle moderne esigenze
di creazione di servizi di massa; la formazione e'
prevalentemente giuridico formale; le procedure sono rigide e
"sospettose".
L'intera macchina amministrativa e' piu' incline a
interferire che a guidare le azioni dei privati e a
collaborare con queste per lo svolgimento di funzioni
sofisticate e mutevoli come la valorizzazione delle risorse
umane in un contesto di mercato turbolento.
Alcune carenze da correggere nel sistema giuridico
istituzionale sono particolarmente evidenti e riguardano lo
snodo fra scuola e lavoro che in Italia e' poco e male
presidiato, mentre tutti riconoscono che e' cruciale per il
buon funzionamento del mercato del lavoro. Non a caso le
aziende devono concentrare le loro energie proprio nel
formare i neoinseriti al lavoro, invece di dedicarsi
all'affiancamento e all'adattamento della qualita' degli
skills nel corso della vita di lavoro.
La nostra normativa, e ancora piu' la prassi applicativa,
fanno un cattivo uso di strumenti di transizione fra scuola e
lavoro come i centri di formazione e lavoro e
l'apprendistato. Il confronto con i Paesi vicini e'
disarmante, in particolare con Francia e Germania che
costituiscono punti di riferimento obbligati anche per questo
aspetto della regolazione del mercato del lavoro.
Come e' noto i due sistemi presentano modelli diversi. Quello
francese e' costruito su una pluralita' di strumenti che
presentano una modularita' e intensita' crescente dei
rapporti fra formazione e lavoro dal contratto di
orientation, avvicinabile al nostro stage, ma caratterizzato
come vero rapporto di lavoro per una prima breve (3-6 mesi)
esperienza in azienda; il contratto di adaptation di durata
ancora breve (6-12 mesi) rivolto ad adattare, con una
formazione mirata, la formazione del giovane all'impiego che
gli viene proposto; il contratto di qualificazione, a tempo
determinato piu' lungo (6-24 mesi) diretto a fornire ai
giovani (16-25 anni) senza adeguata qualificazione
professionale, una formazione specifica riconosciuta con
diploma tecnico e titolo certificato, tramite interventi
formativi esterni all'impresa (nella misura minima del 25%);
al contratto di apprendistato, di durata biennale o
triennale, a seconda del percorso professionale, che deve
essere realizzato parte in azienda e parte in centri
specializzati Cfa anche questo in misura variabile a seconda
del livello professionale perseguito.
L'ordinamento tedesco e' meno ricco di varianti tipologiche,
ma orientato a rafforzare e insieme a modulare l'integrazione
fra il sistema formativo scolastico e quello professionale
(cosiddetto sistema duale).La sua forza sta appunto in questa
integrazione flessibile fra i due sistemi di cui
l'apprendistato e' uno strumento essenziale. Esso fornisce
percorsi formativi di durata consistente (3-4 anni) paralleli
a quelli delle scuole professionali, precisamente
finalizzati, e che in certi casi possono addirittura aprire
la strada a corsi di istruzione superiore.
Al di la' delle diversita', questi ordinamenti confermano la
necessita' di introdurre i giovani nel mercato del lavoro
attraverso una molteplicita' di strumenti provvisti di
finalizzazione precisa e fortemente caratterizzata sul piano
formativo.
Nel caso italiano la molteplicita' esiste, ma e' piu' casuale
che finalizzata, mentre la formazione risulta l'anello debole
del sistema. La combinazione dei diversi tipi, in particolare
del contratto di formazione e lavoro e dell'apprendistato
finisce per essere fattore di dispersione piuttosto che di
selezione virtuosa; mentre gli effetti formativi restano
eventuali e deboli.
Occorre rivedere a fondo il rapporto fra formazione e lavoro,
tenendo conto delle esigenze complesse e quasi contrastanti
del mercato del lavoro odierno; da una parte l'esigenza di
una formazione di base generalista piu' elevata del passato;
dall'altra le esigenze di qualita' sia del lavoro sia della
produzione stimolata dalla concorrenza internazionale che
tocca anche l'artigianato; infine la variabilita' dei
contenuti della produzione e della professionalita' indotti
dalla mutevolezza dei mercati e dalla innovazione
tecnologica, per cui non sono piu' adatti gli schemi
rassicuranti del "mestiere" tradizionale.
Tutto cio' richiede forti correzioni sul versante del sistema
scolastico.La rigidita' degli strumenti normativi e ancora
piu' la incapacita' orientativa delle pubbliche
amministrazioni ostacolano lo sviluppo di iniziative
organiche nella formazione ricorrente e di forme di
collaborazione fra pubblico e privato che sono necessarie se
si vuole ottenere una piena efficacia degli interventi in
questiarea.Non e' che manchino esperienze avanzate di
collaborazione virtuosa fra pubblico e privato, come mostra
anche la ricerca; ma manca un vero e proprio sistema di
formazione continua coordinata e finalizzata, nonche' un
collegamento fra questa istruzione di base da una parte e il
mercato del lavoro dall'altra.
In particolare il sistema tedesco, come quello giapponese,
pur fra loro cosi' diversi, enfatizzano la necessita' di
superare una concezione separata dei due sistemi formativi,
quale e' ancora quella, da noi largamente rappresentata, che
vorrebbe delegare al sistema scolastico la produzione di
capacita' professionali e addestramento specifici separando
rigidamente formazione scolastica da formazione industriale,
affidata a scuole specializzate.
L'aumento dei bisogni di qualificazione professionale, la
loro diffusione e mutevolezza, richiedono il superamento
anche da noi di rigide separazioni funzionali fra le varie
istituzioni formative. Le forme di collaborazione praticabili
in Italia potranno essere diverse da quelle "organiche"
perseguite nei sistemi giapponese e tedesco, piu'
contrattuali e consortili; ma in ogni caso presuppongono un
terreno di ricerca comune delle istituzioni pubbliche e
dell'associazionismo privato.La riproduzione di
professionalita' diffuse nel mondo post-industriale
costituisce infatti non un "oggetto conflittuale" nei
rapporti sociali, ma un "bene collettivo": esso non puo'
essere lasciato ne' al monopolio dello Stato ne' alle
semplici regole del mercato "e quindi alla razionalita'
utilitaristica dei singoli attori, imprese e lavoratori".
Uno sviluppo qualitativo e quantitativo adeguato delle
capacita' professionali in quanto bene collettivo richiede
forme di collaborazione fra istituzioni pubbliche, imprese e
sindacati ai vari livelli centrali e decentrati, in cui la
pratica formativa si deve sviluppare.Un ostacolo grave a
uniutile azione pubblica in queste aree e' l'arcaicita' delle
nostre istituzioni del mercato del lavoro.
Sia in Francia, sia in Germania, l'assetto istituzionale del
mercato del lavoro e' orientato da tempo a funzioni di
governo e di servizio per la ottimizzazione dell'incontro fra
offerta e domanda di lavoro, non solo, ma e' strettamente
intrecciato a livello centrale e locale con le istituzioni
formative. Cosi' dovrebbe essere. Ma cosi' non e' nel caso
italiano.
La debolezza del nostro assetto istituzionale in questa
materia e' notorio. Esso pecca di rigidita', di
scoordinamento e di accentramento eccessivo.
UN CATTIVO UTILIZZODELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE
La sfasatura fra istituzioni, mercato del lavoro, istituzione
della formazione non trova riscontro in Europa, ed e' un
fattore che ha isterilito gran parte delle iniziative
formative delle regioni.Le risorse dedicate alla formazione
professionale nel nostro Paese devono essere utilizzate
meglio, prima ancora che incrementate.
Anche per noi vale il monito di Delors che occorre dirottare
risorse ora dirette al sostegno al reddito (Cig e sussidi di
disoccupazione) alle azioni di formazione specie per i
disoccupati di lungo periodo e per i giovani con scarsa
qualificazione; ma cio' presuppone appunto una stretta
integrazione funzionale fra istituzioni formative e governo
del mercato del lavoro.
La maggior parte delle istituzioni italiane invece sono
organizzate per compiti burocratici e di erogazione di
incentivi piuttosto che di servizio.Il grado di accentramento
nazionale e' tale da soffocare iniziative mirate ai diversi
mercati locali e alle professionalita' da questi richiesti,
precludendo la nascita e diffusione di esperienze innovative.
Se non si correggono questi vizi fondamentali di impostazione
ne' la riforma della normativa del rapporto di lavoro e
neppure uniaccentuata flessibilita' del mercato puo' bastare
a ottimizzare l'uso dell'apprendistato ai fini indicati.
Senza una revisione profonda e un decentramento effettivo
delle istituzioni formative e del mercato del lavoro l'Italia
non riuscira' neppure a beneficare delle iniziative crescenti
della comunita' rivolte a sviluppare la dimensione europea
della istruzione, con la creazione di un mercato europeo
delle qualifiche, con la promozione della mobilita' degli
studenti e degli insegnanti, con il potenziamento dei sistemi
di insegnamento a distanza.
I progetti discussi dal passato governo per la revisione
delle strutture del Ministero del Lavoro avevano indicato
soluzioni possibili, anche se "caute"; ma neppure queste
hanno avuto seguito.
Occorre procedere a un decentramento istituzionale, non solo
burocratico-amministrativo, della gestione del mercato del
lavoro che ne preveda una vera regionalizzazione.Una simile
alternativa e' presente nel dibattito politico neo-
regionalista, e nelle ipotesi avanzate dalla Commissione
bilaterale, prima di sciogliersi. Essa non richiederebbe
necessariamente una revisione dell'art. 117 della
Costituzione, essendo sufficiente che lo Stato deleghi alle
Regioni i suoi poteri in materia di politiche del lavoro
(mantenendo solo una funzione di compensazione delle risorse
per equilibrare gli squilibri fra territori).
Secondo le proposte avanzate in seno alla Commissione
bicamerale per le risorse istituzionali, la revisione
potrebbe venire realizzata anche in maniera progressiva e
modulare, ipotizzando cioe' un trasferimento dei poteri alle
Regioni attuato gradualmente, a seguito di negoziazione fra
Stato e Regioni.
La regionalizzazione dei poteri e delle strutture potrebbe
essere quindi attuata immediatamente per alcune Regioni e
posposta nel tempo per altre, a seconda della situazione
concreta delle singole aree e della capacita' di queste di
gestire adeguatamente le funzioni trasferite. Naturalmente in
questa regionalizzazione modulare il trasferimento delle
funzioni dovrebbe andare di pari passo con quello delle
risorse e con l'adattamento delle strutture.
L'adozione di una "regionalizzazione a geometria variabile",
gia' sperimentata in altri Paesi, come la Spagna, potrebbe
attutire molte delle preoccupazioni oggi sollevate di
soluzioni piu' radicali. Soddisferebbe la domanda di
regionalizzazione, ma terrebbe conto della diversita' e delle
condizioni regionali, circa i bisogni e le capacita' di
risposta istituzionale, che in Italia e' particolarmente
acuta; permetterebbe ad alcune aree, specie del Mezzogiorno e
dello stesso Ministero di valutare costi e convenienze di
questa opzione, se del caso rinviandola nel tempo. Si
tratterebbe di una scelta flessibile da controllare e che
potrebbe essere adattata a seconda dell'esperienza.
Questa soluzione permetterebbe di perseguire meglio quello
che e' l'obiettivo piu' difficile delle attuali politiche
attive del lavoro: ottimizzare la capacita' di risposta delle
istituzioni alle esigenze specifiche dei singoli mercati del
lavoro, che costituisce oggi un requisito essenziale per il
successo delle strategie occupazionali.
MIGLIORARE IL RUOLODEL PUBBLICO NELL'ECONOMIA
Una condizione essenziale perche' si possa procedere nelle
direzioni indicate e' il miglioramento del funzionamento
della macchina pubblica, a cominciare dal suo personale che
ne e' il motore essenziale. Nessuna riforma istituzionale
puo' operare se non si gestisce in modo piu' flessibile ed
efficiente il pubblico impiego.
Da questo punto di vista la riforma attuata dal decreto 29
del 1993 cosiddetto di privatizzazione del pubblico impiego
e' una precondizione necessaria per (quasi) tutte le
operazioni che si prospettano di migliore finalizzazione e
valorizzazione del ruolo del pubblico nell'economia.Questo e'
vero in generale e ha un riscontro nelle materie specifiche
della formazione professionale e del governo del mercato del
lavoro.Il personale del Ministero del Lavoro e gli operatori
regionali della formazione professionale sono ancora troppo
lontani da un grado soddisfacente di operativita' per poter
guidare gli strumenti loro affidati ai fini di uno sviluppo
delle risorse umane richiesto dal Paese.
Le linee di "privatizzazione" indicate dal decreto 29 vanno
nella direzione giusta. Ma persistono ancora ostacoli
formidabili che si stanno tutte riscontrando nella fase
applicativa. Ne sottolineo tre: la presenza di normative
rigide, stratificate da decenni, che costituiscono una vera
giungla; una incrostazione di prassi gestionali e sindacali
poco responsabili e spesso collusive; una diseducazione dei
dirigenti ad assumersi responsabilita' gestionali (esercitate
in modo indebito dai politici).
Un ruolo decisivo, per superare questi ostacoli e attivare le
linee segnate dal decreto 29 spetta alla contrattazione
collettiva.I primi contratti siglati, in particolare quello
degli Enti locali, danno alcuni significativi contributi in
tal senso. Un valore particolare ha la previsione di sistemi
retributivi incentivanti, che tendono a rovesciare l'attuale
struttura salariale appiattita e demotivante.
L'obiettivo e' di legare una parte consistente della
retribuzione a progetti di produttivita' e qualita'; questo
e' un modo potenzialmente rilevante, anche se non l'unico,
per orientare il personale pubblico alla cultura del progetto
e del risultato.In materia di inquadramento e gestione del
personale in generale si e' proceduto con cautela e in modo
sperimentale; ma anche qui con l'obiettivo di favorire un
impiego dei dipendenti piu' flessibile e quindi piu' capace
di adeguarsi ai bisogni degli utenti.
Si e' previsto il riaccorpamento delle mansioni ora troppo
frammentate e la sperimentazione di percorsi di carriera
interni. Si e' valorizzato l'utilizzo di forme flessibili di
lavoro, come il contratto a termine e il part-time, oggi
pochissimo utilizzati nella pubblica amministrazione. Si e'
dato piu' spazio al decentramento contrattuale, che e'
necessario negli Enti locali e costituisce un ingrediente
essenziale per ogni forma di intervento pubblico aderente
alle esigenze dei mercati locali.Infine si e' iniziata
l'opera immane, e che dovra' continuare, di semplificazione
della normativa pubblicistica pregressa che in molte parti
ostacola una gestione flessibile del pubblico impiego,
operando per un suo avvicinamento alle regole vigenti nei
settori privati.Sono scelte iniziali. Molto dipendera' dalla
loro applicazione.
Piu' che mai in materia di gestione del personale i
cambiamenti richiesti non sono solo normativi ne'
contrattuali, ma vanno al fondo delle prassi e delle culture.
La sfida che si pone a tutto il sistema pubblico, non solo
nell'area qui considerata, e a chi vi opera e' di acquisire
prassi e culture adatte a servire ai bisogni sociali, in modo
intelligente e selettivo cooperando con gli attori privati
individuali e collettivi.
NOTE
1)-A. Colombo, I. Regalia, Lombardia: selettivita' e
creativita' degli interventi formativi, Ires Lombardia,
Milano, 1994.