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Impresa & Stato N°28 - Rivista della Camera di Commercio di Milano

IMPRESE E STATO: UNA PROSPETTIVA STORICA

di Alfred D. Chandler


Durante il secolo scorso e l'attuale, la forza competitiva di una nazione ha poggiato sulle sue capacita' industriali. La Gran Bretagna era nel XIX secolo leader mondiale perche' era la prima nazione industriale. Alla fine del secolo, la sua supremazia venne minacciata dalla Germania e dagli Stati Uniti.
La sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e poi nella Seconda ha permesso agli Stati Uniti di acquisire il predominio nell'economia mondiale.
Questa posizione e' stata di recente messa in discussione dai successi industriali del Giappone e, in misura minore, della Germania. In questo contesto mi sono concentrato sul ruolo dello Stato nel mantenere la forza competitiva industriale di una nazione all'interno di un'economia sempre piu' globale. Sia la nazione in senso moderno che l'industria moderna di grandi dimensioni hanno fatto la loro comparsa nella seconda meta' del XIX secolo.
Iniziero' quindi ripercorrendo in breve le fasi della nascita della moderna impresa industriale. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, i nuovi sistemi ferroviari, telegrafici, di trasporto marittimo e di comunicazione resero possibile il flusso costante e regolarmente programmato di merci e informazioni, in quantita' elevate come mai in precedenza, attraverso le economie nazionali e internazionali.
Mai prima di allora, i produttori erano stati in grado di ordinare grosse quantita' di merci con la certezza di riceverne la consegna entro, diciamo, una settimana; ne' avrebbero potuto promettere ai propri clienti la consegna di merci in quantita' altrettanto elevate in una data specifica.
Il potenziale di produzione di merci a velocita' e in misura molto maggiori produsse un'ondata di innovazioni tecnologiche che spazzo' l'Europa occidentale e gli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo e determino' quello che gli storici hanno definito, in modo quanto mai proprio, la Seconda Rivoluzione Industriale, diversa dalla "Prima" verificatasi in Gran Bretagna alla fine del XVIII secolo. La Prima Rivoluzione Industriale avvenne con l'applicazione del carbone prodotto e dei macchinari a vapore all'industria mineraria e alla produzione tessile, di metalli e di prodotti metallici.
Durante la Seconda Rivoluzione Industriale le industrie si trasformarono, arrivando a comprendere la produzione di acciaio, rame e alluminio, la raffinazione del petrolio e dello zucchero, la lavorazione dei cereali e di altri prodotti agricoli e l'inscatolamento e l'imbottigliamento dei prodotti in tal modo lavorati. Nacquero nuove industrie.
I nuovi procedimenti chimici permisero la produzione di vernici, medicinali, fibre e fertilizzanti sintetici.
Apparvero rapidamente sui mercati nuove macchine per gli uffici, l'agricoltura e per cucire prodotte in massa, oltre a nuovi macchinari pesanti da utilizzare per una grande varieta' di impieghi industriali. Ma le piu' rivoluzionarie fra queste nuove tecnologie erano quelle che generavano e trasmettevano energia elettrica per l'illuminazione, i trasporti cittadini e l'energia industriale.
Le nuove industrie determinarono una crescita economica e giocarono un ruolo cruciale nella rapida trasformazione delle vecchie economie commerciali, agrarie e rurali in economie moderne, urbane e industriali. Le imprese di nuova formazione che crearono e ampliarono questi settori industriali iniziarono quasi subito a competere tra loro sui mercati internazionali.
Ora intendo esaminare il ruolo giocato dai governi nello sviluppo e nel mantenimento della potenza industriale di una nazione nel momento in cui le aziende iniziavano a competere tra loro all'interno di un'economia sempre piu' globale.
Prendero' in considerazione tre insiemi di nazioni: quelle che aprirono la strada verso l'industrializzazione (Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania); quelle che seguirono agli inizi del XX secolo (Francia e Italia); e l'ultima arrivata dall'Asia, divenuta una potente concorrente internazionale in questa fine del XX secolo: il Giappone.

I Primi Arrivati
Iniziero' quindi dalla Gran Bretagna.
L'Inghilterra fu l'unica nazione a industrializzarsi prima dell'avvento della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni della fine del XIX secolo. Quale patria della Prima Rivoluzione Industriale, essa divenne rapidamente l'economia industriale piu' produttiva del mondo. In questa rapida ascesa a potenza economica mondiale, lo Stato ebbe un ruolo a confronto minimo.
Ma all'epoca della Prima Guerra Mondiale, con il completamento dei sistemi ferroviari, telegrafici, di trasporto marittimo e di comunicazione, le aziende americane e tedesche cominciarono a estromettere i concorrenti inglesi dai mercati mondiali e, in alcuni casi, persino dagli stessi mercati interni britannici. Fu cosi' per l'acciaio, il rame, l'alluminio e altri metalli, macchinari leggeri e pesanti, apparecchiature elettriche, cantieri navali e prodotti tessili e successivamente, negli anni Venti di questo secolo, per l'industria automobilistica.
Questi attacchi costrinsero il governo britannico ad assumere un ruolo sempre piu' importante nell'industria. Suo scopo primario era salvare imprese appartenenti ai settori industriali cosiddetti malati, in particolar modo delle costruzioni navali, dell'acciaio e dei prodotti tessili. Ma malgrado gli sforzi compiuti dallo Stato, il declino continuo'.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo britannico rafforzo' la propria partecipazione nell'industria attraverso la nazionalizzazione dei settori dell'acciaio e delle automobili, ma i risultati furono ancor meno efficaci che in precedenza. La forza concorrenziale della Gran Bretagna continuo' a declinare.
Come ha evidenziato uno storico inglese: "Nel 1950 la Gran Bretagna deteneva ancora il 25% delle esportazioni mondiali, ma nel 1975 questa percentuale era scesa al 9%... La maggior parte delle industrie inglesi automobilistiche, elettroniche e di altri settori tecnologicamente avanzati erano di proprieta' di aziende straniere". In Gran Bretagna, le politiche di salvataggio e di nazionalizzazione devono quindi essere considerate fallimentari.

Gli Stati Uniti
Sebbene la produzione dell'industria americana fosse cresciuta in modo impressionante gia' durante il ventennio precedente al 1914, fu la sconfitta bellica della Germania a dare alle imprese industriali multinazionali statunitensi il vantaggio competitivo sui mercati mondiali. Prima della Prima Guerra Mondiale, le aziende tedesche erano leader nei prodotti chimici, farmaceutici e nei macchinari pesanti; le imprese americane lo erano invece nei macchinari leggeri, per esempio, nelle macchine per cucire, agricole e per ufficio e successivamente nelle automobili.
L'industria mondiale delle apparecchiature elettriche era dominata da quattro aziende, due tedesche (Siemens e Aeg) e due americane (General Electric e Westinghouse).Dopo la guerra, le aziende chimiche e di materiali elettrici statunitensi si rafforzarono moltissimo sui mercati internazionali, mentre le aziende leader della nuova industria automobilistica di massa dominavano il mondo. Nel 1928 il 72% di tutte le autovetture esportate nei mercati esteri erano americane.
Quell'anno l'industria statunitense produsse 4,4 milioni di vetture rispetto alle 212.000 della Gran Bretagna, le 210.000 della Francia, le 123.000 della Germania e le 24.000 del Giappone. Tutte, eccetto 350 di produzione giapponese, erano prodotte dalla General Motors e dalla Ford.L'avvento della Grande Depressione ridusse drasticamente la produzione dell'industria automobilistica e di altri settori sia negli Stati Uniti che nel resto delle nazioni del mondo.
Poi venne la massiccia mobilitazione industriale necessaria per vincere la Seconda Guerra Mondiale che, negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale, diede agli Stati Uniti la certezza di avere un irresistibile potere economico.Prima della Seconda Guerra Mondiale le politiche del governo miranti a influenzare l'industria americana furono essenzialmente di due tipi.
Uno tendente a proteggere il mercato interno applicando dazi sulle merci importate; l'altro teso a prevenire la nascita di monopoli. Nessuno dei due ebbe un grosso impatto sulla crescita della potenza industriale americana. L'imposizione di dazi fu il risultato delle forti pressioni politiche applicate dagli industriali sul Congresso.
In ogni caso, dal momento che i produttori delle nuove industrie ad alta densita' di capitale erano divenuti produttori a basso costo a livello mondiale, essi potevano vendere a prezzi piu' bassi della maggior parte dei concorrenti stranieri presenti sul mercato americano.
L'applicazione dei dazi non fece quindi altro, nella maggior parte dei casi, che aumentare i loro profitti.
La leglislazione anti-trust, dialtro canto, mirava a prevenire la formazione di monopoli e a frammentare le concentrazioni industriali gia' esistenti. Ironicamente, rendendo illegali i cartelli, fu la leglislazione stessa a incoraggiare le imprese ad abbandonare le associazioni commerciali e gli altri accordi a cartello per fondersi in singole societa' di grosse dimensioni. Come risultato, quasi tutte le maggiori industrie ad alta densita' di capitale erano dominate da poche grandi imprese; vale a dire, esse divennero degli oligopoli anziche' dei monopoli.
Nel corso di tutto il XX secolo, l'azione governativa anti- trust ha trasformato in oligopoli solo un numero ridotto di monopoli. E un numero ancor piu' limitato di oligopoli si e' trasformato in industrie veramente concorrenziali.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i dazi sono stati tutti eliminati e il numero di azioni governative anti-trust si e' parecchio ridotto. Dopo la guerra, l'impatto del governo sull'industria e' divenuto piu' indiretto che diretto, piu' macroeconomico che microeconomico.
Innanzitutto, a causa della Depressione l'industria americana ha permesso l'approvazione dell'Empoloyment Act del 1946 e il governo ha accettato il compito di mantenere l'economia generale attraverso politiche monetarie e fiscali.
In secondo luogo, durante la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda che ne e' seguita, il governo federale e' diventato un grande mercato per i prodotti di impiego militare. E, cosa altrettanto importante, ha cominciato a finanziare la ricerca di base in chimica, biologia, fisica e metallurgia nelle universita', negli istituti tecnici e nei laboratori.
La ricerca ha giocato un ruolo molto importante nello sviluppo delle industrie su base scientifica negli anni del dopoguerra. Questi fattori sono stati molto piu' importanti delle precedenti e piu' dirette politiche doganali e antimonopolistiche per lo sviluppo del potere concorrenziale del Paese.

La Germania
L'esperienza tedesca ci fornisce un esempio ancor piu' illuminante riguardo alla limitatezza del ruolo giocato dallo Stato nel mantenere la forza competitiva industriale nell'ambito di un'economia sempre piu' globale.
La posizione della Germania sui mercati internazionali e' stata distrutta due volte. Durante la Prima Guerra Mondiale i governi alleati si appropriarono delle consociate estere delle imprese tedesche e le trasferirono poi ai propri imprenditori. Durante il decennio tra il 1914 e il 1924, il blocco degli anni di guerra, seguito dall'occupazione militare post-bellica e dalla iperinflazione, tennero le aziende tedesche fuori dai principali flussi del commercio internazionale.
Cio' nondimeno, tra il 1925 e il 1929 le industrie tedesche si risollevarono a velocita' impressionante. Le imprese siderurgiche, metallurgiche e del rame divennero leader in Europa. Le industrie chimiche, farmaceutiche, di macchinari pesanti e di apparecchiature elettriche riconquistarono le loro posizioni internazionali.
Poi, l'avvento della Grande Depressione porto' quasi al collasso del commercio internazionale. Dopo il 1933 Hitler e i Nazisti iniziarono la trasformazione dell'economia tedesca in una macchina militare.Nuovamente, dopo una sconfitta ancor piu' devastante nella Seconda Guerra Mondiale e la divisione in due nazioni distinte, le industrie tedesche sono risorte dalle proprie ceneri.
Nel 1970 una Germania dell'Ovest molto piu' piccola e' tornata nuovamente a essere leader industriale d'Europa.
Bayer, Basf e Hoescht sono diventate le tre maggiori aziende chimiche del mondo, proprio come lo erano gia' state quasi un secolo prima.
Le industrie tedesche di macchinari, automobili e apparecchiature elettriche sono le piu' forti d'Europa.
Solo nei nuovi settori dell'elettronica di largo consumo e dell'elaborazione elettronica dati le aziende tedesche sono rimaste distanziate dalle concorrenti americane senza riuscire negli anni Ottanta a far fronte all'attacco dei giapponesi.
Lo Stato ha fornito assistenza in modo significativo solo a settori in declino come quello dell'acciaio e tale settore e' ben presto finito sotto il controllo della Comunita' Europea del Ferro e dell'acciaio, un'organizzazione che ancora calibra il declino di questa industria.Con l'eccezione del regime nazista, le politiche industriali dei governi tedeschi sono state piu' indirette che dirette.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, gli industriali tedeschi, come quelli statunitensi, hanno tratto beneficio dagli alti dazi doganali. Ma, a differenza degli Stati Uniti, la legislazione antimonopolistica e' stata scarsa. I contratti a cartello hanno continuato a essere applicabili in tribunale.
Dialtro canto, l'indiretto sostegno tedesco all'industria, in particolare attraverso il finanziamento statale di istituti tecnici e scientifici e istituzioni educative, e' cominciato verso la fine del XIX secolo. Nel 1914, gli istituti nazionali di fisica e chimica della Germania, al pari delle universita' e degli istituti tecnici finanziati dallo Stato, erano famosi in tutto il mondo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la sparizione dei cartelli e il declino dei dazi, l'impatto del governo tedesco e' stato piu' diretto. Anch'esso ha tentato di mantenere la stabilita' macroeconomica attraverso politiche fiscali e monetarie e ha continuato a finanziare i propri istituti tecnici, scientifici ed educativi.
Oggi, un secolo dopo che la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni ha portato alla trasformazione delle vecchie industrie e alla creazione di nuove, le imprese tedesche e americane sono ancora i giocatori piu' importanti in praticamente tutti i maggiori settori industriali a tecnologia avanzata e ad alta densita' di capitale. Oggi, la loro leadership viene minacciata piu' dalle aziende giapponesi, e persino coreane, che da quelle di Francia e Italia, nazioni la cui industrializzazione ha seguito quasi a ruota quella di Stati Uniti e Germania.

La Francia
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Francia deteneva il 6% della produzione industriale mondiale, collocandosi cosi' dietro agli Stati Uniti con il 32%, la Germania con il 16% e la Gran Bretagna con il 14 per cento. Le ragioni di questo distacco sono diverse.
Il mercato interno francese era piu' piccolo, in primo luogo perche' una grossa parte della forza lavoro era ancora occupata nell'agricoltura e abitava in zone rurali. Il numero potenziale di nuovi investitori era inferiore, i mercati finanziari piu' ristretti e la struttura bancaria meno sofisticata di quella di Stati Uniti e Germania.
Cio' nondimeno, nei settori industriali nuovi e trasformati della Seconda Rivoluzione Industriale, durante gli anni Venti del nostro secolo le imprese francesi divennero forti concorrenti: Schneider, Pont-a-Mousson e Pechiney nella metallurgia, St. Gobain nel vetro, Kuhlman e Rhone-Poulenc nei prodotti chimici e farmaceutici, Thomson-Houston nei materiali elettrici, e Renault, Peugeot, Citroæn e Michelin nelle automobili e nei pneumatici. Prima della Seconda Guerra Mondiale il governo francese fece poco, oltre a imporre dazi elevati sui prodotti delle concorrenti americane, tedesche e in alcuni casi inglesi di queste aziende, per incoraggiarne la forza competitiva.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo ha assunto un ruolo molto piu' attivo nel promuovere il potere competitivo dei settori industriali a tecnologia avanzata e ad alta densita' di capitale, caduti sotto il dominio degli oligopoli globali. E lo ha fatto attraverso la politica di promozione dei "campioni nazionali".
Questa politica riflette due fattori storici che differenziano i rapporti Stato/industria in Francia da quelli negli Stati Uniti e in Germania prima e dopo il regime nazista. Uno di essi e' l'accettazione, persino l'impegno, nei confronti delle industrie nazionalizzate in conformita' a una ideologia socialista largamente accettata. Questo impegno ha portato a qualche nazionalizzazione di industrie durante il governo di Leon Blum del 1936-37 e nuovamente subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.L'altra e piu' significativa differenza e' rappresentata dal sistema d'istruzione superiore francese: quello delle Grande Ecole's. Quasi tutti i top manager dell'industria e degli affari francesi e i funzionari statali piu' importanti si sono laureati alla Ecole' Polytechnique e negli istituti avanzati come la Ecole' des Mines.
I membri di questo ristretto gruppo elitario sono stati educati come generalisti. All'Ecole' Polytechnique si laureavano solo circa 300 studenti all'anno. Studiavano matematica e scienza pura, ma imparavano poco di scienza applicata, processi industriali e pratiche finanziarie.
Dopo la laurea, si muovevano tra uffici governativi e sedi centrali di grosse societa', e da imprese di un settore dell'economia a quelle di un altro.Su questo sfondo, permettetemi di passare in esame le modalita' con cui i membri di questo gruppo elitario hanno creato i campioni nazionali.
Lo hanno fatto fondendo e rimpastando le imprese leader di un settore industriale. Quindi, se tale rimpasto non riusciva a migliorare le prestazioni, lo Stato comprava l'impresa e la ristrutturava ulteriormente. Ora passero' in rassegna la creazione dei campioni nazionali francesi nel settore chimico, dell'alluminio, elettronico e petrolifero.
Nellindustria chimica, RhÖne-Poulenc, gia' leader del mercato, ha acquisito nel 1969 la divisione chimica della Peichney e nel 1976 quella della St.Gobain. Negli anni Settanta, l'impresa cosi' ampliata non e' andata molto bene, in parte a causa delle due crisi petrolifere di quel decennio.
Gravi perdite tra il 1979 e il 1982 hanno portato alla nazionalizzazione e a una grande ristrutturazione dell'organizzazione aziendale interna. Quando sono tornati gli utili, l'impresa nazionalizzata ha avviato una crescita aggressiva oltreoceano acquisendo la divisione chimica di tre grandi aziende americane.
Nel 1990 era ormai la settima compagnia chimica del mondo dietro a tre societa' americane, tre tedesche e una britannica. Negli stessi anni Peichney, privata delle sue attivita' chimiche, si e' concentrata in modo assai efficace sui prodotti in alluminio.
Dopo aver acquistato due compagnie americane negli anni Ottanta, e' diventata la terza industria produttrice di alluminio del mondo dopo Alcoa e Alcan.Nella Francia del secondo dopoguerra, i settori elettrici, elettronici e delle telecomunicazioni erano dominati da due societa': Thomson- Houston e Compagnie Ge'ne'ral diElectricite' (Cge).
Attraverso una serie ancor piu' complessa di rimpasti, nazionalizzazioni e acquisizioni all'estero, la Thomson e' diventata la seconda azienda produttrice di elettronica di largo consumo non giapponese del mondo, dietro alla olandese Philips e la Cge (il suo nome e' stato cambiato in Actel Alsthom) e' diventata una forte concorrente della AT&T, della Siemens e degli altri tre membri dell'oligopolio globale delle telecomunicazioni.
Nel petrolio, infine, la Elf Aquitane, compagnia petrolifera di proprieta' dello Stato fondata durante gli anni di De Gaulle, ha prosperato divenendo negli anni Ottanta la settima compagnia petrolifera del mondo dietro a quattro aziende americane, alla British Petroleum e alla Royal Dutch Shell.
Il ruolo svolto dallo Stato francese nell'aiutare a creare imprese che abbiano la forza di competere a livello globale ha pertanto avuto abbastanza successo. Ho paura che non si possa dire altrettanto dell'Italia. D'altro canto, l'Italia aveva piu' ostacoli da superare della Francia.L'ItaliaNel 1913 la produzione industriale italiana era molto al di sotto di quella francese.
L'Italia aveva un mercato di consumatori piu' piccolo, in particolare perche' la mancanza di industrializzazione nel Sud faceva si' che il settore agricolo rurale fosse ancora piu' ampio che in Francia. I fondi privati per gli investimenti nell'industria erano ancor piu' limitati. Anzi, il capitale privato disponibile non era semplicemente abbastanza per fornire i fondi necessari a costruire industrie ad alta densita' di capitale e tecnologicamente piu' complesse.
Nel corso di questo secolo la forza industriale della nazione si e' basata quindi piu' sulle industrie dei beni di consumo ad alta densita' di manodopera. Fino agli anni Ottanta le principali esportazioni erano costituite da prodotti tessili e abbigliamento; articoli per la casa (mobili, prodotti legati alla ceramica ed elettrodomestici); e prodotti per uso personale, in particolare gioielli, prodotti alimentari e bevande (compresi vino, pasta e verdure conservate) e macchinari specializzati per la produzione di queste merci. Cio' nondimeno, alcune aziende italiane divennero negli anni Trenta giocatori importanti in diversi settori industriali ad alta densita' di capitale.
Fra tali aziende vi sono Montecatini nel settore chimico, Edison nelle apparecchiature elettriche, Olivetti nelle macchine per ufficio e Fiat e Pirelli nelle automobili e nei pneumatici.
Come negli altri Paesi, lo Stato istitui' in fretta dazi elevati per proteggere il mercato interno dalle concorrenti multinazionali. Ma perche' il Paese si industrializzasse, il governo doveva fare qualcosa di piu' che limitarsi a imporre dazi sulle importazioni. Sin dall'inizio, lo Stato fu direttamente coinvolto nello sviluppo di nuove imprese e industrie. Inizialmente il suo sostegno ando' alla piu' essenziale delle nuove industrie, quella dell'acciaio.
Negli anni Ottanta del secolo scorso, forni' finanziamenti essenziali per Terni che divenne la maggiore produttrice di acciaio del Paese. Nel 1911 rifinanzio' l'intero settore siderurgico, in questo caso perche' le perdite nell'acciaio condussero al fallimento di una delle maggiori banche del Paese. Nella forte recessione industriale che segui' alla Prima guerra mondiale, lo Stato garanti' per la Banca Italiana di Sconto al fine di permettere alle imprese industriali, i cui titoli erano custoditi dalla banca, di rimanere solventi.
Questa continua pratica di salvare imprese deboli e sostenere un sistema bancario instabile condusse nel 1933, durante il periodo piu' buio della Grande Depressione, alla fondazione dell'azienda a partecipazione statale Iri.
Scopo iniziale dell'Iri era stabilizzare il sistema bancario italiano allentandone gli stretti legami con le imprese industriali visto che nel 1939 questi legami avevano minacciato di far crollare il sistema. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il pacchetto azionario dell'iri controllava l'80% della produzione cantieristica navale, il 45% dell'acciaio, il 39% delle apparecchiature elettriche e il 33% dei macchinari. In quegli anni le avventure all'estero di Mussolini in Africa Orientale e i legami sempre piu' stretti con la Germania di Hitler ampliarono ulteriormente il campo di intervento dello Stato nelle imprese industriali, giungendo a volte all'acquisizione delle stesse.
Dopo la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione che ne segui', il governo e' tornato alla sua pratica di prima della guerra, ossia il sostegno attivo alle imprese industriali detenendone le obbligazioni. Nel 1956 e' stato creato il Ministero delle Partecipazioni Statali. Oltre alle obbligazioni dell'Iri, il Ministero controllava anche quelle dell'Eni, l'impresa che a maggior titolo puo' essere definita un campione nazionale italiano.
L'Eni era stato fondato nel 1953 per unire tra loro le compagnie petrolifere e petrolchimiche statali. Il suo capo, Enrico Mattei, sin dal 1945 alla guida dell'Agip, la piu' grande compagnia petrolifera statale, strutturo' l'Eni come un'impresa globale paragonabile, anche se piu' piccola, alla francese Elf. Cio' nondimeno, il Ministero ha ben presto chiesto all'Eni di assumere il controllo di aziende deboli come la Lanerossi, una vecchia societa' tessile, e come Montedison (frutto di una precedente fusione di Montecatini ed Edison), allora considerata come "le rovine fumanti" dell'industria chimica italiana.
Nel frattempo, sono state create altre due agenzie a partecipazione statale: l'Efim (primariamente per il macchinario pesante) e la Egam per il settore minerario.Di recente il governo italiano, come quello francese, ha deciso di privatizzare. Ha smantellato il Ministero delle Partecipazioni Statali, liquidato l'Egam e l'Efim e progettato di trasformare Iri ed Eni in societa' private.
La denazionalizzazione dell'iri sembra essere particolarmente impegnativa, dal momento che e' enorme il suo debito totale.E' palese che i continui sforzi dello Stato italiano per mantenere la forza competitiva delle maggiori industrie ad alta densita' di capitale hanno avuto scarso successo.
Il GiapponeRispetto all'europa, in Giappone lo Stato ha giocato un ruolo ancor piu' significativo, anche se abbastanza diverso, nella costruzione della forza necessaria alle imprese industriali per competere nell'economia internazionale. Eccetto che per la costruzione delle infrastrutture industriali iniziali (ferrovie, telegrafo e industria siderurgica), il Giappone non si e' affidato a imprese di proprieta' statale o finanziate dallo Stato.
L'industrializzazione iniziale del Giappone rappresenta una straordinaria impresa umana. Prima della Restaurazione Maiji, il Paese era rimasto quasi completamente isolato dal mondo per poco meno di due secoli e mezzo. La sua tecnologia, economia e societa' erano ancora paragonabili a quelle dell'Europa del tardo Medioevo. Visto che il Giappone aveva poche esportazioni agricole e minerarie, l'importazione di tecnologie moderne e l'esportazione di merci lavorate erano essenziali per la sua crescita economica.
Oltre a costruire e far funzionare le ferrovie, il telegrafo e una grande e nuova acciaieria, il governo creo' anche le prime industrie tessili, le organizzazioni minerarie, i collegamenti marittimi e simili.Ma prima della fine del secolo, queste imprese furono cedute a ricche famiglie (come Mitsui e Sumimoto) o ad aggressivi imprenditori (come i fratelli Iwasaki che fondarono il gruppo Mitsubishi).
Questi gruppi industriali fornirono quindi gli scarsi fondi e le ancor piu' scarse capacita' manageriali necessarie per lo sviluppo industriale. E lo fecero diversificandosi in un gran numero di industrie tra loro collegate. Oltre alle loro varie imprese industriali, essi fondarono e gestirono compagnie marittime, grandi societa' commerciali, banche e compagnie diassicurazione.
Negli anni Trenta di questo secolo, il Giappone aveva acquisito potenza industriale sufficiente per incoraggiare i suoi capi militari a iniziare l'occupazione della Cina e a espandere il dominio del Paese in Asia orientale. Nel 1941, per garantire la continuazione di tale dominio, il Giappone entro' in guerra con gli Stati Uniti.
A seguito della devastante sconfitta, dopo il 1945 il Paese ha dovuto riavviare da capo il proprio processo di industrializzazione.Oltre a disarmare le forze militari giapponesi, i vincitori abolirono gli zaibatsu, proibirono i dazi e scoraggiarono la produzione. Ma dopo lo scoppio nel 1950 del conflitto con la Corea, gli Stati Uniti hanno avuto bisogno del Giappone come base logistica e di sostegno. Hanno pertanto incoraggiato l'espansione delle strutture di produzione permettendo ai gruppi di imprese di riapparire sotto forma di keireteu. Tra queste, Mitsui, Mitsubishi e Sumimoto sono le dirette discendenti dei gruppi di prima della guerra e sono andate a occuparne le stesse sedi ricostruite. Altre come Fuji, Daiichi e Sanwa si sono formate attorno alle principali banche commerciali.
Al pari delle zaibatsu prima di loro, operavano in diversi settori industriali e disponevano di proprie compagnie commerciali, di trasporti e di assicurazioni. Dopo la guerra, quindi, sono stati questi gruppi imprenditoriali a prendere, come avevano fatto prima degli anni Trenta, le decisioni piu' importanti riguardo agli investimenti industriali, produzione e distribuzione e per quanto concerneva le merci da esportare e importare e le tecnologie da trasferire.
Sin dall'inizio, si sono messe in concorrenza tra loro e sempre di piu' con le multinazionali europee e americane sui mercati globali.Il ruolo dello Stato, e in particolare quello del Ministero del Commercio e dell'Industria (Miti), e' stato quello di guidare la crescita economica assistendo i gruppi imprenditoriali in due modi. Ha favorito il finanziamento attraverso prestiti bancari a basso interesse, in gran parte attraverso gli istituti bancari statali Japan Development Bank (Jdb - Banca per lo Sviluppo del Giappone) e Japan Imports-Exports Bank (Jieb - Banca Giapponese dell'Import-Export).
In ogni caso, non ha tentato di controllare le modalita' specifiche secondo cui venivano usati i prestiti, ne' ha detenuto azioni di imprese industriali alla maniera italiana. Queste banche hanno inoltre finanziato i progetti di ricerca e sviluppo altamente prioritari per i settori industriali critici, progetti che sono stati attuati in comune da diverse imprese. Ma anche in questo caso, la decisione su come sfruttare al meglio le opportunita' tecnologiche che ne derivavano e' sempre spettata alle singole aziende.
Lo Stato ha anche controllato il livello degli investimenti stranieri all'interno del Giappone al fine di favorire nel miglior modo possibile la capacita' concorrenziale a lungo termine dei produttori giapponesi. Il Miti, per esempio, si e' opposto all'apertura in Giappone di consociate a capitale completamente straniero a meno che la loro esistenza non fosse di importanza cruciale per la potenza industriale dello stesso Giappone.
Oltre alle barriere doganali, le societa' straniere hanno potuto entrare sui mercati giapponesi solo attraverso delle joint ventures che avrebbero cosi' portato in Giappone le tecnologie di produzione. Negli anni Sessanta e Settanta quasi tutte le maggiori societa' chimiche americane e alcune delle aziende farmaceutiche hanno realizzato delle joint ventures secondo queste modalita'. Ma solo a un numero molto ristretto e' stato permesso di gestire delle consociate totalmente di loro proprieta'.
Dialtro canto, il Miti ha consentito l'ingresso e la crescita di consociate completamente straniere se riteneva che i prodotti di queste societa' fossero essenziali per le esigenze industriali del Paese. Nei computer ha quindi incoraggiato il ritorno e la continua crescita delle consociate Ibm fino a che le ditte giapponesi non hanno acquisito le tecnologie e la competenza necessarie per produrre dei cloni degli Ibm. Nel settore dei semiconduttori, ha rifiutato a Motorola e a Texas Instrument il permesso di impiantare delle proprie sussidiarie in Giappone.
Nel campo dei circuiti integrati, il Miti non ha concesso alla Texas Instrument nemmeno l'autorizzazione per realizzare una joint venture con la Sony fino a che, dopo tre anni di negoziati, la compagnia americana non ha acconsentito a concedere in licenza il chip a tutti i produttori giapponesi.In questo modo, il governo giapponese ha quindi aiutato i produttori nazionali di apparecchiature elettroniche per l'elaborazione dati e di elettronica di largo consumo a diventare leader sui mercati di tutto il mondo. Ha fatto piu' o meno lo stesso nei motoveicoli e in altri macchinari leggeri.
Ma, cosa abbastanza interessante, le compagnie giapponesi non sono riuscite ad affermarsi con successo nella concorrenza globale nei settori chimici e farmaceutici nemmeno con un sostegno cosi' sofisticato da parte del governo. Queste industrie su base scientifica continuano infatti a essere dominate da centenarie imprese americane ed europee.

Conclusioni
In conclusione, permettetemi di sottolineare l'importanza di conoscere il passato storico, se si desidera comprendere il complesso presente. Un costruttivo rapporto tra governo e industria nell'ambito di un'economia sempre piu' globale richiede che si sappia quando, perche' e come e' inizialmente apparsa e si e' espansa in tutto il globo l'industria moderna.
In questo caso, la forza motrice del cambiamento fu lo sfruttamento di nuove opportunita' tecnologiche, in particolare quelle che fecero la loro comparsa dopo la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni verificatasi nel tardo XIX secolo.
Solo studiando la storia possiamo iniziare a capire perche' la Gran Bretagna ha perso la sua supremazia a favore di Germania e Stati Uniti; perche' Francia e Italia hanno avuto difficolta' a inserirsi negli esistenti oligopoli globali, solitamente dominati da aziende americane e tedesche che controllavano gran parte del commercio mondiale nei settori industriali a tecnologia avanzata e ad alta densita' di capitale; e perche' l'ultimo arrivato, il Giappone, ha avuto maggiore successo.
Solo prendendo in considerazione gli sviluppi storici possiamo cercare di comprendere la natura del ruolo dello Stato nel sostenere il potere competitivo di una nazione nell'ambito di un'economia sempre piu' globale, e perche' tale ruolo e' stato diverso da nazione a nazione.Se e' possibile apprendere una lezione storica da questa breve rassegna, essa e' che il ruolo piu' efficace che il governo possa assumere e' quello di proteggere all'inizio il mercato interno, quindi di tentare di dar stabilita' alla base interna attraverso politiche macroeconomiche monetarie e fiscali, e infine di fornire sostegno alle istituzioni scientifiche, tecniche ed educative essenziali per mantenere il potere competitivo.
Ma le vere decisioni riguardo allo sviluppo dei prodotti, ai processi di produzione, alla distribuzione e agli investimenti all'interno o all'estero devono rimanere di competenza delle stesse imprese industriali.