Impresa & Stato N°28 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

I BISOGNI DI FORMAZIONE E I COMPITI DELL'ENTE PUBBLICO

di Tiziano Treu


La ricerca sullo sviluppo delle risorse umane nelle regioni forti d'Europa conferma e specifica la criticita' del ruolo del pubblico anche in questo settore del sociale.La criticita' risulta tanto piu' significativa in quanto risulta dall'analisi condotta su una regione come la Lombardia che dovrebbe essere "forte", relativamente al contesto italiano anche dal punto di vista istituzionale.
Mi riferisco in particolare ai governi locali, alle istituzioni piu' direttamente coinvolte nel tema in questione cioe' quello della formazione professionale e del mercato del lavoro. Ma altrettanto puo' dirsi delle istituzioni della societa' civile, cioe' delle associazioni dei ceti produttivi e sindacali, nonche' delle forme istituzionali miste di privato-pubblico.
Mi interessa qui sottolineare come la ricerca confermi una serie di bisogni e carenze che chiamano in causa quasi tutte il ruolo del pubblico. Mi riferisco in particolare alla formazione, perche' condivido l'idea che in contesti cosi' dinamici, diversificati ed esposti come quello lombardo la formazione giochi oggi il ruolo critico, anche relativamente ad altri fattori come la innovazione tecnologica (decisiva nel decennio passato). Ebbene emerge palese l'esigenza del sistema produttivo di beneficiare di crescenti investimenti formativi sia di base sia continui o ricorrenti nel tempo per far fronte alla competizione internazionale.
Le specificazioni degli autori della ricerca che indicano la compresenza di diversi tipi di imprese (produzione diversificata di qualita', produzione di massa flessibile, specializzazione flessibile, neo-fordismo) e quindi di diverse richieste di qualificazione nella manodopera sono importanti, ma non tolgono che la tendenza sia in questo senso.In tutti i casi cresce il bisogno di risorse umane con maggiori conoscenze di base, con maggiore adattabilita' e flessibilita'. Nei primi tre tipi di impresa (tutti molto presenti in Lombardia) cresce l'esigenza di personale ad alta qualificazione.
La ricerca sottolinea anche giustamente che le aziende non possono (neppure quelle grandi) rispondere da sole a queste esigenze, per quanto si concentrino sul loro mercato interno: non riescono a far fronte alla varieta' di competenze richieste, ben diverse da quelle che le imprese si sono abituate a costruire al proprio interno.Dall'altra parte l'esperienza segnala sfasature di fondo rispetto alle risposte che il sistema pubblico offre a queste domande sociali che vengono, sia pure in modo diverso da tutte le imprese.
La prima sfasatura e' forse la piu' grave; si tratta della tendenza a far prevalere una concezione dell'offerta formativa troppo meccanicistica e standardizzata rispetto alle esigenze, nonche' una visione assistenzialistica della formazione professionale intesa come ammortizzatore sociale piu' che come investimento.
Il nostro non e' un sistema formativo snello e minimo; e' di norma quantitativamente consistente, ma di qualita' scadente e sfasato rispetto ai bisogni.In secondo luogo e piu' specificamente si denuncia l'orientamento prevalente a una formazione di stampo piu' propriamente scolastico, o comunque di primo livello, rispetto a una formazione e a un addestramento di secondo livello e di tipo continuo, ricorrente. Esiste una separazione temporale e istituzionale tra apprendimento e applicazione della qualificazione e delle competenze acquisite: il sistema istituzionale della formazione professionale e' infatti privo di meccanismi di formazione on-the-job.Infine, e in generale, si sottolinea la eccessiva focalizzazione delle pubbliche amministrazioni, a cominciare dalle Regioni, sulle funzioni gestionali a scapito di quelle di progettazione, valutazione e controllo.
In tal modo le istituzioni locali vengono meno proprio a un compito essenziale, che pare particolarmente urgente in un contesto vitale e policentrico come quello Lombardo: il compito di coordinamento e di regia, nonche' quello della indicazione di standard e di regole certe cui gli attori privati possano fare riferimento.Orbene queste denuncie rappresentano in modo significativo carenze dell'azione pubblica che vanno oltre l'area della formazione professionale, perche' si ritrovano in quasi tutti gli altri aspetti dell'intervento pubblico in area sociale ed economica.
Tutto il nostro sistema pubblico e' orientato in questo senso. Il diritto del lavoro e' piu' assistenziale-protettivo che non promozionale o premiale, cioe' capace di guidare le scelte private, valorizzando le best practices e disincentivando quelle devianti. La finalita' e la organizzazione delle istituzioni pubbliche sono costruite per interferire con le attivita' private o per sostituirsi a esse invece che per orientarle a dettare standard, certificarne e controllarne i risultati. Cio' e' vero per le istituzioni statali, ma si e' riprodotto anche in quelle decentrate, comprese quelle regionali e locali, che sono modellate su quelle centrali.

ADEGUARE LE RISORSE UMANE ALLE ESIGENZE DI MERCATO
La disciplina e la gestione del personale sono costruite per svolgere compiti di uniamministrazione di altri tempi, orientata a funzioni di autorita', non alle moderne esigenze di creazione di servizi di massa; la formazione e' prevalentemente giuridico formale; le procedure sono rigide e "sospettose".
L'intera macchina amministrativa e' piu' incline a interferire che a guidare le azioni dei privati e a collaborare con queste per lo svolgimento di funzioni sofisticate e mutevoli come la valorizzazione delle risorse umane in un contesto di mercato turbolento.
Alcune carenze da correggere nel sistema giuridico istituzionale sono particolarmente evidenti e riguardano lo snodo fra scuola e lavoro che in Italia e' poco e male presidiato, mentre tutti riconoscono che e' cruciale per il buon funzionamento del mercato del lavoro. Non a caso le aziende devono concentrare le loro energie proprio nel formare i neoinseriti al lavoro, invece di dedicarsi all'affiancamento e all'adattamento della qualita' degli skills nel corso della vita di lavoro.
La nostra normativa, e ancora piu' la prassi applicativa, fanno un cattivo uso di strumenti di transizione fra scuola e lavoro come i centri di formazione e lavoro e l'apprendistato. Il confronto con i Paesi vicini e' disarmante, in particolare con Francia e Germania che costituiscono punti di riferimento obbligati anche per questo aspetto della regolazione del mercato del lavoro.
Come e' noto i due sistemi presentano modelli diversi. Quello francese e' costruito su una pluralita' di strumenti che presentano una modularita' e intensita' crescente dei rapporti fra formazione e lavoro dal contratto di orientation, avvicinabile al nostro stage, ma caratterizzato come vero rapporto di lavoro per una prima breve (3-6 mesi) esperienza in azienda; il contratto di adaptation di durata ancora breve (6-12 mesi) rivolto ad adattare, con una formazione mirata, la formazione del giovane all'impiego che gli viene proposto; il contratto di qualificazione, a tempo determinato piu' lungo (6-24 mesi) diretto a fornire ai giovani (16-25 anni) senza adeguata qualificazione professionale, una formazione specifica riconosciuta con diploma tecnico e titolo certificato, tramite interventi formativi esterni all'impresa (nella misura minima del 25%); al contratto di apprendistato, di durata biennale o triennale, a seconda del percorso professionale, che deve essere realizzato parte in azienda e parte in centri specializzati Cfa anche questo in misura variabile a seconda del livello professionale perseguito.
L'ordinamento tedesco e' meno ricco di varianti tipologiche, ma orientato a rafforzare e insieme a modulare l'integrazione fra il sistema formativo scolastico e quello professionale (cosiddetto sistema duale).La sua forza sta appunto in questa integrazione flessibile fra i due sistemi di cui l'apprendistato e' uno strumento essenziale. Esso fornisce percorsi formativi di durata consistente (3-4 anni) paralleli a quelli delle scuole professionali, precisamente finalizzati, e che in certi casi possono addirittura aprire la strada a corsi di istruzione superiore.
Al di la' delle diversita', questi ordinamenti confermano la necessita' di introdurre i giovani nel mercato del lavoro attraverso una molteplicita' di strumenti provvisti di finalizzazione precisa e fortemente caratterizzata sul piano formativo.
Nel caso italiano la molteplicita' esiste, ma e' piu' casuale che finalizzata, mentre la formazione risulta l'anello debole del sistema. La combinazione dei diversi tipi, in particolare del contratto di formazione e lavoro e dell'apprendistato finisce per essere fattore di dispersione piuttosto che di selezione virtuosa; mentre gli effetti formativi restano eventuali e deboli.
Occorre rivedere a fondo il rapporto fra formazione e lavoro, tenendo conto delle esigenze complesse e quasi contrastanti del mercato del lavoro odierno; da una parte l'esigenza di una formazione di base generalista piu' elevata del passato; dall'altra le esigenze di qualita' sia del lavoro sia della produzione stimolata dalla concorrenza internazionale che tocca anche l'artigianato; infine la variabilita' dei contenuti della produzione e della professionalita' indotti dalla mutevolezza dei mercati e dalla innovazione tecnologica, per cui non sono piu' adatti gli schemi rassicuranti del "mestiere" tradizionale.
Tutto cio' richiede forti correzioni sul versante del sistema scolastico.La rigidita' degli strumenti normativi e ancora piu' la incapacita' orientativa delle pubbliche amministrazioni ostacolano lo sviluppo di iniziative organiche nella formazione ricorrente e di forme di collaborazione fra pubblico e privato che sono necessarie se si vuole ottenere una piena efficacia degli interventi in questiarea.Non e' che manchino esperienze avanzate di collaborazione virtuosa fra pubblico e privato, come mostra anche la ricerca; ma manca un vero e proprio sistema di formazione continua coordinata e finalizzata, nonche' un collegamento fra questa istruzione di base da una parte e il mercato del lavoro dall'altra.
In particolare il sistema tedesco, come quello giapponese, pur fra loro cosi' diversi, enfatizzano la necessita' di superare una concezione separata dei due sistemi formativi, quale e' ancora quella, da noi largamente rappresentata, che vorrebbe delegare al sistema scolastico la produzione di capacita' professionali e addestramento specifici separando rigidamente formazione scolastica da formazione industriale, affidata a scuole specializzate.
L'aumento dei bisogni di qualificazione professionale, la loro diffusione e mutevolezza, richiedono il superamento anche da noi di rigide separazioni funzionali fra le varie istituzioni formative. Le forme di collaborazione praticabili in Italia potranno essere diverse da quelle "organiche" perseguite nei sistemi giapponese e tedesco, piu' contrattuali e consortili; ma in ogni caso presuppongono un terreno di ricerca comune delle istituzioni pubbliche e dell'associazionismo privato.La riproduzione di professionalita' diffuse nel mondo post-industriale costituisce infatti non un "oggetto conflittuale" nei rapporti sociali, ma un "bene collettivo": esso non puo' essere lasciato ne' al monopolio dello Stato ne' alle semplici regole del mercato "e quindi alla razionalita' utilitaristica dei singoli attori, imprese e lavoratori". Uno sviluppo qualitativo e quantitativo adeguato delle capacita' professionali in quanto bene collettivo richiede forme di collaborazione fra istituzioni pubbliche, imprese e sindacati ai vari livelli centrali e decentrati, in cui la pratica formativa si deve sviluppare.Un ostacolo grave a uniutile azione pubblica in queste aree e' l'arcaicita' delle nostre istituzioni del mercato del lavoro.
Sia in Francia, sia in Germania, l'assetto istituzionale del mercato del lavoro e' orientato da tempo a funzioni di governo e di servizio per la ottimizzazione dell'incontro fra offerta e domanda di lavoro, non solo, ma e' strettamente intrecciato a livello centrale e locale con le istituzioni formative. Cosi' dovrebbe essere. Ma cosi' non e' nel caso italiano.
La debolezza del nostro assetto istituzionale in questa materia e' notorio. Esso pecca di rigidita', di scoordinamento e di accentramento eccessivo.

UN CATTIVO UTILIZZODELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE
La sfasatura fra istituzioni, mercato del lavoro, istituzione della formazione non trova riscontro in Europa, ed e' un fattore che ha isterilito gran parte delle iniziative formative delle regioni.Le risorse dedicate alla formazione professionale nel nostro Paese devono essere utilizzate meglio, prima ancora che incrementate.
Anche per noi vale il monito di Delors che occorre dirottare risorse ora dirette al sostegno al reddito (Cig e sussidi di disoccupazione) alle azioni di formazione specie per i disoccupati di lungo periodo e per i giovani con scarsa qualificazione; ma cio' presuppone appunto una stretta integrazione funzionale fra istituzioni formative e governo del mercato del lavoro.
La maggior parte delle istituzioni italiane invece sono organizzate per compiti burocratici e di erogazione di incentivi piuttosto che di servizio.Il grado di accentramento nazionale e' tale da soffocare iniziative mirate ai diversi mercati locali e alle professionalita' da questi richiesti, precludendo la nascita e diffusione di esperienze innovative.
Se non si correggono questi vizi fondamentali di impostazione ne' la riforma della normativa del rapporto di lavoro e neppure uniaccentuata flessibilita' del mercato puo' bastare a ottimizzare l'uso dell'apprendistato ai fini indicati.
Senza una revisione profonda e un decentramento effettivo delle istituzioni formative e del mercato del lavoro l'Italia non riuscira' neppure a beneficare delle iniziative crescenti della comunita' rivolte a sviluppare la dimensione europea della istruzione, con la creazione di un mercato europeo delle qualifiche, con la promozione della mobilita' degli studenti e degli insegnanti, con il potenziamento dei sistemi di insegnamento a distanza.
I progetti discussi dal passato governo per la revisione delle strutture del Ministero del Lavoro avevano indicato soluzioni possibili, anche se "caute"; ma neppure queste hanno avuto seguito.
Occorre procedere a un decentramento istituzionale, non solo burocratico-amministrativo, della gestione del mercato del lavoro che ne preveda una vera regionalizzazione.Una simile alternativa e' presente nel dibattito politico neo- regionalista, e nelle ipotesi avanzate dalla Commissione bilaterale, prima di sciogliersi. Essa non richiederebbe necessariamente una revisione dell'art. 117 della Costituzione, essendo sufficiente che lo Stato deleghi alle Regioni i suoi poteri in materia di politiche del lavoro (mantenendo solo una funzione di compensazione delle risorse per equilibrare gli squilibri fra territori).
Secondo le proposte avanzate in seno alla Commissione bicamerale per le risorse istituzionali, la revisione potrebbe venire realizzata anche in maniera progressiva e modulare, ipotizzando cioe' un trasferimento dei poteri alle Regioni attuato gradualmente, a seguito di negoziazione fra Stato e Regioni.
La regionalizzazione dei poteri e delle strutture potrebbe essere quindi attuata immediatamente per alcune Regioni e posposta nel tempo per altre, a seconda della situazione concreta delle singole aree e della capacita' di queste di gestire adeguatamente le funzioni trasferite. Naturalmente in questa regionalizzazione modulare il trasferimento delle funzioni dovrebbe andare di pari passo con quello delle risorse e con l'adattamento delle strutture.
L'adozione di una "regionalizzazione a geometria variabile", gia' sperimentata in altri Paesi, come la Spagna, potrebbe attutire molte delle preoccupazioni oggi sollevate di soluzioni piu' radicali. Soddisferebbe la domanda di regionalizzazione, ma terrebbe conto della diversita' e delle condizioni regionali, circa i bisogni e le capacita' di risposta istituzionale, che in Italia e' particolarmente acuta; permetterebbe ad alcune aree, specie del Mezzogiorno e dello stesso Ministero di valutare costi e convenienze di questa opzione, se del caso rinviandola nel tempo. Si tratterebbe di una scelta flessibile da controllare e che potrebbe essere adattata a seconda dell'esperienza. Questa soluzione permetterebbe di perseguire meglio quello che e' l'obiettivo piu' difficile delle attuali politiche attive del lavoro: ottimizzare la capacita' di risposta delle istituzioni alle esigenze specifiche dei singoli mercati del lavoro, che costituisce oggi un requisito essenziale per il successo delle strategie occupazionali.

MIGLIORARE IL RUOLODEL PUBBLICO NELL'ECONOMIA
Una condizione essenziale perche' si possa procedere nelle direzioni indicate e' il miglioramento del funzionamento della macchina pubblica, a cominciare dal suo personale che ne e' il motore essenziale. Nessuna riforma istituzionale puo' operare se non si gestisce in modo piu' flessibile ed efficiente il pubblico impiego.
Da questo punto di vista la riforma attuata dal decreto 29 del 1993 cosiddetto di privatizzazione del pubblico impiego e' una precondizione necessaria per (quasi) tutte le operazioni che si prospettano di migliore finalizzazione e valorizzazione del ruolo del pubblico nell'economia.Questo e' vero in generale e ha un riscontro nelle materie specifiche della formazione professionale e del governo del mercato del lavoro.Il personale del Ministero del Lavoro e gli operatori regionali della formazione professionale sono ancora troppo lontani da un grado soddisfacente di operativita' per poter guidare gli strumenti loro affidati ai fini di uno sviluppo delle risorse umane richiesto dal Paese.
Le linee di "privatizzazione" indicate dal decreto 29 vanno nella direzione giusta. Ma persistono ancora ostacoli formidabili che si stanno tutte riscontrando nella fase applicativa. Ne sottolineo tre: la presenza di normative rigide, stratificate da decenni, che costituiscono una vera giungla; una incrostazione di prassi gestionali e sindacali poco responsabili e spesso collusive; una diseducazione dei dirigenti ad assumersi responsabilita' gestionali (esercitate in modo indebito dai politici).
Un ruolo decisivo, per superare questi ostacoli e attivare le linee segnate dal decreto 29 spetta alla contrattazione collettiva.I primi contratti siglati, in particolare quello degli Enti locali, danno alcuni significativi contributi in tal senso. Un valore particolare ha la previsione di sistemi retributivi incentivanti, che tendono a rovesciare l'attuale struttura salariale appiattita e demotivante.
L'obiettivo e' di legare una parte consistente della retribuzione a progetti di produttivita' e qualita'; questo e' un modo potenzialmente rilevante, anche se non l'unico, per orientare il personale pubblico alla cultura del progetto e del risultato.In materia di inquadramento e gestione del personale in generale si e' proceduto con cautela e in modo sperimentale; ma anche qui con l'obiettivo di favorire un impiego dei dipendenti piu' flessibile e quindi piu' capace di adeguarsi ai bisogni degli utenti.
Si e' previsto il riaccorpamento delle mansioni ora troppo frammentate e la sperimentazione di percorsi di carriera interni. Si e' valorizzato l'utilizzo di forme flessibili di lavoro, come il contratto a termine e il part-time, oggi pochissimo utilizzati nella pubblica amministrazione. Si e' dato piu' spazio al decentramento contrattuale, che e' necessario negli Enti locali e costituisce un ingrediente essenziale per ogni forma di intervento pubblico aderente alle esigenze dei mercati locali.Infine si e' iniziata l'opera immane, e che dovra' continuare, di semplificazione della normativa pubblicistica pregressa che in molte parti ostacola una gestione flessibile del pubblico impiego, operando per un suo avvicinamento alle regole vigenti nei settori privati.Sono scelte iniziali. Molto dipendera' dalla loro applicazione.
Piu' che mai in materia di gestione del personale i cambiamenti richiesti non sono solo normativi ne' contrattuali, ma vanno al fondo delle prassi e delle culture.
La sfida che si pone a tutto il sistema pubblico, non solo nell'area qui considerata, e a chi vi opera e' di acquisire prassi e culture adatte a servire ai bisogni sociali, in modo intelligente e selettivo cooperando con gli attori privati individuali e collettivi.
NOTE
1)-A. Colombo, I. Regalia, Lombardia: selettivita' e creativita' degli interventi formativi, Ires Lombardia, Milano, 1994.