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Impresa & Stato N°28 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

IL PICCOLO IMPRENDITORE A META' DEGLI ANNI'90

di Michele Colasanto


Il modo di porsi delle imprese minori rispetto ai nuovi scenari economici, alle trasformazioni dei sistemi produttivi e ai cambiamenti del lavoro costituisce un tema di grande rilevanza per il nostro Paese. Il problema evidentemente non e' riducibile alla pur fondamentale questione dell'innovazione tecnologica, ma si allarga al complessivo ripensamento della forma-impresa, delle sue strategie, delle sue relazioni con mercati sempre piu' instabili e competitivi e con ambienti sociali che rappresentano il retroterra irrinunciabile dell'agire economico.
Per capire piu' in profondita' la situazione attuale del sistema delle piccole e medie imprese milanesi e lombarde occorre non dimenticare i tratti specifici della seria crisi economica che si e' registrata nei primi anni '90. Dopo la forte crescita avvenuta nel corso degli anni '80, l'ultimo ciclo recessivo ha operato infatti una severa selezione tra le imprese che, se da un lato ha contribuito a espellere dal mercato le unita' economiche piu' deboli e meno competitive, dall'altro ha determinato una significativa dispersione di quel patrimonio di imprenditorialita' che e' condizione primaria dello sviluppo di un sistema economico diffuso come quello italiano, e lombardo in particolare.
Nei primi anni '90, il sistema delle Pmi (Piccole Medie imprese) aveva incontrato non poche difficolta' nel mantenere i livelli produttivi precedenti la crisi. La recessione ha infatti colpito duramente anche questo comparto. Il peggio e' stato evitato grazie alla manovra sui cambi, che ha permesso un rapido recupero mediante il sensibile e rapido aumento delle esportazioni. Non a caso, la percentuale di Pmi che ha collocato sui mercati esterni i propri prodotti e' in questi anni notevolmente cresciuta.
I dati sono senz'altro molto positivi e vanno al di la' di ogni piu' rosea previsione. Molte Pmi esportano oggi quote rilevanti del loro fatturato, mentre la produzione si orienta verso diversi mercati: l'Europa Occidentale continua a costituire lo sbocco privilegiato, anche se si stanno cominciando a rafforzare le posizioni nel resto dell'Europa e negli Stati uniti. E' ad esempio significativo che circa la meta' del campione lombardo e ben l'80% di quello milanese e' stato all'estero per lavoro nell'ultimo anno. Fatto ancora piu' rilevante e' che l'apertura dei mercati su scala europea non sembra preoccupare molto i piccoli imprenditori del nostro campione, che anzi sono pronti a raccogliere la nuova sfida (Tabella 1). Di fronte alla creazione di un Mercato unico e alla crescente competitivita' internazionale gli intervistati tendono a sottolineare piu' le opportunita' che i rischi.
La competizione e' vista positivamente, come uno stimolo a ricercare l'innovazione e migliorare la qualita'. E ci e' un segnale importante di maturita' e di fiducia.
Come ogni buon libro di testo di economia insegna, per , una svalutazione cosi' forte come quella degli ultimi anni rischia di provocare benefici contingenti o peggio illusori: la facilita' con cui le imprese hanno potuto recuperare quote di mercato e livelli di competitivita' grazie ai vantaggi sui costi possono infatti far distogliere l'attenzione dai problemi strutturali e ritardare cosi' piu' profondi e coraggiosi processi di ristrutturazione. Ecco che allora e' importante cercare di guardare con piu' attenzione a questa realta' produttiva, senza farsi abbagliare dagli indicatori piu' conosciuti e positivi.

CHI E' OGGI IL PICCOLO IMPRENDITORE: ALCUNI ELEMENTI DEL SUO PROFILO
Chi e' oggi il piccolo imprenditore? Quali caratteristiche presenta il piccolo operatore economico che costituisce la parte vitale del nostro sistema produttivo?
La ricerca di questi anni sembra portare alcune conferme e qualche novita'.
Dal punto di vista biografico, i dati danno conto di un imprenditore che e' prevalentemente maschio (nel 90% dei casi) e relativamente giovane (oltre il 50% ha un'eta' inferiore ai 50 anni, e circa un quarto si colloca nella fascia tra 51 e 60 anni; Tabella 2).
Ci testimonia di un intenso quanto fisiologico ricambio imprenditoriale, che e' indice della persistente vitalita' di quello spirito imprenditoriale che ha caratterizzato il nostro Paese negli ultimi decenni.
Ci non toglie comunque che si stia ampliando anche la fascia di imprenditori di seconda generazione: circa due imprenditori su cinque hanno avuto il padre imprenditore il che sta a dire dell'avvio di un processo di stabilizzazione di questo insieme sociale (Tabella 3).
Ma non sappiamo ancora con certezza se ci determini un effetto di consolidamento dell'attivita' imprenditoriale o se viceversa ci produca un indebolimento della spinta iniziale, con l'allentamento delle motivazioni e dei codici valoriali e di comportamento tipici della generazione dei fondatori, favorita dall'attrattivita' di modelli comportamentali volti piu' ai consumi che agli investimenti.
un'altra conferma arriva dal livello di scolarizzazione che non e' particolarmente elevato: il piccolo imprenditore possiede in genere un titolo di studio medio, anche se va notato che il livello di scolarizzazione dell'imprenditore milanese si presenta piu' elevato che nel campione lombardo (Tabella 4).
Nonostante i profondi mutamenti, continua a essere molto diffuso il tradizionale percorso di crescita professionale i'dal bassoi': due su tre tra gli intervistati hanno nel passato lavorato come dipendenti, di solito nello stesso settore produttivo, anche se si profilano percorsi professionali piu' articolati, con piu' diffusi cambiamenti del settore di attivita' nel passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo (Tabella 5).
La crescita professionale on-the-job continua in ogni caso a essere una delle caratteristiche principali del piccolo imprenditore. Il che se da un lato determina una figura imprenditoriale esperta e conoscitrice dei mercati e dei processi produttivi, dall'altro tende a favorire una certa chiusura e diffidenza verso la realta' esterna, in particolare verso percorsi di formazione e aggiornamento. Cio' e' confermato dal fatto che poche sono le occasioni formative utilizzate ai fini di una crescita professionale; ben il 70% degli intervistati non ha mai partecipato a iniziative formative di interesse professionale da quando ha avviato l'attivita' imprenditoriale (e una quota estremamente esigua lo ha fatto negli ultimi tre anni).
La ricerca di autonomia rimane la motivazione di fondo che spinge a intraprendere tale attivita'. L'insofferenza verso la posizione dipendente rimane forte e ci indica il permanere di una valutazione diffusa che attribuisce al mettersi in proprio una forte valenza positiva. Si tratta di un dato culturale che non sembra scalfito dal tempo e che riesce anzi a rinnovarsi e a rigenerarsi (Tabella 6).
Con il desiderio di mettersi in proprio, trova conferma anche la spiccata etica del lavoro e un grande spirito di sacrificio: l'imprenditore attribuisce al lavoro una grande importanza non solo dal punto di vista economico, ma anche soprattutto dal punto di vista dell'autorealizzazione. Per questo e' disposto a rimanere in fabbrica per una media di dieci ore al giorno.
Facendo un raffronto con il passato, e' possibile notare che acquista importanza la dimensione espressiva e autorealizzativa, mentre si attenua la spinta e l'importanza dei valori legati alla famiglia. Ci spiega il fatto che gli imprenditori si dichiarano decisamente soddisfatti della propria attivita' lavorativa (57% dei casi, cui si aggiunge il 24% di soggetti molto soddisfatti in Regione e il 34% a Milano): la possibilita' di decidere, la forte dinamicita', il piacere del rischio e della responsabilita' sono tutti fattori che rendono questo tipo di attivita' fortemente attraente.

LA PICCOLA IMPRESAE LE SUE STRATEGIE
Prendiamo ora in considerazione l'impresa, la sua organizzazione e le sue strategie.
Prima di tutto, i dati indicano la persistenza di una forte personalizzazione nella gestione dell'organizzazione aziendale. Ci trova conferma anche nella debolezza della struttura occupazionale e nello scarso utilizzo di figure specialistiche. In realta', il piccolo imprenditore mantiene un atteggiamento accentratore, tipico del leader e del capo carismatico. Cio' se da' conto della maggiore flessibilita' e dinamicita' decisionale di questo modello di impresa, dall'altro la espone al rischio di rimanere vincolata ai limiti connessi con la personalita' stessa del suo capo.
Tra le diverse funzioni, i piccoli imprenditori intervistati mettono ai primi posti il rapporto con il mercato e le funzioni commerciali in genere, e in particolare il miglioramento della qualita' dei prodotti e la ricerca di nuovi mercati e/o clienti. Quelle meno coltivate sono invece le funzioni connesse con la programmazione-impostazione del lavoro dei dipendenti e la gestione del personale.
Il piccolo imprenditore appare quindi dedicarsi con grande impegno alla dimensione della commercializzazione. Egli infatti sa bene che in mercati cosi' difficili e articolati come quelli attuali conta dotarsi di una strategia di mercato. E ci vale in particolare oggi in una situazione di turbolenza economica e di internazionalizzazione dei mercati. Si tratta di un'osservazione importante: da un lato perch- testimonia di un impegno da parte dei piccoli imprenditori nel cercare di costruire una propria coerente linea d'azione che si muove decisamente in contesti sovralocali e sempre piu' spesso internazionali; dall'altro perch- indica anche un riorientamento rispetto al passato, quando il piccolo imprenditore era invece concentrato sulla funzione direttamente produttiva. Ma al di la' della buona volonta' contano i risultati. Quello che e' certo e' che la forte dedizione a questa funzione indica altresi' un disagio, una fatica avvertita da un numero crescente di piccoli imprenditori che stentano a stare dietro alla rapidita' con cui il mercato si muove. E ci pone a rischio la stabilita' stessa dell'impresa. Quello che conta e' infatti riuscire a trovare un punto di equilibrio che permetta di migliorare la propria capacita' di azione sui mercati senza far perdere all'impresa l'alto profilo tecnologico-produttivo che l'ha caratterizzata negli anni passati.
In realta', uno dei problemi maggiori e' che molte di queste piccole imprese sono ancora delle isole. La loro appartenenza a reti produttive appare ancora incerta o inconsapevole. Come e' ovvio, queste imprese hanno molti rapporti sia con imprese piu' grandi sia con subfornitura. Ma la logica di fondo continua a essere quella della diffidenza: evitare a tutti i costi di essere troppo dipendente sia dal piu' forte (che ti pu distruggere) sia dal piu' piccolo (che ti puo' ricattare). Un atteggiamento di fondo di tipo individualistico costituisce un obiettivo ostacolo a entrare attivamente in reti produttive su scala locale, nazionale e internazionale.
Molti fattori possono spiegare questo dato, ma credo che quello prevalente sia la difficolta' del piccolo imprenditore a uscire dagli ambiti che egli sa di controllare in modo assoluto (primo fra tutti quello familiare).
Diversi indicatori confermano questa affermazione. Mentre l'impiego di familiari (nel 54-57% dei casi) e parenti (nel 30% dei casi) e' ancora molto frequente, per quanto attiene al sistema dei servizi, la rilevazione mette in evidenza che rimane ancora scarsamente diffusa l'abitudine delle piccole imprese a rivolgersi all'esterno per lo svolgimento di servizi avanzati e qualificati. Come si puo' osservare nella Figura 1, le imprese del campione comprano pochi servizi e di bassa rilevanza strategica: le piccole imprese si rivolgono all'esterno per lo piu' per funzioni routinarie (quali il servizio paghe e stipendi o il servizio di consulenza finanziaria, quest'ultimo cresciuto nel periodo esaminato), mentre solo eccezionalmente la domanda e' rivolta a servizi piu' direttamente connessi con la produzione e l'organizzazione.
D'altro canto, in tutte le economie avanzate, insieme ai forti fenomeni di terziarizzazione, si sono sviluppati i processi di esternalizzazione e di subfornitura, cosi' che l'impresa si configura come un nodo all'interno di reti sempre piu' complesse, con la coesistenza di assetti proprietari molto concentrati, di accordi informali e diretti di relazioni professionali tra imprese duraturi nel tempo: la capacita' competitiva dell'impresa minore non risiede piu' solo e prevalentemente nella sua capacita' di rafforzarsi come unita' indipendente, ma anche nel piu' complessivo miglioramento del sistema di relazioni, formali e informali, entro cui e' inserita.
Negli ultimi anni circa un terzo delle imprese esaminate ha svolto attivita' di subfornitura (una quota questa inferiore alle rilevazioni precedenti, dove il valore era attorno al 45%). La maggioranza di queste tuttavia vincola a questo tipo di attivita' una quota del fatturato inferiore al 60 per cento. Non manca quindi la capacita' delle imprese esaminate di sfruttare i vantaggi della subfornitura, ma al tempo stesso non si pu non notare anche la loro ritrosia a esporsi eccessivamente. I piccoli imprenditori cercano cioe' di mantenere un collegamento diretto con il mercato in modo da garantirsi margini di manovra in caso di rallentamento della domanda.
Pochissime imprese hanno poi rapporti di subfornitura con aziende estere. Il che puo' indicare la persistente importanza della dimensione geografica e culturale in questo tipo di accordi commerciali, e quindi la difficolta' delle piccole imprese ad avere rapporti stabili se non in ambiti noti e relativamente ristretti.
Sembra emergere, in sostanza una grande propensione al mantenimento dell'autonomia. E' questa una constatazione che trova conferma alla luce di altri indicatori relativi all'esistenza di rapporti di diverso tipo con altre imprese.
Sulla base dei dati delle rilevazioni del '92, solo un esiguo numero di soggetti del campione (7%) dichiara di intrattenere rapporti di collaborazione (joint ventures, accordi per trasferimenti di tecnologie, cessioni o licenze di brevetti, marchi e know how ecc.) con altre imprese italiane e straniere. La quota si alza fino al 21%, con una significativa presenza di collaborazioni con aziende straniere, se consideriamo il campione di imprese milanesi nella rilevazione del '93. Inoltre solo il 13% delle imprese minori detiene, in via diretta o indiretta, partecipazioni al capitale sociale di altre imprese (italiane, in ogni caso).
Le piccole imprese, insomma, tendono a rimanere monadi, estremamente flessibili e dinamiche rispetto al mercato, ma paradossalmente ancora non sufficientemente capaci di creare sinergie con l'ambiente esterno. ' per meglio dire: se certo le imprese minori sono inserite entro reti di relazioni familiari e amicali ed entro circuiti di scambio e collaborazioni per lo piu' informali che costituiscono la struttura sociale a loro piu' contigua, tuttavia le sfide dell'attuale transizione rendono necessaria un'uscita da un certo 'isolamento', in quanto tali circuiti e reti relazionali non sembrano piu' sufficienti a garantire la competitivita'.
Di questo problema, le stesse imprese cominciano a rendersene conto: il bisogno in termini di servizi per la piccola impresa e la spinta alla collaborazione tra imprese (Tabella 1) costituiscono ormai due tra le esigenze piu' sentite tra gli imprenditori.
I limiti di una tale organizzazione emergono con chiarezza anche la' dove le cose vanno meglio, come ad esempio nelle esportazioni: oltre il 90% delle imprese esportatrici colloca i propri prodotti mediante contatti personali (Figura 2). Si tratta di una modalita' di approccio che certamente premia le grandi capacita' di iniziativa dell'imprenditore, ma che denota altresi' le difficolta' esistenti nel trovare canali piu' solidi per garantirsi l'accesso ai mercati esteri. Ancora poco diffusi e utilizzati sono consorzi e servizi per l'export, e cio' sia per la insufficiente sensibilita' da parte delle istituzioni a farsi promotrici di tali iniziative sia per la incerta disponibilita' a forme di collaborazione tra gli imprenditori. E d'altro canto, le difficolta' che si incontrano nello stabilire accordi di collaborazione stabili con imprese estere si individuano soprattutto nella carenza delle informazioni di tipo economico, carenza di occasioni di incontro di possibili partner, carenza di risorse umane.
La propensione di fondo a 'fare da soli' si riscontra poi inevitabilmente anche nella gestione finanziaria. Infatti, se pure va osservato che e' cresciuto sensibilmente il numero delle imprese che hanno fatto ricorso al sistema bancario utilizzando prestiti a lungo termine (cosi' come e' significativamente cresciuto l'impiego di altri sistemi di finanziamento come il leasing, di cui ora si avvale una quota di imprese pari al 46%), in realta' l'approvvigionamento di risorse finanziarie da parte delle imprese esaminate continua a essere perseguito battendo le strade piu' tradizionali. Ancora oggi, circa tre imprese su quattro realizzano un compiuto autofinanziamento (Tabella 7), a riprova del fatto che il piccolo imprenditore preferisce fare da solo, attingendo alle risorse della rete familiare e parentale.
un tale atteggiamento trova riscontro anche nell'uso che viene fatto dell'indebitamento (meno abitualmente impiegato per sostenere una strategia di sviluppo aziendale di lungo termine), come testimonia la netta prevalenza del ricorso al finanziamento a breve termine, impiegato in genere per far fronte a problemi temporanei di liquidita'.
In questa situazione, non sorprende che le Pmi hanno attraversato una fase di grave difficolta' finanziaria e che, piu' in generale, come ha osservato di recente il Mediocredito Lombardo, esse soffrono di una seria sottocapitalizzazione.
Osservando in particolare l'evoluzione del rapporto tra capitale netto e immobilizzi tecnici netti (che se superiori a 100 indica che a fronte degli impianti, dei macchinari e delle attrezzature, l'impresa dispone di risorse finanziarie non soggette a necessita' di smobilizzo) il Mediocredito Lombardo ha nella sua ultima rilevazione confermato questa situazione: Se da un lato la situazione puo' essere spiegata alla luce di una piu' consistente dinamica dei flussi di investimento delle imprese manifatturiere lombarde, l'incapacita' di adeguare in misura corrispondente le risorse finanziarie a titolo di rischio (e la parallela crescita dell'indebitamento a medio e lungo termine con il sistema creditizio) non puņ che gettare dubbi sulla possibilita' di proseguire lungo un sentiero di sviluppo non equilibrato sul piano finanziario.
Dal punto di vista dell'innovazione tecnologica, non c'e' dubbio infatti che gli anni '80 abbiano rappresentato anche per le piccole imprese un decennio assai dinamico, in cui molto del vecchio e' stato sostituito. Tuttavia l'osservazione sugli stock di innovazione tecnologica e produttiva incorporata nelle imprese non fugano certo, per l'arco temporale indagato, le preoccupazioni circa la capacita' innovativa delle imprese minori lombarde.
Innanzitutto, occorre sottolineare che una larga parte delle piccole imprese si e' resa conto delle nuove opportunita' connesse con le tecnologie informatiche e ha cercato in un modo o nell'altro di farvi fronte. La quasi totalita' di esse (anche se permane ancora una piccola quota, pari al 10% circa, che non l'ha fatto) ha computerizzato la gestione amministrativa, che e' considerata una soglia di ingresso minima nell'ambito delle nuove tecnologie (Tabella 8).
Per tutte le altre tecnologie appare nettamente inferiore l'utilizzo nelle imprese minori del campione, anche se il loro impiego e' sensibilmente cresciuto nel tempo, indicando un lento processo di diffusione tecnologica in corso. Nel caso di Milano la rilevazione del 1993 da' conto infatti che nell'85% dei casi e' stata introdotta una qualche forma di innovazione: prevale quella sul prodotto (20% dei casi), ma una quota consistente di imprese (53%) dichiara piu' tipi di innovazione (interventi sul prodotto, sul processo e organizzative).
Allo stesso modo, l'insistenza sul tema della qualita' ha fatto si' che il controllo della qualita' sia divenuto ormai una pratica largamente diffusa che interessa circa tre imprese su quattro (nel campione milanese circa la meta' delle imprese ha gia' introdotto o sta introducendo un sistema di qualita'). Va notato che tale controllo tende a concentrarsi prevalentemente sul prodotto finale, e che circa quattro imprese su dieci dichiarano di applicare un controllo sia sul processo sia sul prodotto finale.
Nel complesso, tuttavia, c'e' ragione di ritenere che rimangono ancora inadeguatamente diffuse le molte opportunita' che l'innovazione tecnologica ha reso disponibili in questi ultimi anni. Pur in presenza della crescita segnalata nell'arco di tempo esaminato, la percentuale delle imprese che ha introdotto nella propria organizzazione produttiva nuove macchine diminuisce infatti al crescere della complessita' delle macchine.
Si profila qui la necessita' di un grande sforzo per fare in modo che queste innovazioni penetrino in tutte le fibre del sistema delle piccole e medie imprese in tempi brevi, svecchiando procedure e pratiche profondamente radicate, ma che rischiano di spingere molte unita' economiche fuori dal mercato. un obiettivo questo che non pu certo essere limitato ad aspetti puramente economico-finanziari, ma che riguarda anche aspetti culturali e di preparazione degli imprenditori e della forza lavoro. Come e' noto, infatti, le piccole e medie imprese italiane hanno sfruttato nel corso degli anni '80 i margini di aumento della produttivita' consentiti dalla realizzazione di innovazioni incrementali di processo. Ma su questo fronte i margini di miglioramento sembrano oggi ridursi, mentre le unita' produttive di dimensione maggiore hanno avviato negli ultimi anni programmi in cui al centro della loro strategia vengono poste innovazioni di prodotto e radicali riorganizzazioni dei processi produttivi. Ed e' rispetto a queste sfide che le piccole imprese si dovranno misurare nei prossimi anni.
Le precedenti considerazioni si riflettono chiaramente osservando la qualita' del lavoro occupato nelle piccole imprese. I valori indicati nella Tabella 9 mostrano un contesto occupazionale fatto ancora prevalentemente di figure tradizionali, con poco piu' del 9% di imprese che segnala difficolta' nel reperire particolari profili professionali, e con una struttura produttiva che non prevede sostanzialmente l'impiego di dirigenti, di quadri o tecnici di particolare levatura.
La composizione dell'organico delle piccole imprese va, d'altra parte, messa in relazione con la qualita' del lavoro in esse presente e con i limiti strutturali di tale qualita' in unita' produttive di minori dimensioni.
Tali tendenze trovano conferma anche per quanto concerne il profilo dell'istruzione posseduta dalle risorse umane impiegate nelle piccole imprese (Tabella 10).
Facendo riferimento al dato in nostro possesso e relativo alle rilevazioni del 1992 e 1993, emergono alcune differenze tra i due campioni considerati. Nel campione lombardo sono pochissime le aziende in cui risulta occupato personale laureato; piu' presente risulta invece la fascia dei diplomati. Non e' necessario credo in questa sede ribadire l'importanza della valorizzazione della risorsa umana e in particolar modo della formazione. Credo per che si possa indicare questa come una delle maggiori contraddizioni del nostro modello di sviluppo, contraddizione che non potra' non tendere a esplodere nei prossimi anni: infatti, ci si deve chiedere come pu un sistema basato sulle piccole e medie imprese continuare a svolgere un ruolo di primo piano su scala mondiale se, una volta consumati tutta una serie di altri vantaggi competitivi che lo hanno sostenuto nel passato, esso non decide di investire decisamente sulla risorsa-uomo, visto che una struttura produttiva come questa e' in grado di vivere non gia' grazie ai vantaggi che l'organizzazione e' in grado di garantire, ma grazie a quelli che gli uomini e le loro relazioni riescono a produrre.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE PROSPETTIVE DI LAVORO
In conclusione, alla luce dei dati presentati, si puņ innanzitutto osservare che il sistema delle piccole imprese, pur continuando a mostrare una sostanziale stabilita', presenta altresi' aspetti problematici riferibili alla carenza di strategie di sviluppo piu' complessive, al permanere di un quadro di grande incertezza e frammentazione dei mercati, al processo di innovazione tecnologica che avviene in modo non sistematico e affidato al semplice learning by doing, alla scarsita' di quadri tecnici qualificati e piu' in generale all'insufficiente livello qualitativo delle risorse umane, all'orientamento internazionale che ha bisogno di uscire dalle logiche di breve periodo. In linea con i risultati di altre ricerche, le caratteristiche comuni alle imprese minori sembrano dunque riassumibili attorno ai seguenti elementi: 1) indipendenza dell'unita' aziendale (assetti proprietari); 2) proprieta' familiare; 3) isolamento dal contesto pubblico; 4) produzione di beni intermedi e contoterzismo; 5) autofinanziamento; 6) propensione agli accordi informali.
In questi primi anni '90, la piccola impresa italiana D e segnatamente quella lombarda D e' stata interessata da un profondo mutamento del sistema competitivo. La crisi congiunturale si e' cosi' intrecciata con una crisi piu' profonda, che forse pu essere definita di natura strutturale. E rispetto a questa valutazione, la ripresa export led che ha fatto seguito alla grave crisi congiunturale dei primi anni '90 non dirada del tutto le ombre che si allungano sul sistema delle Pmi milanesi.
La tesi che qui viene sostenuta e' che la prima generazione di imprenditori ha adempiuto al suo mandato. I risultati sono stati eccellenti in condizioni di mercato e tecnologiche molto diverse. Rispetto a quella prima ondata, si sono sovrapposti altri strati imprenditoriali - specie nel corso degli anni '80 - che hanno in parte mutato la natura dell'imprenditorialita'. Ci troviamo quindi a meta' del guado: all'interno di questo insieme, permangono caratteri della prima generazione intrecciati con elementi piu' innovativi ma anche con altri piu' problematici. Nel complesso, non si e' ancora affermato con nettezza un nuovo modello di piccolo imprenditore che costituisca il riferimento comportamentale e che sia in grado di indicare la strada per il futuro. Rispetto a questo passaggio occorre seriamente avvertire i rischi e le potenzialita' della fase attuale: occorre soprattutto evitare che, passata la spinta prodotta dalla svalutazione, ci si trovi a mal partito.
Le difficolta' sono connesse soprattutto con la complessificazione dei mercati che richiede strutture piu' solide o comunque la capacita' di entrare a far parte di reti che sono in genere molto esigenti e impegnative, soprattutto per quanto riguarda il livello tecnologico.
Cio' implica la diffusione di un nuovo tipo di piccola e media impresa che sappia soddisfare queste esigenze. Tale cambiamento e' naturalmente in parte gia' avvenuto, ma va completato e sostenuto.
L'indagine sinora svolta sembra indicare che un tale risultato pu essere ottenuto solo stimolando un riorientamento culturale. Per dirla in una battuta, si tratta di passare da un modello che valorizzava l'antica abilita' ad affrontare e risolvere i problemi pratici e tecnici a una nuova cultura imprenditoriale diffusa e condivisa che ponga i soggetti produttivi in grado di dialogare con mezzi e linguaggi tecnologicamente avanzati e di operare su scala internazionale. Fino a oggi solo una minoranza delle imprese ha saputo realizzare questo salto, mentre la maggior parte arranca o prende un po' di fiato grazie alla svalutazione. Ma e' essenziale che questa mutazione penetri in profondita' nel tessuto imprenditoriale, caratterizzato dall'assenza di grandi imprese leader e sostenuto dal lavoro e dall'impegno di migliaia di piccoli produttori.
Si tratta di trasformare in particolare la cultura organizzativa del piccolo imprenditore, non per elevare le dimensioni delle imprese, ma al contrario per permettere loro di continuare a essere piccole ma efficienti.
Molte questioni sono tra loro intrecciate: si e' gia' ricordato il tema dei livelli di scolarizzazione e di formazione degli imprenditori e della manodopera; c'e' poi una questione relativa all'etica dell'imprenditore lombardo, alla sua propensione al rischio, alla sua spinta a crescere e a investire: dopo la prima generazione, tutta caratterizzata da un'etica non solo del lavoro ma anche del risparmio e dell'investimento, occorre verificare meglio quali siano le motivazioni di fondo di questo gruppo sociale; c'e' poi la questione finanziaria e piu' in generale degli assetti proprietari, un tema connesso strettamente a quello delle reti, che rimanda a una grande capacita' di inventiva istituzionale.
E' fondamentale che questa trasformazione culturale si realizzi per prima cosa a Milano. Solo se il capoluogo sapra' disseminare al proprio interno questa nuova cultura, diventando modello per l'intera Regione, allora le possibilita' di rilancio potranno diventare realta'.
Numerose sono le implicazioni per il futuro del lavoro dell''sservatorio che derivano dall'impostazione sopra indicata.
In primo luogo, si deve rilevare che la conoscenza di questa importante componente del sistema economico e' ancora inadeguata. Molte delle nostre immagini sono stereotipi che probabilmente corrispondono solo in parte alla realta' attuale. In questo senso, lo sforzo che la Camera di Commercio insieme all'Api e l'universita' Cattolica ha promosso va certamente nella giusta direzione.
Dal punto di vista dei contenuti, mi sembra che, giunti a questo punto, si possano indicare tre aspetti particolarmente rilevanti per il lavoro dei prossimi anni.
In primo luogo, si deve conoscere meglio la composizione sociale dei piccoli e medi imprenditori. E cioe', da chi e' composto oggi questo gruppo socio-economico. Le ragioni per interrogarsi su questo tema sono diverse. Prima di tutto, il consolidamento che si e' verificato con il passare degli anni delle Pmi ne ha certamente influenzato la composizione sociale. Come si e' visto, molti piccoli imprenditori di oggi sono gli eredi dei fondatori e provengono quindi da una classe sociale che non e' la stessa dei loro padri.
D'altro canto, anche coloro che avviano nuove iniziative economiche sempre meno rispondono a quel profilo tipico degli anni '60 e '70 dell'operaio specializzato o del tecnico che si mette in proprio. Il livello di istruzione formale e non, la provenienza sociale, i percorsi individuali sono oggi diversi da quelli del passato, anche se non adeguatamente studiati. Si tratta in altre parole di tracciare un profilo adeguato di questo gruppo sociale nella convinzione che le immagini di cui si dispone siano ormai nettamente inadeguate.
Su questa linea, sara' utile anche approfondire alcuni atteggiamenti e orientamenti di questo gruppo sociale nei confronti della realta' esterna. In particolare, le aree che meritano interesse riguardano gli orientamenti nei confronti delle istituzioni, del mercato, della famiglia, della concorrenza internazionale e dell'Europa.
In questo modo si dovrebbe riuscire a tracciare un quadro che tenda a mettere in evidenza due principali elementi: da un lato i percorsi di mobilita' e - specularmente - l'eventuale consolidamento del senso di appartenenza sociale; dall'altro, il mutare del quadro valoriale e degli orientamenti all'azione condivisi dai piccoli imprenditori.
un secondo aspetto riguarda invece gli aspetti legati piu' propriamente ai nuovi assetti organizzativi e all'impatto che ci pu avere sul mercato del lavoro e sull'occupazione, sia in termini quantitativi che qualitativi. Cio' significa concentrarsi su due questioni tra loro strettamente intrecciate. Da un lato, la questione relativa ai network entro cui le piccole imprese lombarde si collocano (che possono essere piu' o meno estesi, complessi, articolati, simmetrici, paritari), con particolare riferimento agli eventuali sistemi di impresa o all'esistenza di centri di eccellenza che fungano da guida e sostegno del network stesso. Cio' comporta anche cercare di capire quali soluzioni organizzative-contrattuali vengono adottate per raggiungere piu' elevati standard di flessibilita' senza per perdere quegli elementi di fiducia personale che da sempre caratterizzano questa realta' produttiva. Dall'altro lato, osservare il tipo di lavoro che le piccole imprese oggi domandano e la qualita' dell'occupazione e del rapporto di lavoro che esse sono in grado di offrire all'interno di un regime di maggiore flessibilita'. In questo modo, sara' possibile valutare meglio da un lato la capacita' del sistema locale delle Pmi di adeguarsi alle mutate condizioni della concorrenza e della tecnologia e dall'altro il contributo che questo segmento produttivo e' in grado di offrire per il riequilibrio del mercato del lavoro.
C'e' infine un terzo aspetto, che e' il rapporto con le istituzioni circostanti, prime fra tutte quelle pubbliche. Si tratta di un tema al quale la ricerca di questi ultimi anni sta concedendo sempre maggiore attenzione. Non e' un caso che nel 1993 abbia ricevuto il Premio Nobel per l'economia Douglas North, il quale ha posto proprio il tema dei rapporti tra imprese e istituzioni al centro della sua riflessione. Le istituzioni - intese come i fattori che sono in grado di definire le regole del gioco, come fonte di riduzione dell'incertezza, come elemento di strutturazione dell'azione individuale - hanno il compito fondamentale di rafforzare il cammino e le ragioni di sopravvivenza dell'impresa minore.
Sarebbe troppo lungo ricostruire qui la storia della piccola impresa italiana, ma certo e' che il suo sviluppo e' da ricollegarsi, almeno in una prima fase, a una fattiva attenzione mostrata dalle istituzioni di questo Paese nei loro confronti. Poi certo la situazione e' peggiorata e la distanza che negli ultimi anni si e' venuta a creare tra le imprese e le istituzioni costituisce un gravissimo problema, rispetto al quale sarebbe pericoloso pensare che si possa continuare in una condizione di perenne supplenza. D'altro canto, qualunque ridefinizione di questi rapporti deve partire da un quadro concettuale profondamente rinnovato, che sappia comprendere la natura della domanda di statualita' oggi espressa dalle imprese. La richiesta sacrosanta di una amministrazione piu' efficiente che le imprese esprimono, nasconde infatti la domanda di una nuova amministrazione, che sappia creare il milieux - cioe' un sistema di regole e di relazioni - adatto al fiorire dell'attivita' imprenditoriale. E ci in una prospettiva che abbia come riferimento non piu' solo la dimensione locale o nazionale, ma anche quella internazionale.
NOTE
1) Il presente contributo si basa sulle rilevazioni congiunturali sulle piccole imprese lombarde e milanesi condotte dal 1988 al 1993 (rimandando, per riferimenti puntuali e completi ai dati raccolti, alle newsletter, ai rapporti quadrimestrali/semestrali e soprattutto ai rapporti annuali prodotti in questi anni).
In sede introduttiva, vale la pena ricordare brevissimamente alcuni aspetti di carattere metodologico che hanno caratterizzato l'indagine congiunturale e che e' opportuno tener presenti per una corretta lettura dei risultati della stessa.
Innanzitutto, l'indagine si e' proposta di analizzare in maniera piu' organica un segmento particolare di piccole imprese: quelle di minore dimensione, su cui piu' carente appare la ricerca empirica e quindi i dati e le informazioni disponibili. Le imprese del nostro campione sono infatti di dimensioni ridotte; buona parte di esse (due terzi circa) presentano un organico che non supera i 20 addetti. Quest'ultima caratteristica conferisce ai dati dell'indagine - rispetto alle altre indagini esistenti nell'area lombarda e all'accertata carenza di indagini specifiche sul segmento di imprese di piu' piccole dimensioni - un particolare valore ai fini di una maggiore comprensione delle dinamiche che connotano specificamente il sistema delle piccolissime imprese. I dati qui presentati si riferiscono, poi, a diverse 'fasi' della rilevazione congiunturale. Dopo un ciclo triennale di indagine in qualche modo 'sperimentale', con rilevazioni quadrimestrali e analisi sintetica annuale, la rilevazione ha assunto, nel corso del 1992, una cadenza semestrale: a un questionario molto agile finalizzato alla lettura del trend congiunturale del primo semestre dell'anno e' stata unita la somministrazione di un questionario piu' ampio per la rilevazione di indicatori su base annuale e finalizzato, allo stesso tempo, a indagare un'area monografica di particolare interesse (nel '92-'93 e' stata dedicata all'approfondimento della figura e del profilo del piccolo imprenditore). Per quanto concerne il settore merceologico e' da rilevare la prevalenza dell'industria meccanica, seguita, con dimensioni per molto piu' ridotte, da quella metallurgico-siderurgica, da quella tessile-abbigliamento e da quella della plastica- gomma. Si tratta, infine, di aziende relativamente giovani, per la gran parte costituite dopo il 1970: precisamente, un terzo e' nato nel corso degli anni '70 e un altro terzo circa e' stato costituito negli anni '80. Va infine osservato che i dati sul 1992 riguardano le imprese lombarde, mentre quelli per il 1993 si riferiscono a imprese milanesi.