di Michele Colasanto
CHI E' OGGI IL PICCOLO IMPRENDITORE: ALCUNI ELEMENTI DEL SUO
PROFILO
Chi e' oggi il piccolo imprenditore? Quali caratteristiche
presenta il piccolo operatore economico che costituisce la
parte vitale del nostro sistema produttivo?
La ricerca di questi anni sembra portare alcune conferme e
qualche novita'.
Dal punto di vista biografico, i dati danno conto di un
imprenditore che e' prevalentemente maschio (nel 90% dei casi)
e relativamente giovane (oltre il 50% ha un'eta' inferiore ai
50 anni, e circa un quarto si colloca nella fascia tra 51 e 60
anni; Tabella 2).
Ci testimonia di un intenso quanto fisiologico ricambio
imprenditoriale, che e' indice della persistente vitalita' di
quello spirito imprenditoriale che ha caratterizzato il nostro
Paese negli ultimi decenni.
Ci non toglie comunque che si stia
ampliando anche la fascia di imprenditori di seconda
generazione: circa due imprenditori su cinque hanno avuto il
padre imprenditore il che sta a dire dell'avvio di un processo
di stabilizzazione di questo insieme sociale (Tabella 3).
Ma
non sappiamo ancora con certezza se ci determini un effetto
di consolidamento dell'attivita' imprenditoriale o se
viceversa ci produca un indebolimento della spinta iniziale,
con l'allentamento delle motivazioni e dei codici valoriali e
di comportamento tipici della generazione dei fondatori,
favorita dall'attrattivita' di modelli comportamentali volti
piu' ai consumi che agli investimenti.
un'altra conferma arriva dal livello di scolarizzazione che
non e' particolarmente elevato: il piccolo imprenditore
possiede in genere un titolo di studio medio, anche se va
notato che il livello di scolarizzazione dell'imprenditore
milanese si presenta piu' elevato che nel campione lombardo
(Tabella 4).
Nonostante i profondi mutamenti, continua a essere molto
diffuso il tradizionale percorso di crescita professionale
i'dal bassoi': due su tre tra gli intervistati hanno nel
passato lavorato come dipendenti, di solito nello stesso
settore produttivo, anche se si profilano percorsi
professionali piu' articolati, con piu' diffusi cambiamenti
del settore di attivita' nel passaggio dal lavoro dipendente a
quello autonomo (Tabella 5).
La crescita professionale on-the-job continua in ogni caso a
essere una delle caratteristiche principali del piccolo
imprenditore. Il che se da un lato determina una figura
imprenditoriale esperta e conoscitrice dei mercati e dei
processi produttivi, dall'altro tende a favorire una certa
chiusura e diffidenza verso la realta' esterna, in particolare
verso percorsi di formazione e aggiornamento.
Cio' e' confermato dal fatto che poche sono le occasioni
formative utilizzate ai fini di una crescita professionale;
ben il 70% degli intervistati non ha mai partecipato a
iniziative formative di interesse professionale da quando ha
avviato l'attivita' imprenditoriale (e una quota estremamente
esigua lo ha fatto negli ultimi tre anni).
La ricerca di autonomia rimane la motivazione di fondo che
spinge a intraprendere tale attivita'.
L'insofferenza verso la posizione dipendente rimane forte e ci
indica il permanere di una valutazione diffusa che attribuisce
al mettersi in proprio una forte valenza positiva. Si tratta
di un dato culturale che non sembra scalfito dal tempo e che
riesce anzi a rinnovarsi e a rigenerarsi (Tabella 6).
Con il desiderio di mettersi in proprio, trova conferma anche
la spiccata etica del lavoro e un grande spirito di
sacrificio: l'imprenditore attribuisce al lavoro una grande
importanza non solo dal punto di vista economico, ma anche
soprattutto dal punto di vista dell'autorealizzazione. Per
questo e' disposto a rimanere in fabbrica per una media di
dieci ore al giorno.
Facendo un raffronto con il passato, e' possibile notare che
acquista importanza la dimensione espressiva e
autorealizzativa, mentre si attenua la spinta e l'importanza
dei valori legati alla famiglia. Ci spiega il fatto che gli
imprenditori si dichiarano decisamente soddisfatti della
propria attivita' lavorativa (57% dei casi, cui si aggiunge il
24% di soggetti molto soddisfatti in Regione e il 34% a
Milano): la possibilita' di decidere, la forte dinamicita', il
piacere del rischio e della responsabilita' sono tutti fattori
che rendono questo tipo di attivita' fortemente attraente.
LA PICCOLA IMPRESAE LE SUE STRATEGIE
Prendiamo ora in considerazione l'impresa, la sua
organizzazione e le sue strategie.
Prima di tutto, i dati indicano la persistenza di una forte
personalizzazione nella gestione dell'organizzazione
aziendale. Ci trova conferma anche nella debolezza della
struttura occupazionale e nello scarso utilizzo di figure
specialistiche.
In realta', il piccolo imprenditore mantiene un atteggiamento
accentratore, tipico del leader e del capo carismatico. Cio'
se da' conto della maggiore flessibilita' e dinamicita'
decisionale di questo modello di impresa, dall'altro la espone
al rischio di rimanere vincolata ai limiti connessi con la
personalita' stessa del suo capo.
Tra le diverse funzioni, i piccoli imprenditori intervistati
mettono ai primi posti il rapporto con il mercato e le
funzioni commerciali in genere, e in particolare il
miglioramento della qualita' dei prodotti e la ricerca di
nuovi mercati e/o clienti. Quelle meno coltivate sono invece
le funzioni connesse con la programmazione-impostazione del
lavoro dei dipendenti e la gestione del personale.
Il piccolo imprenditore appare quindi dedicarsi con grande
impegno alla dimensione della commercializzazione. Egli
infatti sa bene che in mercati cosi' difficili e articolati
come quelli attuali conta dotarsi di una strategia di mercato.
E ci vale in particolare oggi in una situazione di turbolenza
economica e di internazionalizzazione dei mercati.
Si tratta di un'osservazione importante: da un lato perch-
testimonia di un impegno da parte dei piccoli imprenditori nel
cercare di costruire una propria coerente linea d'azione che
si muove decisamente in contesti sovralocali e sempre piu'
spesso internazionali; dall'altro perch- indica anche un
riorientamento rispetto al passato, quando il piccolo
imprenditore era invece concentrato sulla funzione
direttamente produttiva. Ma al di la' della buona volonta'
contano i risultati.
Quello che e' certo e' che la forte dedizione a questa
funzione indica altresi' un disagio, una fatica avvertita da
un numero crescente di piccoli imprenditori che stentano a
stare dietro alla rapidita' con cui il mercato si muove. E ci
pone a rischio la stabilita' stessa dell'impresa.
Quello che conta e' infatti riuscire a trovare un punto di
equilibrio che permetta di migliorare la propria capacita' di
azione sui mercati senza far perdere all'impresa l'alto
profilo tecnologico-produttivo che l'ha caratterizzata negli
anni passati.
In realta', uno dei problemi maggiori e' che
molte di queste piccole imprese sono ancora delle isole. La
loro appartenenza a reti produttive appare ancora incerta o
inconsapevole.
Come e' ovvio, queste imprese hanno molti rapporti sia con
imprese piu' grandi sia con subfornitura. Ma la logica di
fondo continua a essere quella della diffidenza: evitare a
tutti i costi di essere troppo dipendente sia dal piu' forte
(che ti pu distruggere) sia dal piu' piccolo (che ti puo'
ricattare).
Un atteggiamento di fondo di tipo individualistico
costituisce un obiettivo ostacolo a entrare attivamente in
reti produttive su scala locale, nazionale e internazionale.
Molti fattori possono spiegare questo dato, ma credo che
quello prevalente sia la difficolta' del piccolo imprenditore
a uscire dagli ambiti che egli sa di controllare in modo
assoluto (primo fra tutti quello familiare).
Diversi indicatori
confermano questa affermazione.
Mentre l'impiego di familiari (nel 54-57% dei casi) e parenti
(nel 30% dei casi) e' ancora molto frequente, per quanto
attiene al sistema dei servizi, la rilevazione mette in
evidenza che rimane ancora scarsamente diffusa l'abitudine
delle piccole imprese a rivolgersi all'esterno per lo
svolgimento di servizi avanzati e qualificati. Come si puo'
osservare nella Figura 1, le imprese del campione comprano
pochi servizi e di bassa rilevanza strategica: le piccole
imprese si rivolgono all'esterno per lo piu' per funzioni
routinarie (quali il servizio paghe e stipendi o il servizio
di consulenza finanziaria, quest'ultimo cresciuto nel periodo
esaminato), mentre solo eccezionalmente la domanda e' rivolta
a servizi piu' direttamente connessi con la produzione e
l'organizzazione.
D'altro canto, in tutte le economie avanzate, insieme ai forti
fenomeni di terziarizzazione, si sono sviluppati i processi di
esternalizzazione e di subfornitura, cosi' che l'impresa si
configura come un nodo all'interno di reti sempre piu'
complesse, con la coesistenza di assetti proprietari molto
concentrati, di accordi informali e diretti di relazioni
professionali tra imprese duraturi nel tempo: la capacita'
competitiva dell'impresa minore non risiede piu' solo e
prevalentemente nella sua capacita' di rafforzarsi come unita'
indipendente, ma anche nel piu' complessivo miglioramento del
sistema di relazioni, formali e informali, entro cui e'
inserita.
Negli ultimi anni circa un terzo delle imprese esaminate ha
svolto attivita' di subfornitura (una quota questa inferiore
alle rilevazioni precedenti, dove il valore era attorno al
45%).
La maggioranza di queste tuttavia vincola a questo tipo di
attivita' una quota del fatturato inferiore al 60 per cento.
Non manca quindi la capacita' delle imprese esaminate di
sfruttare i vantaggi della subfornitura, ma al tempo stesso
non si pu non notare anche la loro ritrosia a esporsi
eccessivamente.
I piccoli imprenditori cercano cioe' di mantenere un
collegamento diretto con il mercato in modo da garantirsi
margini di manovra in caso di rallentamento della
domanda.
Pochissime imprese hanno poi rapporti di subfornitura
con aziende estere. Il che puo' indicare la persistente
importanza della dimensione geografica e culturale in questo
tipo di accordi commerciali, e quindi la difficolta' delle
piccole imprese ad avere rapporti stabili se non in ambiti
noti e relativamente ristretti.
Sembra emergere, in sostanza una grande propensione al
mantenimento dell'autonomia. E' questa una constatazione che
trova conferma alla luce di altri indicatori relativi
all'esistenza di rapporti di diverso tipo con altre imprese.
Sulla base dei dati delle rilevazioni del '92, solo un esiguo
numero di soggetti del campione (7%) dichiara di intrattenere
rapporti di collaborazione (joint ventures, accordi per
trasferimenti di tecnologie, cessioni o licenze di brevetti,
marchi e know how ecc.) con altre imprese italiane e
straniere.
La quota si alza fino al 21%, con una significativa presenza
di collaborazioni con aziende straniere, se consideriamo il
campione di imprese milanesi nella rilevazione del '93.
Inoltre solo il 13% delle imprese minori detiene, in via
diretta o indiretta, partecipazioni al capitale sociale di
altre imprese (italiane, in ogni caso).
Le piccole imprese, insomma, tendono a rimanere monadi,
estremamente flessibili e dinamiche rispetto al mercato, ma
paradossalmente ancora non sufficientemente capaci di creare
sinergie con l'ambiente esterno. ' per meglio dire: se certo
le imprese minori sono inserite entro reti di relazioni
familiari e amicali ed entro circuiti di scambio e
collaborazioni per lo piu' informali che costituiscono la
struttura sociale a loro piu' contigua, tuttavia le sfide
dell'attuale transizione rendono necessaria un'uscita da un
certo 'isolamento', in quanto tali circuiti e reti relazionali
non sembrano piu' sufficienti a garantire la competitivita'.
Di questo problema, le stesse imprese cominciano a rendersene
conto: il bisogno in termini di servizi per la piccola impresa
e la spinta alla collaborazione tra imprese (Tabella 1)
costituiscono ormai due tra le esigenze piu' sentite tra gli
imprenditori.
I limiti di una tale organizzazione emergono con chiarezza
anche la' dove le cose vanno meglio, come ad esempio nelle
esportazioni: oltre il 90% delle imprese esportatrici colloca
i propri prodotti mediante contatti personali (Figura 2).
Si tratta di una modalita' di approccio che certamente premia
le grandi capacita' di iniziativa dell'imprenditore, ma che
denota altresi' le difficolta' esistenti nel trovare canali
piu' solidi per garantirsi l'accesso ai mercati esteri.
Ancora poco diffusi e utilizzati sono consorzi e servizi per
l'export, e cio' sia per la insufficiente sensibilita' da
parte delle istituzioni a farsi promotrici di tali iniziative
sia per la incerta disponibilita' a forme di collaborazione
tra gli imprenditori. E d'altro canto, le difficolta' che si
incontrano nello stabilire accordi di collaborazione stabili
con imprese estere si individuano soprattutto nella carenza
delle informazioni di tipo economico, carenza di occasioni di
incontro di possibili partner, carenza di risorse umane.
La
propensione di fondo a 'fare da soli' si riscontra poi
inevitabilmente anche nella gestione finanziaria.
Infatti, se pure va osservato che e' cresciuto sensibilmente
il numero delle imprese che hanno fatto ricorso al sistema
bancario utilizzando prestiti a lungo termine (cosi' come e'
significativamente cresciuto l'impiego di altri sistemi di
finanziamento come il leasing, di cui ora si avvale una quota
di imprese pari al 46%), in realta' l'approvvigionamento di
risorse finanziarie da parte delle imprese esaminate continua
a essere perseguito battendo le strade piu' tradizionali.
Ancora oggi, circa tre imprese su quattro realizzano un
compiuto autofinanziamento (Tabella 7), a riprova del fatto
che il piccolo imprenditore preferisce fare da solo,
attingendo alle risorse della rete familiare e parentale.
un tale atteggiamento trova riscontro anche nell'uso che viene
fatto dell'indebitamento (meno abitualmente impiegato per
sostenere una strategia di sviluppo aziendale di lungo
termine), come testimonia la netta prevalenza del ricorso al
finanziamento a breve termine, impiegato in genere per far
fronte a problemi temporanei di liquidita'.
In questa situazione, non sorprende che le Pmi hanno
attraversato una fase di grave difficolta' finanziaria e che,
piu' in generale, come ha osservato di recente il Mediocredito
Lombardo, esse soffrono di una seria sottocapitalizzazione.
Osservando in particolare l'evoluzione del rapporto tra
capitale netto e immobilizzi tecnici netti (che se superiori a
100 indica che a fronte degli impianti, dei macchinari e delle
attrezzature, l'impresa dispone di risorse finanziarie non
soggette a necessita' di smobilizzo) il Mediocredito Lombardo
ha nella sua ultima rilevazione confermato questa situazione:
Se da un lato la situazione puo' essere spiegata alla luce di
una piu' consistente dinamica dei flussi di investimento delle
imprese manifatturiere lombarde, l'incapacita' di adeguare in
misura corrispondente le risorse finanziarie a titolo di
rischio (e la parallela crescita dell'indebitamento a medio e
lungo termine con il sistema creditizio) non puņ che gettare
dubbi sulla possibilita' di proseguire lungo un sentiero di
sviluppo non equilibrato sul piano finanziario.
Dal punto di vista dell'innovazione tecnologica, non c'e'
dubbio infatti che gli anni '80 abbiano rappresentato anche
per le piccole imprese un decennio assai dinamico, in cui
molto del vecchio e' stato sostituito.
Tuttavia l'osservazione sugli stock di innovazione tecnologica
e produttiva incorporata nelle imprese non fugano certo, per
l'arco temporale indagato, le preoccupazioni circa la
capacita' innovativa delle imprese minori lombarde.
Innanzitutto, occorre sottolineare che una larga parte delle
piccole imprese si e' resa conto delle nuove opportunita'
connesse con le tecnologie informatiche e ha cercato in un
modo o nell'altro di farvi fronte.
La quasi totalita' di esse (anche se permane ancora una
piccola quota, pari al 10% circa, che non l'ha fatto) ha
computerizzato la gestione amministrativa, che e' considerata
una soglia di ingresso minima nell'ambito delle nuove
tecnologie (Tabella 8).
Per tutte le altre tecnologie appare nettamente inferiore
l'utilizzo nelle imprese minori del campione, anche se il loro
impiego e' sensibilmente cresciuto nel tempo, indicando un
lento processo di diffusione tecnologica in corso. Nel caso di
Milano la rilevazione del 1993 da' conto infatti che nell'85%
dei casi e' stata introdotta una qualche forma di innovazione:
prevale quella sul prodotto (20% dei casi), ma una quota
consistente di imprese (53%) dichiara piu' tipi di innovazione
(interventi sul prodotto, sul processo e organizzative).
Allo stesso modo, l'insistenza sul tema della qualita' ha
fatto si' che il controllo della qualita' sia divenuto ormai
una pratica largamente diffusa che interessa circa tre imprese
su quattro (nel campione milanese circa la meta' delle imprese
ha gia' introdotto o sta introducendo un sistema di qualita').
Va notato che tale controllo tende a concentrarsi
prevalentemente sul prodotto finale, e che circa quattro
imprese su dieci dichiarano di applicare un controllo sia sul
processo sia sul prodotto finale.
Nel complesso, tuttavia, c'e' ragione di ritenere che
rimangono ancora inadeguatamente diffuse le molte opportunita'
che l'innovazione tecnologica ha reso disponibili in questi
ultimi anni.
Pur in presenza della crescita segnalata nell'arco di tempo
esaminato, la percentuale delle imprese che ha introdotto
nella propria organizzazione produttiva nuove macchine
diminuisce infatti al crescere della complessita' delle
macchine.
Si profila qui la necessita' di un grande sforzo per fare in
modo che queste innovazioni penetrino in tutte le fibre del
sistema delle piccole e medie imprese in tempi brevi,
svecchiando procedure e pratiche profondamente radicate, ma
che rischiano di spingere molte unita' economiche fuori dal
mercato. un obiettivo questo che non pu certo essere limitato
ad aspetti puramente economico-finanziari, ma che riguarda
anche aspetti culturali e di preparazione degli imprenditori e
della forza lavoro.
Come e' noto, infatti, le piccole e medie imprese italiane
hanno sfruttato nel corso degli anni '80 i margini di aumento
della produttivita' consentiti dalla realizzazione di
innovazioni incrementali di processo. Ma su questo fronte i
margini di miglioramento sembrano oggi ridursi, mentre le
unita' produttive di dimensione maggiore hanno avviato negli
ultimi anni programmi in cui al centro della loro strategia
vengono poste innovazioni di prodotto e radicali
riorganizzazioni dei processi produttivi. Ed e' rispetto a
queste sfide che le piccole imprese si dovranno misurare nei
prossimi anni.
Le precedenti considerazioni si riflettono chiaramente
osservando la qualita' del lavoro occupato nelle piccole
imprese.
I valori indicati nella Tabella 9 mostrano un contesto
occupazionale fatto ancora prevalentemente di figure
tradizionali, con poco piu' del 9% di imprese che segnala
difficolta' nel reperire particolari profili professionali, e
con una struttura produttiva che non prevede sostanzialmente
l'impiego di dirigenti, di quadri o tecnici di particolare
levatura.
La composizione dell'organico delle piccole imprese va,
d'altra parte, messa in relazione con la qualita' del lavoro
in esse presente e con i limiti strutturali di tale qualita'
in unita' produttive di minori dimensioni.
Tali tendenze
trovano conferma anche per quanto concerne il profilo
dell'istruzione posseduta dalle risorse umane impiegate nelle
piccole imprese (Tabella 10).
Facendo riferimento al dato in nostro possesso e relativo alle
rilevazioni del 1992 e 1993, emergono alcune differenze tra i
due campioni considerati.
Nel campione lombardo sono pochissime le aziende in cui
risulta occupato personale laureato; piu' presente risulta
invece la fascia dei diplomati.
Non e' necessario credo in questa sede ribadire l'importanza
della valorizzazione della risorsa umana e in particolar modo
della formazione.
Credo per che si possa indicare questa come una delle
maggiori contraddizioni del nostro modello di sviluppo,
contraddizione che non potra' non tendere a esplodere nei
prossimi anni: infatti, ci si deve chiedere come pu un
sistema basato sulle piccole e medie imprese continuare a
svolgere un ruolo di primo piano su scala mondiale se, una
volta consumati tutta una serie di altri vantaggi competitivi
che lo hanno sostenuto nel passato, esso non decide di
investire decisamente sulla risorsa-uomo, visto che una
struttura produttiva come questa e' in grado di vivere non
gia' grazie ai vantaggi che l'organizzazione e' in grado di
garantire, ma grazie a quelli che gli uomini e le loro
relazioni riescono a produrre.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE PROSPETTIVE DI LAVORO
In conclusione, alla luce dei dati presentati, si puņ
innanzitutto osservare che il sistema delle piccole imprese,
pur continuando a mostrare una sostanziale stabilita',
presenta altresi' aspetti problematici riferibili alla carenza
di strategie di sviluppo piu' complessive, al permanere di un
quadro di grande incertezza e frammentazione dei mercati, al
processo di innovazione tecnologica che avviene in modo non
sistematico e affidato al semplice learning by doing, alla
scarsita' di quadri tecnici qualificati e piu' in generale
all'insufficiente livello qualitativo delle risorse umane,
all'orientamento internazionale che ha bisogno di uscire dalle
logiche di breve periodo.
In linea con i risultati di altre ricerche, le caratteristiche
comuni alle imprese minori sembrano dunque riassumibili
attorno ai seguenti elementi:
1) indipendenza dell'unita' aziendale (assetti proprietari);
2) proprieta' familiare;
3) isolamento dal contesto pubblico;
4) produzione di beni intermedi e contoterzismo;
5) autofinanziamento;
6) propensione agli accordi informali.
In questi primi anni '90, la piccola impresa italiana D e
segnatamente quella lombarda D e' stata interessata da un
profondo mutamento del sistema competitivo.
La crisi congiunturale si e' cosi' intrecciata con una crisi
piu' profonda, che forse pu essere definita di natura
strutturale. E rispetto a questa valutazione, la ripresa
export led che ha fatto seguito alla grave crisi congiunturale
dei primi anni '90 non dirada del tutto le ombre che si
allungano sul sistema delle Pmi milanesi.
La tesi che qui viene sostenuta e' che la prima generazione di
imprenditori ha adempiuto al suo mandato.
I risultati sono stati eccellenti in condizioni di mercato e
tecnologiche molto diverse. Rispetto a quella prima ondata, si
sono sovrapposti altri strati imprenditoriali - specie nel
corso degli anni '80 - che hanno in parte mutato la natura
dell'imprenditorialita'. Ci troviamo quindi a meta' del guado:
all'interno di questo insieme, permangono caratteri della
prima generazione intrecciati con elementi piu' innovativi ma
anche con altri piu' problematici.
Nel complesso, non si e' ancora affermato con nettezza un
nuovo modello di piccolo imprenditore che costituisca il
riferimento comportamentale e che sia in grado di indicare la
strada per il futuro.
Rispetto a questo passaggio occorre seriamente avvertire i
rischi e le potenzialita' della fase attuale: occorre
soprattutto evitare che, passata la spinta prodotta dalla
svalutazione, ci si trovi a mal partito.
Le difficolta' sono connesse soprattutto con la
complessificazione dei mercati che richiede strutture piu'
solide o comunque la capacita' di entrare a far parte di reti
che sono in genere molto esigenti e impegnative, soprattutto
per quanto riguarda il livello tecnologico.
Cio' implica la diffusione di un nuovo tipo di piccola e media
impresa che sappia soddisfare queste esigenze.
Tale cambiamento e' naturalmente in parte gia' avvenuto, ma va
completato e sostenuto.
L'indagine sinora svolta sembra
indicare che un tale risultato pu essere ottenuto solo
stimolando un riorientamento culturale.
Per dirla in una battuta, si tratta di passare da un modello
che valorizzava l'antica abilita' ad affrontare e risolvere i
problemi pratici e tecnici a una nuova cultura imprenditoriale
diffusa e condivisa che ponga i soggetti produttivi in grado
di dialogare con mezzi e linguaggi tecnologicamente avanzati e
di operare su scala internazionale.
Fino a oggi solo una minoranza delle imprese ha saputo
realizzare questo salto, mentre la maggior parte arranca o
prende un po' di fiato grazie alla svalutazione.
Ma e' essenziale che questa mutazione penetri in profondita'
nel tessuto imprenditoriale, caratterizzato dall'assenza di
grandi imprese leader e sostenuto dal lavoro e dall'impegno di
migliaia di piccoli produttori.
Si tratta di trasformare in particolare la cultura
organizzativa del piccolo imprenditore, non per elevare le
dimensioni delle imprese, ma al contrario per permettere loro
di continuare a essere piccole ma efficienti.
Molte questioni sono tra loro intrecciate: si e' gia'
ricordato il tema dei livelli di scolarizzazione e di
formazione degli imprenditori e della manodopera; c'e' poi una
questione relativa all'etica dell'imprenditore lombardo, alla
sua propensione al rischio, alla sua spinta a crescere e a
investire: dopo la prima generazione, tutta caratterizzata da
un'etica non solo del lavoro ma anche del risparmio e
dell'investimento, occorre verificare meglio quali siano le
motivazioni di fondo di questo gruppo sociale; c'e' poi la
questione finanziaria e piu' in generale degli assetti
proprietari, un tema connesso strettamente a quello delle
reti, che rimanda a una grande capacita' di inventiva
istituzionale.
E' fondamentale che questa trasformazione
culturale si realizzi per prima cosa a Milano.
Solo se il capoluogo sapra' disseminare al proprio interno
questa nuova cultura, diventando modello per l'intera Regione,
allora le possibilita' di rilancio potranno diventare realta'.
Numerose sono le implicazioni per il futuro del lavoro
dell''sservatorio che derivano dall'impostazione sopra
indicata.
In primo luogo, si deve rilevare che la conoscenza di
questa importante componente del sistema economico e' ancora
inadeguata.
Molte delle nostre immagini sono stereotipi che probabilmente
corrispondono solo in parte alla realta' attuale. In questo
senso, lo sforzo che la Camera di Commercio insieme all'Api e
l'universita' Cattolica ha promosso va certamente nella giusta
direzione.
Dal punto di vista dei contenuti, mi sembra che, giunti a
questo punto, si possano indicare tre aspetti particolarmente
rilevanti per il lavoro dei prossimi anni.
In primo luogo, si deve conoscere meglio la composizione
sociale dei piccoli e medi imprenditori. E cioe', da chi e'
composto oggi questo gruppo socio-economico.
Le ragioni per interrogarsi su questo tema sono diverse.
Prima di tutto, il consolidamento che si e' verificato con il
passare degli anni delle Pmi ne ha certamente influenzato la
composizione sociale. Come si e' visto, molti piccoli
imprenditori di oggi sono gli eredi dei fondatori e provengono
quindi da una classe sociale che non e' la stessa dei loro
padri.
D'altro canto, anche coloro che avviano nuove iniziative
economiche sempre meno rispondono a quel profilo tipico degli
anni '60 e '70 dell'operaio specializzato o del tecnico che si
mette in proprio.
Il livello di istruzione formale e non, la provenienza
sociale, i percorsi individuali sono oggi diversi da quelli
del passato, anche se non adeguatamente studiati. Si tratta in
altre parole di tracciare un profilo adeguato di questo gruppo
sociale nella convinzione che le immagini di cui si dispone
siano ormai nettamente inadeguate.
Su questa linea, sara' utile anche approfondire alcuni
atteggiamenti e orientamenti di questo gruppo sociale nei
confronti della realta' esterna. In particolare, le aree che
meritano interesse riguardano gli orientamenti nei confronti
delle istituzioni, del mercato, della famiglia, della
concorrenza internazionale e dell'Europa.
In questo modo si dovrebbe riuscire a tracciare un quadro che
tenda a mettere in evidenza due principali elementi: da un
lato i percorsi di mobilita' e - specularmente - l'eventuale
consolidamento del senso di appartenenza sociale; dall'altro,
il mutare del quadro valoriale e degli orientamenti all'azione
condivisi dai piccoli imprenditori.
un secondo aspetto riguarda invece gli aspetti legati piu'
propriamente ai nuovi assetti organizzativi e all'impatto che
ci pu avere sul mercato del lavoro e sull'occupazione, sia
in termini quantitativi che qualitativi. Cio' significa
concentrarsi su due questioni tra loro strettamente
intrecciate.
Da un lato, la questione relativa ai network entro cui le
piccole imprese lombarde si collocano (che possono essere piu'
o meno estesi, complessi, articolati, simmetrici, paritari),
con particolare riferimento agli eventuali sistemi di impresa
o all'esistenza di centri di eccellenza che fungano da guida e
sostegno del network stesso. Cio' comporta anche cercare di
capire quali soluzioni organizzative-contrattuali vengono
adottate per raggiungere piu' elevati standard di
flessibilita' senza per perdere quegli elementi di fiducia
personale che da sempre caratterizzano questa realta'
produttiva.
Dall'altro lato, osservare il tipo di lavoro che le piccole
imprese oggi domandano e la qualita' dell'occupazione e del
rapporto di lavoro che esse sono in grado di offrire
all'interno di un regime di maggiore flessibilita'.
In questo modo, sara' possibile valutare meglio da un lato la
capacita' del sistema locale delle Pmi di adeguarsi alle
mutate condizioni della concorrenza e della tecnologia e
dall'altro il contributo che questo segmento produttivo e' in
grado di offrire per il riequilibrio del mercato del lavoro.
C'e' infine un terzo aspetto, che e' il rapporto con le
istituzioni circostanti, prime fra tutte quelle pubbliche. Si
tratta di un tema al quale la ricerca di questi ultimi anni
sta concedendo sempre maggiore attenzione.
Non e' un caso che nel 1993 abbia ricevuto il Premio Nobel per
l'economia Douglas North, il quale ha posto proprio il tema
dei rapporti tra imprese e istituzioni al centro della sua
riflessione. Le istituzioni - intese come i fattori che sono
in grado di definire le regole del gioco, come fonte di
riduzione dell'incertezza, come elemento di strutturazione
dell'azione individuale - hanno il compito fondamentale di
rafforzare il cammino e le ragioni di sopravvivenza
dell'impresa minore.
Sarebbe troppo lungo ricostruire qui la storia della piccola
impresa italiana, ma certo e' che il suo sviluppo e' da
ricollegarsi, almeno in una prima fase, a una fattiva
attenzione mostrata dalle istituzioni di questo Paese nei loro
confronti.
Poi certo la situazione e' peggiorata e la distanza che negli
ultimi anni si e' venuta a creare tra le imprese e le
istituzioni costituisce un gravissimo problema, rispetto al
quale sarebbe pericoloso pensare che si possa continuare in
una condizione di perenne supplenza.
D'altro canto, qualunque ridefinizione di questi rapporti deve
partire da un quadro concettuale profondamente rinnovato, che
sappia comprendere la natura della domanda di statualita' oggi
espressa dalle imprese.
La richiesta sacrosanta di una amministrazione piu' efficiente
che le imprese esprimono, nasconde infatti la domanda di una
nuova amministrazione, che sappia creare il milieux - cioe' un
sistema di regole e di relazioni - adatto al fiorire
dell'attivita' imprenditoriale. E ci in una prospettiva che
abbia come riferimento non piu' solo la dimensione locale o
nazionale, ma anche quella internazionale.
NOTE
1) Il presente contributo si basa sulle rilevazioni
congiunturali sulle piccole imprese lombarde e milanesi
condotte dal 1988 al 1993 (rimandando, per riferimenti
puntuali e completi ai dati raccolti, alle newsletter, ai
rapporti quadrimestrali/semestrali e soprattutto ai rapporti
annuali prodotti in questi anni).
In sede introduttiva, vale la pena ricordare brevissimamente
alcuni aspetti di carattere metodologico che hanno
caratterizzato l'indagine congiunturale e che e' opportuno
tener presenti per una corretta lettura dei risultati della
stessa.
Innanzitutto, l'indagine si e' proposta di analizzare in
maniera piu' organica un segmento particolare di piccole
imprese: quelle di minore dimensione, su cui piu' carente
appare la ricerca empirica e quindi i dati e le informazioni
disponibili.
Le imprese del nostro campione sono infatti di dimensioni
ridotte; buona parte di esse (due terzi circa) presentano un
organico che non supera i 20 addetti.
Quest'ultima caratteristica conferisce ai dati dell'indagine -
rispetto alle altre indagini esistenti nell'area lombarda e
all'accertata carenza di indagini specifiche sul segmento di
imprese di piu' piccole dimensioni - un particolare valore ai
fini di una maggiore comprensione delle dinamiche che
connotano specificamente il sistema delle piccolissime
imprese.
I dati qui presentati si riferiscono, poi, a diverse 'fasi'
della rilevazione congiunturale.
Dopo un ciclo triennale di indagine in qualche modo
'sperimentale', con rilevazioni quadrimestrali e analisi
sintetica annuale, la rilevazione ha assunto, nel corso del
1992, una cadenza semestrale: a un questionario molto agile
finalizzato alla lettura del trend congiunturale del primo
semestre dell'anno e' stata unita la somministrazione di un
questionario piu' ampio per la rilevazione di indicatori su
base annuale e finalizzato, allo stesso tempo, a indagare
un'area monografica di particolare interesse (nel '92-'93 e'
stata dedicata all'approfondimento della figura e del profilo
del piccolo imprenditore).
Per quanto concerne il settore merceologico e' da rilevare la
prevalenza dell'industria meccanica, seguita, con dimensioni
per molto piu' ridotte, da quella metallurgico-siderurgica,
da quella tessile-abbigliamento e da quella della plastica-
gomma. Si tratta, infine, di aziende relativamente giovani,
per la gran parte costituite dopo il 1970: precisamente, un
terzo e' nato nel corso degli anni '70 e un altro terzo circa
e' stato costituito negli anni '80.
Va infine osservato che i dati sul 1992 riguardano le imprese
lombarde, mentre quelli per il 1993 si riferiscono a imprese
milanesi.