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Rivista della Camera di Commercio di Milano - N28
di Marino Regini
Gli assunti arbitrari del dibattito attuale
Se la ricetta di investire in capitale umano e di puntare a una
qualificazione piu' elevata della forza lavoro, non gia' per
realizzare piu' ampi diritti di cittadinanza bensi' per combattere
la disoccupazione, fosse stata avanzata nell'epoca "fordista",
sarebbe stata subito respinta come un'assurda utopia (questo e'
stato in effetti il destino di proposte quali quelle della Svimez
negli anni Sessanta in Italia).
In quel periodo, le imprese richiedevano infatti, per la
stragrande maggioranza, personale non qualificato per svolgere
mansioni ripetitive, ed erano molto restie ad assumere manodopera
istruita, che avrebbe probabilmente accumulato frustrazioni nei
confronti del lavoro o richiesto riconoscimenti retributivi e di
qualifica per le proprie competenze non utilizzate.
L'assunto implicito che oggi la domanda di lavoro sia radicalmente
mutata rispetto a quella fase, e che le imprese, industriali o
terziarie, abbiano sempre piu' bisogno di personale altamente
qualificato e quindi con un livello di formazione elevato, si basa
sull'idea che la crisi del fordismo abbia portato a una
traiettoria convergente dei sistemi post-fordisti; una traiettoria
nella quale le "risorse umane" sono diventate un fattore cruciale
della competitivita' aziendale (lo stesso uso di tale termine al
posto di quelli tradizionali di forza lavoro o di manodopera e'
del resto strettamente legato a quell'idea).
L'implicazione e' che piu' la forza lavoro e' addestrata,
qualificata e coinvolta nell'impresa, migliore sara' la
performance dell'impresa stessa. Per questo motivo le aziende
tenderebbero sempre piu' ad assumere personale con queste
caratteristiche e a disfarsi invece della manodopera a bassa
qualificazione.
Un assunto analogo e' riscontrabile in molte concezioni della
crescente terziarizzazione dell'economia, secondo le quali alla
terziarizzazione sarebbe connesso un aumento della qualificazione
della forza lavoro. Proprio per il settore dei servizi, tuttavia,
alcune analisi comparative hanno avanzato dubbi sulla fondatezza
di quella tesi.
Sia quando l'espansione dell'occupazione terziaria si ha nel
settore privato, come negli Usa, sia quando avviene nel settore
pubblico, come in Svezia, la maggior parte dei posti di lavoro
creati sono infatti a bassa qualificazione (Esping-Andersen 1990).
Per cia' che riguarda il settore industriale, invece, vi e' stata
maggiore confusione e anche maggiore ideologia sull'impatto
positivo dei sistemi post-fordisti sulla qualificazione
complessiva, nonostante le ricerche piu' serie delineassero un
quadro complesso (Kern e Schumann 1991).
Come mostrera' piu' avanti, tuttavia, si possono distinguere
diversi tipi di sistemi produttivi post-fordisti, ciascuno dei
quali richiede caratteristiche e competenze diverse alla forza
lavoro, e ciascuno dei quali implica modelli di utilizzazione
delle risorse umane assai differenti.
Il secondo assunto parzialmente arbitrario e' che un maggiore
investimento in formazione e istruzione produca di per se'
l'effetto atteso di rendere piu' adeguata l'offerta di risorse
umane.
Questo assunto si basa su due convinzioni contraddittorie.
Da un lato, vi e' l'idea che sia sufficiente allocare una maggiore
percentuale del Pil alla formazione e all'istruzione - o
costringere le imprese a investire in esse una certa percentuale
della massa salariale, come in Francia - per ottenere un'offerta
piu' adeguata di personale qualificato, indipendentemente dal tipo
di istituzioni che svolgono le funzioni formative ed educative,
dai loro obiettivi, destinatari eccetera.
Dall'altro, vi e' una tendenza sempre piu' diffusa all'imitazione
istituzionale, cioe' la convinzione che si possano e si debbano
semplicemente copiare le istituzioni formative che appaiono piu'
efficienti (il recente dibattito in due Paesi cosi' diversi fra
loro come la Spagna e la Svezia sull'opportunita' di imitare il
sistema duale di apprendistato tedesco costituisce un buon esempio
di tale convinzione).
I risultati della ricerca qui presentata dimostrano invece con
chiarezza che, se non e' vero che qualunque investimento in
capitale umano produce risorse umane adeguate, non e' vero neppure
che esista un sistema di istruzione e formazione piu' efficiente
in tutte le situazioni, e quindi semplicemente da imitare.
A parte l'impossibilita' di scegliere a' la carte istituzioni che
sono radicate in una particolare struttura sociale e in una rete
di inter-relazioni con altre istituzioni, il problema e' che
l'efficienza di un sistema formativo ed educativo e' sempre
relativa, essendo connessa al tipo di vantaggi competitivi di cui
dispone il sistema economico che gli corrisponde, e alle strategie
di mercato che le imprese in esso operanti possono e vogliono
perseguire.
Gli assunti arbitrari del dibattito politico sulla disoccupazione
appena ricordati derivano in larga misura da corrispondenti
ipotesi diffuse nel dibattito scientifico. Si tratta di ipotesi,
spesso attraenti ma altrettanto fuorvianti, che prevalgono sia in
filoni di letteratura specialistici quali quelli sui nuovi regimi
produttivi e sui sistemi formativi rispettivamente, sia nel
dibattito teorico sul ruolo delle istituzioni nella performance
economica.
Pur non essendo questa la sede per discutere tali assunti, si pua'
comunque notare che essi hanno in qualche modo a che fare con
un'attenzione eccessiva agli aspetti di convergenza (convergenza
verso un unico modello di produzione post-fordista; invito alla
convergenza - nel senso di invito alla imitazione - verso un tipo
di sistema formativo piu' efficiente) anziche' alla varieta' delle
soluzioni possibili, agli equivalenti funzionali, e cosi' via
(Regini 1991).
Un esempio di tale tendenza e' il dibattito fra studiosi quali
Streeck (1992), Piore e Sabel (1984), Boyer (1988), Kern e
Schumann (1991), che ha come oggetto del contendere quale sia il
modo piu' adeguato di concettualizzare il regime di produzione
emerso dalla crisi del fordismo, anziche' riconoscere che ve ne
sono varieta' diverse. O, ancora, il fatto che studiosi quali
Finegold e Soskice (1988), Dore (1990) e Streeck (1988) siano
interessati a indagare il rapporto fra sistemi formativi e
performance economica piu' al fine di individuare i sistemi piu'
efficienti che per comprendere come sistemi differenti possano o
meno fornire soluzioni diverse a esigenze diverse.
All'interno del quadro delineato, l'obiettivo di questo saggio
comparativo e', in primo luogo, quello di individuare sia i
diversi modelli di utilizzazione delle risorse umane da parte
delle imprese delle regioni considerate, sia i diversi tipi di
sistema formativo-educativo che producono tali risorse.
In secondo luogo, si cerchera' di comprendere i rapporti, di
coerenza o di non congruenza, che intercorrono fra i primi e i
secondi; per arrivare, infine, a individuare i vantaggi e i limiti
propri di ciascuna configurazione costituita da un determinato
regime di produzione, un certo assetto del mercato del lavoro e un
dato tipo di istituzioni formative.I diversi modelli di
utilizzazione delle risorse umaneI 36 studi del caso di impresa
che costituiscono la principale base conoscitiva della ricerca qui
presentata mostrano modelli di utilizzazione delle risorse umane
assai diversi fra loro, anche all'interno della stessa regione.
Tali studi consentono tuttavia una conclusione relativamente
univoca: cioe' che l'adozione di un modello anziche' di un altro
dipende dalle strategie di mercato dell'impresa; piu'
precisamente, dipende dal modo specifico in cui un'impresa sceglie
di competere.
Contrariamente alle apparenze, non si tratta di una conclusione
viziata da un certo determinismo tecnologico. Anzi, come vedremo
piu' avanti, essa assegna un ruolo determinante alle istituzioni.
Per illustrare questa conclusione generale, cominciamo col dire
che le imprese post-fordiste possono scegliere fra un numero di
potenziali strategie competitive non cosi' limitato come la
letteratura prevalente indurrebbe a ritenere. Considerarle
semplicemente come imprese che si attrezzano a competere non
soltanto sul prezzo ma anche sulla qualita', dunque, e' troppo
semplicistico.
Esse possono infatti riuscire a competere principalmente sulla
qualita', oppure sulla diversificazione del prodotto, oppure
ancora sulla flessibilita', nel senso di versatilita' e di
aggiustamento rapido ai mutamenti della domanda.
Per gli scopi di questa discussione, possiamo chiamare -produzione
diversificata di qualita'' (Pdq) la prima di queste strategie di
mercato innovative, seguendo la terminologia di Streeck (1992);
"produzione di massa flessibile" (Pmf) la seconda, per riprendere
le distinzioni proposte da Boyer (1988) - anche se sarebbe piu'
adeguato definirla come "produzione automatizzata diversificata";
e "specializzazione flessibile" (Sf) la terza, anche se questo
concetto, nell'accezione originaria di Piore e Sabel (1984),
indicava l'alternativa tout court al sistema fordista di
produzione. E, poiche' la crisi del fordismo non ha naturalmente
significato una completa scomparsa delle imprese fordiste o neo-
fordiste (Nf), che rimangono una realta' consistente in alcuni
Paesi, settori o regioni, ci ritroviamo con quattro principali
tipi ideali di strategie di mercato, ai quali possono teoricamente
corrispondere altrettanti modelli di utilizzo delle risorse umane.
I risultati di questa ricerca, sintetizzati nei quattro "rapporti
regionali" che seguono, consentono di individuare un numero
elevato di modi di utilizzare le risorse umane. Tuttavia, essi
sono in effetti riconducibili a quattro modelli principali, in
corrispondenza con i quattro tipi ideali di strategie competitive
delle imprese indicati.
A) La strategia della Pdq e' propria di imprese che puntano a
competere sulla qualita' dei prodotti piu' che sul prezzo.
L'obiettivo e' quello di evitare la concorrenza delle economie a
bassi salari puntando su segmenti di mercato piu' elevati, sulla
capacita' di rispondere alla maggiore sofisticazione e volatilita'
della domanda con la semi-customizzazione dei prodotti eccetera.
La qualita' cosi' intesa e' resa possibile da diversi fattori,
come le rilevanti capacita' organizzative e di coordinamento; ma
un ruolo cruciale e' svolto dalla elevata e ampia qualificazione
della forza lavoro a tutti i livelli, dalla sua capacita' di
integrare diversi compiti nello svolgimento del proprio lavoro
nonche' di cambiare e imparare rapidamente nuove mansioni, e dal
suo coinvolgimento negli obiettivi aziendali di miglioramento
costante e di innovazione incrementale.
Da cia' consegue il modello di utilizzo delle risorse umane, che
e' basato sull'esistenza di una quota molto ampia di forza lavoro
con una formazione professionale - sia di base sia specifica
all'azienda - estesa, con skills sociali quali iniziativa,
atteggiamento di problem solving e capacita' di lavorare con gli
altri, e con una buona dose di identificazione con la cultura
aziendale.
B) La strategia di Pmf e' invece basata sulla produzione di massa
di una varieta' di beni (anziche' di beni standard come nel
fordismo classico), per rispondere alla variabilita' della domanda
senza rinunciare a contenere i prezzi.
La capacita' di competere contemporaneamente sul prezzo e sulla
diversificazione del prodotto e' resa possibile dall'automazione
programmabile, che consente di produrre in massa un'ampia gamma di
prodotti, e che riduce drasticamente la domanda sia di figure a
medio-bassa qualificazione (operai di produzione e impiegati
amministrativi) sia di competenze tecniche per molti dei ruoli che
rimangono, per i quali vengono crescentemente richiesti
adattabilita' al mutamento e cooperazione.
La domanda di qualificazioni elevate si concentra invece su tre
gruppi cruciali, come hanno messo in luce i risultati della
ricerca: i quadri, i tecnici e il personale dell'area commerciale
(vendita, marketing, rapporto con i clienti).
Il modello di utilizzazione delle risorse umane che ne consegue e'
basato sulla segmentazione fra una parte del personale (in special
modo quello appartenente ai tre gruppi occupazionali indicati) con
una qualificazione elevata, e il personale a bassa qualificazione
o con competenze rese obsolete dall'innovazione tecnologica.
All'intera forza lavoro e' richiesta una flessibilita' elevata,
prevalentemente di tipo funzionale e temporale (polivalenza e
orario flessibile) per i gruppi occupazionali centrali e di tipo
anche numerico (contratti di formazione-lavoro, cassa integrazione
o istituti analoghi) per quelli a bassa qualificazione.
Per tale motivo sta diventando diffusa per tutti i ruoli una
domanda di scolarita' piu' elevata, che viene vista come garanzia
di maggiore versatilita'. Ma gli investimenti formativi e la cura
nella selezione, come vedremo meglio piu' avanti, si concentrano
quasi esclusivamente sui gruppi occupazionali indicati.
A questi ultimi in via prioritaria vengono inoltre richieste
capacita' relazionali, quali il saper coordinare il lavoro di
altri e interagire con colleghi e clienti, e un coinvolgimento
diretto negli obiettivi aziendali.
C) La strategia di Sf, nella quale la principale arma della
competizione e' costituita da una estrema flessibilita'
industriale - nel senso di versatilita' e di rapidita' di
aggiustamento dell'impresa ai mutamenti della domanda, e non
soltanto di flessibilita' del lavoro come nei tipi precedenti - e'
particolarmente, anche se non esclusivamente, diffusa nelle
piccole imprese.
Sono infatti proprio le piccole imprese, caratterizzate da
bassissimi costi di organizzazione e bassi costi di errore, quelle
naturalmente piu' capaci di rispondere alle variazioni
quantitative e qualitative della domanda, o addirittura di
anticiparle immettendo sul mercato una grande varieta' di prodotti
e lasciando a questo il compito di selezionare quelli -giusti'.
La risorsa umana cruciale in questo tipo di imprese e' quella
dello stesso imprenditore, che deve saper svolgere una pluralita'
di funzioni - produttive, commerciali, amministrative ecc. -
avvalendosi di consulenti esterni (quali ad esempio i
commercialisti) ma spesso di pochissimi dipendenti.
In molte imprese di medie dimensioni, d'altro canto, questo ruolo
viene svolto da figure polivalenti tecnico-commerciali -
naturalmente in misura e in modi diversi a seconda del settore
considerato - accanto o in sostituzione dell'imprenditore. Le
implicazioni sui meccanismi formativi, come vedremo meglio piu'
avanti, sono radicali.
L'imprenditore e i "tecnici-commerciali" devono infatti possedere
competenze tecniche vaste e variate, anche se non necessariamente
molto approfondite, e skills sociali che difficilmente si
acquisiscono nei percorsi formativi formali e mirati a fornire una
qualificazione specifica.
Queste possono invece essere garantite da percorsi di
apprendimento compiuti in qualita' di dipendenti di grandi
imprese, che precedono la scelta di "mettersi in proprio" (per
quanto riguarda il piccolo imprenditore) o di cambiare impresa per
ricoprire mansioni di maggiore responsabilita' (per quanto
riguarda i -tecnici-commerciali') e sfruttare le esperienze
professionali cosi' accumulate.
Tali competenze vanno frequentemente aggiornate, ma, dato il
costo proibitivo per imprese di piccole dimensioni di organizzare
internamente l'aggiornamento, risulta cruciale l'offerta di
programmi formativi organizzati da strutture esterne, siano queste
di tipo associativo, consortile, o pubblico. Per il limitato
numero di dipendenti di queste imprese, invece, i requisiti
fondamentali sono quelli della flessibilita' temporale e
funzionale, della capacita' di adattamento pragmatico e della
disponibilita' a cooperare.
Nei casi in cui, oltre a cia', occorrono anche competenze
tecniche, la strategia quasi necessitata per imprese piccole che
non possono offrire percorsi di carriera e' quella di un ricorso
al mercato del lavoro esterno.
D) Infine, le strategie di Nf ricalcano, con alcune variazioni, il
ben noto modello organizzativo fordista, sul quale non e'
necessario dilungarsi.
La capacita' competitiva si basa sul prezzo, tenuto basso dalla
possibilita' di ammortizzare i costi fissi mediante la produzione
in grandi serie di beni standard.
Come e' ben noto, l'utilizzo delle risorse umane risponde qui ai
princi'pi taylor-fordisti della netta separazione tra funzioni di
progettazione e di esecuzione, della scomposizione di queste
ultime in operazioni semplici e parcellizzate, eseguibili da
lavoratori semi-qualificati, e del controllo su questi ultimi
esercitato con semplici strumenti di autorita', senza alcun
tentativo di coinvolgimento attivo.
Come si e' gia' osservato, quelli sopra delineati sono tipi ideali
di strategie competitive, a cui corrispondono altrettanti e
diversi modelli di utilizzazione delle risorse umane. I case
studies di imprese condotti in questa ricerca mostrano
naturalmente una pluralita' di soluzioni intermedie, casi misti e
meno netti di quelli presentati precedentemente in modo
stilizzato.
Tuttavia, anche nei casi concreti analizzati, la corrispondenza
fra strategia competitiva e utilizzo delle risorse umane appare
piuttosto stretta. In ciascuna delle regioni studiate, in ciascun
settore e per ciascuna classe dimensionale, infatti, se un'impresa
adotta una determinata strategia di mercato, essa tende a
utilizzare anche le risorse umane in modo corrispondente, a
prescindere in larga misura dalle peculiarita' istituzionali e
culturali della regione o del Paese (naturalmente con le eccezioni
che i successivi articoli metteranno in luce, nonche' con la
riserva che i casi studiati sono troppo pochi per consentire un
vero e proprio disegno degli esperimenti che tenga conto di tutte
le dimensioni considerate).
Si tratta di un risultato di ricerca importante e nient'affatto
scontato, che non va pera' interpretato in senso deterministico.
E' sufficiente, per rendersene conto, considerare la questione dal
lato dell'offerta di risorse umane, anziche' da quello della
domanda come abbiamo fatto sin qui.
Poiche' la disponibilita' di personale qualificato, i tipi di
competenze disponibili, e gli strumenti possibili di gestione
delle risorse umane dipendono in larghissima misura da istituzioni
regionali o nazionali quali il sistema educativo e formativo e
quello delle relazioni industriali, si pua' prevedere che in
ciascun Paese o in ciascuna regione considerata vi sia una diversa
distribuzione dei quattro modelli sopra discussi, in conseguenza
di una differente presenza delle imprese che li adottano.In
realta', ciascuna delle quattro regioni considerate in questo
studio presenta una combinazione fra modelli diversi, e le imprese
studiate spesso non sono classificabili con nettezza nell'uno o
nell'altro.
Tuttavia, appare possibile affermare che ciascuna di esse mostra
una certa prevalenza di alcuni modelli di impresa rispetto ad
altri: il primo (quello associato alle strategie di Pdq) predomina
in Baden-Wurttemberg, il secondo (Pmf) in Rhone-Alpes, mentre la
Catalogna appare caratterizzata da una compresenza del quarto e
del terzo (Nf e Sf) e la Lombardia del terzo e del secondo (Sf e
Pmf).
La prevalenza di alcuni tipi di impresa - e dei conseguenti
modelli di utilizzazione delle risorse umane - in una regione si
spiega con il fatto che le imprese che adottano le strategie di
mercato corrispondenti godono di un vantaggio competitivo rispetto
alle loro concorrenti di altre regioni, le cui istituzioni
producono un'offerta di risorse umane diversa.
Sono le imprese che sfruttano al meglio cia' che le istituzioni
producono - e che si organizzano in modo da minimizzare gli
effetti delle loro carenze - quelle che ottengono la migliore
performance e che quindi si riproducono meglio in un determinato
ambiente istituzionale.
Le altre, come appare chiaro anche dai casi studiati,
sopravvivono piu' stentatamente, cercando dei sostituti funzionali
ai meccanismi assenti nel loro ambiente, o, se sono abbastanza
forti, esercitando pressioni sulle istituzioni per cercare di
provocarne il cambiamento.
I tipi di sistema formativo ed educativo
Passiamo ora a esaminare la seconda variabile cruciale - quella
che si riferisce al secondo assunto discusso all'inizio - vale a
dire i tipi di sistema di istruzione e formazione professionale
presenti nelle diverse regioni, ai quali dovrebbe spettare il
compito di produrre le risorse umane necessarie ai rispettivi
sistemi economici.
Poiche' i sistemi di istruzione, nonche' una parte variabile delle
funzioni di formazione professionale, sono in tutti i casi
considerati di competenza prevalente degli stati nazionali, mentre
altre funzioni formative dipendono in misura diversa dalle
istituzioni regionali e dall'azione delle imprese, la discussione
che segue non pua', almeno nelle sue linee generali, che
riguardare contemporaneamente le quattro regioni studiate e i
rispettivi Paesi.
I punti di divergenza fra assetti regionali e assetti nazionali
sono invece brevemente discussi nei quattro articoli sulle singole
regioni che seguono, ai quali si rinvia.
Diversamente dai modelli di utilizzazione delle risorse umane, i
sistemi di istruzione e formazione professionale sono stati
discussi nella letteratura con una prevalente impostazione
tipologica, cioe' per metterne in luce le caratteristiche che li
differenziano. Ma le tipologie disponibili hanno intenti
classificatori diversi da quelli utili per interpretare i dati
della presente ricerca.
Cosi', le dimensioni lungo le quali tali tipologie vengono
solitamente costruite riguardano aspetti quali l'agente
istituzionale che fornisce la formazione (cioe' lo Stato,
l'impresa, o forme associative), o il grado di generalita' o
specificita' dei curricula (istruzione generale, addestramento
professionale specifico all'impresa, o forme intermedie) (Crouch e
Finegold s.d.).
A parte la relativa ovvieta' di tali distinzioni, non paiono
queste le dimensioni utili a interpretare i dati di ricerca, a
mettere cioe' in relazione i meccanismi formativi presenti nelle
quattro regioni con il punto discusso nel paragrafo precedente,
vale a dire con l'entita' e con la configurazione di risorse umane
che ciascuno di tali meccanismi fornisce al proprio sistema
economico.
Da questo punto di vista, i risultati dell'indagine ci consentono
di individuare due tipi principali, naturalmente assai ampi, di
sistemi di istruzione e formazione professionale. Il primo pua'
essere caratterizzato come -orientato alla ridondanza', cioe'
capace di, e mirato a, produrre un'offerta di lavoro qualificato
sovrabbondante, dal punto di vista quantitativo e qualitativo,
rispetto alla domanda effettiva.
Si tratta di un sistema in cui una parte assai numerosa della
forza lavoro riceve una formazione di tipo ampio, vuoi mediante un
sistema duale di apprendistato (come in Germania), volto a fornire
sia conoscenze di base sia competenze professionali specifiche
prima dell'ingresso a pieno titolo nel mercato del lavoro, vuoi
mediante un sistema di istruzione generale con rilevanti
componenti tecniche (qual e' il caso degli istituti secondari di
istruzione tecnica e professionale francesi e italiani), a cui si
affianca poi (in Francia) uno sforzo quantitativamente imponente
di formazione continua a cui le imprese sono costrette dalla
legge.
A questo tipo di sistema educativo e formativo se ne contrappone
un secondo, che pua' essere definito come "orientato
all'appropriatezza" anziche' alla ridondanza, ovvero al (relativo)
adeguamento ex post ai bisogni esplicitamente avvertiti dalle
imprese anziche' alla capacita' di anticiparli.
Cio' che caratterizza questo secondo tipo e' la selettivita' e la
concentrazione degli interventi formativi delle imprese sui
segmenti della forza lavoro volta a volta ritenuti piu' cruciali,
il carattere specifico all'azienda, ad hoc e reattivo rispetto ai
mutamenti che hanno tali interventi, e il sostanziale disinteresse
per la formazione del resto del personale. Per quanto riguarda
quest'ultimo, ci si affida al training-on-the-job ovvero
all'affiancamento per sviluppare le scarse competenze tecniche
richieste, e all'intuito di chi effettua la selezione per
reclutare personale capace di integrarsi nell'organizzazione,
cioe' con doti sociali-relazionali preesistenti. In analogia con
la nozione, oggi di moda, di lean production o produzione snella,
potremmo definire questo tipo di sistema educativo e formativo
lean training.
In Paesi come l'Italia, questo sistema di -formazione snella' per
lo piu' si integra, come si e' detto, con l'acquisizione di
conoscenze teoriche di base nel sistema scolastico,
particolarmente per quella quota crescente di giovani che vengono
assunti solo se dispongono di un diploma (preferibilmente di un
istituto tecnico) o addirittura di una laurea; ma non e' cosi'
ovunque, come mostrano i casi - peraltro al di fuori dell'ambito
della nostra ricerca - inglese e americano (Osterman 1994;
Capecchi 1993).
Ciascuno di questi due tipi generali di sistema educativo-
formativo produce non solo una diversa quantita' di risorse umane,
ma soprattutto differenti configurazioni di queste; configurazioni
che si attagliano in maggiore o minore misura all'uno o all'altro
dei modelli produttivi discussi nel paragrafo precedente. Cosi'
che l'"efficienza" di un sistema di istruzione e formazione
professionale non pua' essere valutata in generale, ma soltanto in
rapporto alla variabile e mutevole struttura economica di una
regione o di un Paese.
Da questo punto di vista, l'osservazione - confermata dalle
opinioni degli intervistati in questa ricerca - che, ad esempio,
il sistema formativo del Baden-Wurttemberg appare piu' efficiente
di quello di Rhone-Alpes, nonostante i gravi problemi
manifestatisi di recente, pua' ricevere una spiegazione differente
da quella tradizionale. Il fattore che viene normalmente citato
come responsabile del successo del primo sistema e' il carattere
duale della formazione iniziale tedesca basata sull'alternanza fra
lezioni in aula e apprendistato in azienda, contrapposto al
carattere generico e astratto dell'istruzione impartita dal
sistema scolastico francese.
Ma, interpretando nel senso indicato i risultati di questa
ricerca, si pua' ritenere che la ragione principale stia invece
nel fatto che un sistema educativo-formativo orientato alla
ridondanza presenta rilevanti vantaggi per il modello di Pdq che
prevale in Baden-Wrttemberg, mentre comporta un certo mismatch
fra domanda e offerta quando predomina un modello di Pmf come in
Rhone-Alpes.
Analogamente, le carenze delle istituzioni formative lombarde e
catalane appaiono gravi in rapporto alla scarsa capacita' di
sostenere l'ulteriore sviluppo di imprese basate sulla Sf, assai
piu' che a causa della loro lontananza dal sistema duale tedesco,
che viene impropriamente assunto - specialmente nel dibattito
spagnolo - quale pietra di paragone dell'efficienza.
L'indicazione che si pua' trarre dall'analisi condotta in questo
articolo introduttivo a livello volutamente generale e tipologico
e' quella di mettere in guardia contro le impressioni superficiali
di convergenza spontanea fra modelli di sviluppo e fra istituzioni
che invece riproducono continuamente differenze fra di loro, e
contro le ancora piu' superficiali ricette di imitazione dei casi
di successo.
Questa non vuol essere una conclusione di tipo funzionalistico,
ispirata cioe' alla convinzione che ciascun sistema educativo-
formativo regionale o nazionale serve i bisogni della propria
economia ed e' quindi funzionale a essa; ne' ancor peggio
indulgere a un generico relativismo culturale, per il quale alla
fine i diversi sistemi si equivalgono e nessuno e' superiore agli
altri.
La ricerca mette invece in luce come alcune soluzioni
istituzionali siano valutate dagli stessi soggetti economici come
altamente positive e appropriate, mentre altre soluzioni sono
considerate sufficientemente negative da spingere le imprese a
spendere energie o quantomeno argomentazioni per cercare di
trasformarle. Con tutti i limiti mostrati di recente, ad esempio,
il sistema educativo-formativo del Baden-Wurttemberg svolge
indubbiamente per la propria economia funzioni piu' positive di
quanto riescano a fare quello catalano e quello lombardo.
Tuttavia, occorre considerare i rispettivi vantaggi e svantaggi
nel quadro delle diverse strategie di mercato e conseguentemente
di utilizzazione delle risorse umane che, come abbiamo visto,
caratterizzano le diverse regioni. Il vantaggio di un sistema
formativo "snello" e' indubbiamente quello di evitare a imprese
che puntano tutto sulla rapidita' di adattamento e sull'assenza di
costi organizzativi le rigidita' e anche i costi che il
mantenimento di un sistema di formazione generale, fortemente
regolato e orientato alla ridondanza, indubbiamente comporta.
D'altro canto, lo svantaggio piu' evidente e' quello di non
riuscire cosi' a produrre un ampio serbatoio di competenze, che
pua' essere si' sovrabbondante nell'immediato ma che costituisce
una risorsa a cui attingere per l'innovazione; anzi di produrre
dei veri e propri "colli di bottiglia" che restringono il
ventaglio delle scelte per le imprese che intendono innovare.
Vi sono poi numerosi effetti secondari connessi alla presenza
dell'uno o dell'altro assetto istituzionale. Il piu' importante
consiste nel fatto che il fornire formazione all'interno di un
sistema duale (che comporta cioe' rilevanti interventi formativi
attivi da parte delle imprese prima dell'assunzione di nuovo
personale) costringe le imprese stesse a programmare i propri
bisogni formativi.
Dall'altro lato, una formazione che consiste essenzialmente in
interventi limitati e ad hoc, spesso finalizzati semplicemente a
tener dietro alle trasformazioni tecnologiche e organizzative,
consente una maggiore reattivita' alla congiuntura, anche se
impedisce alle imprese di sviluppare la capacita' di anticipare i
propri bisogni.
Non esistono dunque ricette in cui i benefici non siano
accompagnati da svantaggi. La ricerca ha messo chiaramente in luce
quali siano gli uni e gli altri nelle diverse situazioni
regionali; ma la scelta fra i diversi trade-offs rimane appunto
una scelta, non una soluzione ovvia e scontata.
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