di Alfred D. Chandler
I Primi Arrivati
Iniziero' quindi dalla Gran Bretagna.
L'Inghilterra fu l'unica nazione a industrializzarsi prima
dell'avvento della rivoluzione dei trasporti e delle
comunicazioni della fine del XIX secolo. Quale patria della
Prima Rivoluzione Industriale, essa divenne rapidamente
l'economia industriale piu' produttiva del mondo. In questa
rapida ascesa a potenza economica mondiale, lo Stato ebbe un
ruolo a confronto minimo.
Ma all'epoca della Prima Guerra Mondiale, con il
completamento dei sistemi ferroviari, telegrafici, di
trasporto marittimo e di comunicazione, le aziende americane
e tedesche cominciarono a estromettere i concorrenti inglesi
dai mercati mondiali e, in alcuni casi, persino dagli stessi
mercati interni britannici. Fu cosi' per l'acciaio, il rame,
l'alluminio e altri metalli, macchinari leggeri e pesanti,
apparecchiature elettriche, cantieri navali e prodotti
tessili e successivamente, negli anni Venti di questo
secolo, per l'industria automobilistica.
Questi attacchi costrinsero il governo britannico ad
assumere un ruolo sempre piu' importante nell'industria. Suo
scopo primario era salvare imprese appartenenti ai settori
industriali cosiddetti malati, in particolar modo delle
costruzioni navali, dell'acciaio e dei prodotti tessili. Ma
malgrado gli sforzi compiuti dallo Stato, il declino
continuo'.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo britannico
rafforzo' la propria partecipazione nell'industria
attraverso la nazionalizzazione dei settori dell'acciaio e
delle automobili, ma i risultati furono ancor meno efficaci
che in precedenza. La forza concorrenziale della Gran
Bretagna continuo' a declinare.
Come ha evidenziato uno storico inglese: "Nel 1950 la Gran
Bretagna deteneva ancora il 25% delle esportazioni mondiali,
ma nel 1975 questa percentuale era scesa al 9%... La maggior
parte delle industrie inglesi automobilistiche, elettroniche
e di altri settori tecnologicamente avanzati erano di
proprieta' di aziende straniere". In Gran Bretagna, le
politiche di salvataggio e di nazionalizzazione devono
quindi essere considerate fallimentari.
Gli Stati Uniti
Sebbene la produzione dell'industria americana fosse
cresciuta in modo impressionante gia' durante il ventennio
precedente al 1914, fu la sconfitta bellica della Germania a
dare alle imprese industriali multinazionali statunitensi il
vantaggio competitivo sui mercati mondiali. Prima della
Prima Guerra Mondiale, le aziende tedesche erano leader nei
prodotti chimici, farmaceutici e nei macchinari pesanti; le
imprese americane lo erano invece nei macchinari leggeri,
per esempio, nelle macchine per cucire, agricole e per
ufficio e successivamente nelle automobili.
L'industria mondiale delle apparecchiature elettriche era
dominata da quattro aziende, due tedesche (Siemens e Aeg) e
due americane (General Electric e Westinghouse).Dopo la
guerra, le aziende chimiche e di materiali elettrici
statunitensi si rafforzarono moltissimo sui mercati
internazionali, mentre le aziende leader della nuova
industria automobilistica di massa dominavano il mondo. Nel
1928 il 72% di tutte le autovetture esportate nei mercati
esteri erano americane.
Quell'anno l'industria statunitense produsse 4,4 milioni di
vetture rispetto alle 212.000 della Gran Bretagna, le
210.000 della Francia, le 123.000 della Germania e le 24.000
del Giappone. Tutte, eccetto 350 di produzione giapponese,
erano prodotte dalla General Motors e dalla Ford.L'avvento
della Grande Depressione ridusse drasticamente la produzione
dell'industria automobilistica e di altri settori sia negli
Stati Uniti che nel resto delle nazioni del mondo.
Poi venne la massiccia mobilitazione industriale necessaria
per vincere la Seconda Guerra Mondiale che, negli anni
immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale, diede
agli Stati Uniti la certezza di avere un irresistibile
potere economico.Prima della Seconda Guerra Mondiale le
politiche del governo miranti a influenzare l'industria
americana furono essenzialmente di due tipi.
Uno tendente a proteggere il mercato interno applicando dazi
sulle merci importate; l'altro teso a prevenire la nascita
di monopoli. Nessuno dei due ebbe un grosso impatto sulla
crescita della potenza industriale americana. L'imposizione
di dazi fu il risultato delle forti pressioni politiche
applicate dagli industriali sul Congresso.
In ogni caso, dal momento che i produttori delle nuove
industrie ad alta densita' di capitale erano divenuti
produttori a basso costo a livello mondiale, essi potevano
vendere a prezzi piu' bassi della maggior parte dei
concorrenti stranieri presenti sul mercato americano.
L'applicazione dei dazi non fece quindi altro, nella maggior
parte dei casi, che aumentare i loro profitti.
La leglislazione anti-trust, dialtro canto, mirava a
prevenire la formazione di monopoli e a frammentare le
concentrazioni industriali gia' esistenti. Ironicamente,
rendendo illegali i cartelli, fu la leglislazione stessa a
incoraggiare le imprese ad abbandonare le associazioni
commerciali e gli altri accordi a cartello per fondersi in
singole societa' di grosse dimensioni. Come risultato, quasi
tutte le maggiori industrie ad alta densita' di capitale
erano dominate da poche grandi imprese; vale a dire, esse
divennero degli oligopoli anziche' dei monopoli.
Nel corso di tutto il XX secolo, l'azione governativa anti-
trust ha trasformato in oligopoli solo un numero ridotto di
monopoli. E un numero ancor piu' limitato di oligopoli si e'
trasformato in industrie veramente concorrenziali.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i dazi sono stati tutti
eliminati e il numero di azioni governative anti-trust si e'
parecchio ridotto. Dopo la guerra, l'impatto del governo
sull'industria e' divenuto piu' indiretto che diretto, piu'
macroeconomico che microeconomico.
Innanzitutto, a causa della Depressione l'industria
americana ha permesso l'approvazione dell'Empoloyment Act
del 1946 e il governo ha accettato il compito di mantenere
l'economia generale attraverso politiche monetarie e
fiscali.
In secondo luogo, durante la Seconda Guerra Mondiale e la
Guerra Fredda che ne e' seguita, il governo federale e'
diventato un grande mercato per i prodotti di impiego
militare. E, cosa altrettanto importante, ha cominciato a
finanziare la ricerca di base in chimica, biologia, fisica e
metallurgia nelle universita', negli istituti tecnici e nei
laboratori.
La ricerca ha giocato un ruolo molto importante nello
sviluppo delle industrie su base scientifica negli anni del
dopoguerra. Questi fattori sono stati molto piu' importanti
delle precedenti e piu' dirette politiche doganali e
antimonopolistiche per lo sviluppo del potere concorrenziale
del Paese.
La Germania
L'esperienza tedesca ci fornisce un esempio ancor piu'
illuminante riguardo alla limitatezza del ruolo giocato
dallo Stato nel mantenere la forza competitiva industriale
nell'ambito di un'economia sempre piu' globale.
La posizione della Germania sui mercati internazionali e'
stata distrutta due volte. Durante la Prima Guerra Mondiale
i governi alleati si appropriarono delle consociate estere
delle imprese tedesche e le trasferirono poi ai propri
imprenditori. Durante il decennio tra il 1914 e il 1924, il
blocco degli anni di guerra, seguito dall'occupazione
militare post-bellica e dalla iperinflazione, tennero le
aziende tedesche fuori dai principali flussi del commercio
internazionale.
Cio' nondimeno, tra il 1925 e il 1929 le industrie tedesche
si risollevarono a velocita' impressionante. Le imprese
siderurgiche, metallurgiche e del rame divennero leader in
Europa. Le industrie chimiche, farmaceutiche, di macchinari
pesanti e di apparecchiature elettriche riconquistarono le
loro posizioni internazionali.
Poi, l'avvento della Grande Depressione porto' quasi al
collasso del commercio internazionale. Dopo il 1933 Hitler e
i Nazisti iniziarono la trasformazione dell'economia tedesca
in una macchina militare.Nuovamente, dopo una sconfitta
ancor piu' devastante nella Seconda Guerra Mondiale e la
divisione in due nazioni distinte, le industrie tedesche
sono risorte dalle proprie ceneri.
Nel 1970 una Germania dell'Ovest molto piu' piccola e'
tornata nuovamente a essere leader industriale d'Europa.
Bayer, Basf e Hoescht sono diventate le tre maggiori aziende
chimiche del mondo, proprio come lo erano gia' state quasi
un secolo prima.
Le industrie tedesche di macchinari, automobili e
apparecchiature elettriche sono le piu' forti d'Europa.
Solo nei nuovi settori dell'elettronica di largo consumo e
dell'elaborazione elettronica dati le aziende tedesche sono
rimaste distanziate dalle concorrenti americane senza
riuscire negli anni Ottanta a far fronte all'attacco dei
giapponesi.
Lo Stato ha fornito assistenza in modo significativo solo a
settori in declino come quello dell'acciaio e tale settore
e' ben presto finito sotto il controllo della Comunita'
Europea del Ferro e dell'acciaio, un'organizzazione che
ancora calibra il declino di questa industria.Con
l'eccezione del regime nazista, le politiche industriali dei
governi tedeschi sono state piu' indirette che dirette.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, gli industriali
tedeschi, come quelli statunitensi, hanno tratto beneficio
dagli alti dazi doganali. Ma, a differenza degli Stati
Uniti, la legislazione antimonopolistica e' stata scarsa. I
contratti a cartello hanno continuato a essere applicabili
in tribunale.
Dialtro canto, l'indiretto sostegno tedesco all'industria,
in particolare attraverso il finanziamento statale di
istituti tecnici e scientifici e istituzioni educative, e'
cominciato verso la fine del XIX secolo. Nel 1914, gli
istituti nazionali di fisica e chimica della Germania, al
pari delle universita' e degli istituti tecnici finanziati
dallo Stato, erano famosi in tutto il mondo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la sparizione dei
cartelli e il declino dei dazi, l'impatto del governo
tedesco e' stato piu' diretto. Anch'esso ha tentato di
mantenere la stabilita' macroeconomica attraverso politiche
fiscali e monetarie e ha continuato a finanziare i propri
istituti tecnici, scientifici ed educativi.
Oggi, un secolo dopo che la rivoluzione dei trasporti e
delle comunicazioni ha portato alla trasformazione delle
vecchie industrie e alla creazione di nuove, le imprese
tedesche e americane sono ancora i giocatori piu' importanti
in praticamente tutti i maggiori settori industriali a
tecnologia avanzata e ad alta densita' di capitale. Oggi, la
loro leadership viene minacciata piu' dalle aziende
giapponesi, e persino coreane, che da quelle di Francia e
Italia, nazioni la cui industrializzazione ha seguito quasi
a ruota quella di Stati Uniti e Germania.
La Francia
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Francia
deteneva il 6% della produzione industriale mondiale,
collocandosi cosi' dietro agli Stati Uniti con il 32%, la
Germania con il 16% e la Gran Bretagna con il 14 per cento.
Le ragioni di questo distacco sono diverse.
Il mercato interno francese era piu' piccolo, in primo luogo
perche' una grossa parte della forza lavoro era ancora
occupata nell'agricoltura e abitava in zone rurali. Il
numero potenziale di nuovi investitori era inferiore, i
mercati finanziari piu' ristretti e la struttura bancaria
meno sofisticata di quella di Stati Uniti e Germania.
Cio' nondimeno, nei settori industriali nuovi e trasformati
della Seconda Rivoluzione Industriale, durante gli anni
Venti del nostro secolo le imprese francesi divennero forti
concorrenti: Schneider, Pont-a-Mousson e Pechiney nella
metallurgia, St. Gobain nel vetro, Kuhlman e Rhone-Poulenc
nei prodotti chimici e farmaceutici, Thomson-Houston nei
materiali elettrici, e Renault, Peugeot, Citroæn e Michelin
nelle automobili e nei pneumatici. Prima della Seconda
Guerra Mondiale il governo francese fece poco, oltre a
imporre dazi elevati sui prodotti delle concorrenti
americane, tedesche e in alcuni casi inglesi di queste
aziende, per incoraggiarne la forza competitiva.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo ha assunto un
ruolo molto piu' attivo nel promuovere il potere competitivo
dei settori industriali a tecnologia avanzata e ad alta
densita' di capitale, caduti sotto il dominio degli
oligopoli globali. E lo ha fatto attraverso la politica di
promozione dei "campioni nazionali".
Questa politica riflette due fattori storici che
differenziano i rapporti Stato/industria in Francia da
quelli negli Stati Uniti e in Germania prima e dopo il
regime nazista. Uno di essi e' l'accettazione, persino
l'impegno, nei confronti delle industrie nazionalizzate in
conformita' a una ideologia socialista largamente accettata.
Questo impegno ha portato a qualche nazionalizzazione di
industrie durante il governo di Leon Blum del 1936-37 e
nuovamente subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.L'altra e
piu' significativa differenza e' rappresentata dal sistema
d'istruzione superiore francese: quello delle Grande
Ecole's. Quasi tutti i top manager dell'industria e degli
affari francesi e i funzionari statali piu' importanti si
sono laureati alla Ecole' Polytechnique e negli istituti
avanzati come la Ecole' des Mines.
I membri di questo ristretto gruppo elitario sono stati
educati come generalisti. All'Ecole' Polytechnique si
laureavano solo circa 300 studenti all'anno. Studiavano
matematica e scienza pura, ma imparavano poco di scienza
applicata, processi industriali e pratiche finanziarie.
Dopo la laurea, si muovevano tra uffici governativi e sedi
centrali di grosse societa', e da imprese di un settore
dell'economia a quelle di un altro.Su questo sfondo,
permettetemi di passare in esame le modalita' con cui i
membri di questo gruppo elitario hanno creato i campioni
nazionali.
Lo hanno fatto fondendo e rimpastando le imprese leader di
un settore industriale. Quindi, se tale rimpasto non
riusciva a migliorare le prestazioni, lo Stato comprava
l'impresa e la ristrutturava ulteriormente. Ora passero' in
rassegna la creazione dei campioni nazionali francesi nel
settore chimico, dell'alluminio, elettronico e petrolifero.
Nellindustria chimica, RhÖne-Poulenc, gia' leader del
mercato, ha acquisito nel 1969 la divisione chimica della
Peichney e nel 1976 quella della St.Gobain. Negli anni
Settanta, l'impresa cosi' ampliata non e' andata molto bene,
in parte a causa delle due crisi petrolifere di quel
decennio.
Gravi perdite tra il 1979 e il 1982 hanno portato alla
nazionalizzazione e a una grande ristrutturazione
dell'organizzazione aziendale interna. Quando sono tornati
gli utili, l'impresa nazionalizzata ha avviato una crescita
aggressiva oltreoceano acquisendo la divisione chimica di
tre grandi aziende americane.
Nel 1990 era ormai la settima compagnia chimica del mondo
dietro a tre societa' americane, tre tedesche e una
britannica. Negli stessi anni Peichney, privata delle sue
attivita' chimiche, si e' concentrata in modo assai efficace
sui prodotti in alluminio.
Dopo aver acquistato due compagnie americane negli anni
Ottanta, e' diventata la terza industria produttrice di
alluminio del mondo dopo Alcoa e Alcan.Nella Francia del
secondo dopoguerra, i settori elettrici, elettronici e delle
telecomunicazioni erano dominati da due societa': Thomson-
Houston e Compagnie Ge'ne'ral diElectricite' (Cge).
Attraverso una serie ancor piu' complessa di rimpasti,
nazionalizzazioni e acquisizioni all'estero, la Thomson e'
diventata la seconda azienda produttrice di elettronica di
largo consumo non giapponese del mondo, dietro alla olandese
Philips e la Cge (il suo nome e' stato cambiato in Actel
Alsthom) e' diventata una forte concorrente della AT&T,
della Siemens e degli altri tre membri dell'oligopolio
globale delle telecomunicazioni.
Nel petrolio, infine, la Elf Aquitane, compagnia petrolifera
di proprieta' dello Stato fondata durante gli anni di De
Gaulle, ha prosperato divenendo negli anni Ottanta la
settima compagnia petrolifera del mondo dietro a quattro
aziende americane, alla British Petroleum e alla Royal Dutch
Shell.
Il ruolo svolto dallo Stato francese nell'aiutare a creare
imprese che abbiano la forza di competere a livello globale
ha pertanto avuto abbastanza successo. Ho paura che non si
possa dire altrettanto dell'Italia. D'altro canto, l'Italia
aveva piu' ostacoli da superare della Francia.L'ItaliaNel
1913 la produzione industriale italiana era molto al di
sotto di quella francese.
L'Italia aveva un mercato di consumatori piu' piccolo, in
particolare perche' la mancanza di industrializzazione nel
Sud faceva si' che il settore agricolo rurale fosse ancora
piu' ampio che in Francia. I fondi privati per gli
investimenti nell'industria erano ancor piu' limitati. Anzi,
il capitale privato disponibile non era semplicemente
abbastanza per fornire i fondi necessari a costruire
industrie ad alta densita' di capitale e tecnologicamente
piu' complesse.
Nel corso di questo secolo la forza industriale della
nazione si e' basata quindi piu' sulle industrie dei beni di
consumo ad alta densita' di manodopera. Fino agli anni
Ottanta le principali esportazioni erano costituite da
prodotti tessili e abbigliamento; articoli per la casa
(mobili, prodotti legati alla ceramica ed elettrodomestici);
e prodotti per uso personale, in particolare gioielli,
prodotti alimentari e bevande (compresi vino, pasta e
verdure conservate) e macchinari specializzati per la
produzione di queste merci. Cio' nondimeno, alcune aziende
italiane divennero negli anni Trenta giocatori importanti in
diversi settori industriali ad alta densita' di capitale.
Fra tali aziende vi sono Montecatini nel settore chimico,
Edison nelle apparecchiature elettriche, Olivetti nelle
macchine per ufficio e Fiat e Pirelli nelle automobili e nei
pneumatici.
Come negli altri Paesi, lo Stato istitui' in fretta dazi
elevati per proteggere il mercato interno dalle concorrenti
multinazionali. Ma perche' il Paese si industrializzasse, il
governo doveva fare qualcosa di piu' che limitarsi a imporre
dazi sulle importazioni. Sin dall'inizio, lo Stato fu
direttamente coinvolto nello sviluppo di nuove imprese e
industrie. Inizialmente il suo sostegno ando' alla piu'
essenziale delle nuove industrie, quella dell'acciaio.
Negli anni Ottanta del secolo scorso, forni' finanziamenti
essenziali per Terni che divenne la maggiore produttrice di
acciaio del Paese. Nel 1911 rifinanzio' l'intero settore
siderurgico, in questo caso perche' le perdite nell'acciaio
condussero al fallimento di una delle maggiori banche del
Paese. Nella forte recessione industriale che segui' alla
Prima guerra mondiale, lo Stato garanti' per la Banca
Italiana di Sconto al fine di permettere alle imprese
industriali, i cui titoli erano custoditi dalla banca, di
rimanere solventi.
Questa continua pratica di salvare imprese deboli e
sostenere un sistema bancario instabile condusse nel 1933,
durante il periodo piu' buio della Grande Depressione, alla
fondazione dell'azienda a partecipazione statale Iri.
Scopo iniziale dell'Iri era stabilizzare il sistema bancario
italiano allentandone gli stretti legami con le imprese
industriali visto che nel 1939 questi legami avevano
minacciato di far crollare il sistema. Alla vigilia della
Seconda guerra mondiale, il pacchetto azionario dell'iri
controllava l'80% della produzione cantieristica navale, il
45% dell'acciaio, il 39% delle apparecchiature elettriche e
il 33% dei macchinari. In quegli anni le avventure
all'estero di Mussolini in Africa Orientale e i legami
sempre piu' stretti con la Germania di Hitler ampliarono
ulteriormente il campo di intervento dello Stato nelle
imprese industriali, giungendo a volte all'acquisizione
delle stesse.
Dopo la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione che ne
segui', il governo e' tornato alla sua pratica di prima
della guerra, ossia il sostegno attivo alle imprese
industriali detenendone le obbligazioni. Nel 1956 e' stato
creato il Ministero delle Partecipazioni Statali. Oltre alle
obbligazioni dell'Iri, il Ministero controllava anche quelle
dell'Eni, l'impresa che a maggior titolo puo' essere
definita un campione nazionale italiano.
L'Eni era stato fondato nel 1953 per unire tra loro le
compagnie petrolifere e petrolchimiche statali. Il suo capo,
Enrico Mattei, sin dal 1945 alla guida dell'Agip, la piu'
grande compagnia petrolifera statale, strutturo' l'Eni come
un'impresa globale paragonabile, anche se piu' piccola, alla
francese Elf. Cio' nondimeno, il Ministero ha ben presto
chiesto all'Eni di assumere il controllo di aziende deboli
come la Lanerossi, una vecchia societa' tessile, e come
Montedison (frutto di una precedente fusione di Montecatini
ed Edison), allora considerata come "le rovine fumanti"
dell'industria chimica italiana.
Nel frattempo, sono state create altre due agenzie a
partecipazione statale: l'Efim (primariamente per il
macchinario pesante) e la Egam per il settore minerario.Di
recente il governo italiano, come quello francese, ha deciso
di privatizzare. Ha smantellato il Ministero delle
Partecipazioni Statali, liquidato l'Egam e l'Efim e
progettato di trasformare Iri ed Eni in societa' private.
La denazionalizzazione dell'iri sembra essere
particolarmente impegnativa, dal momento che e' enorme il
suo debito totale.E' palese che i continui sforzi dello
Stato italiano per mantenere la forza competitiva delle
maggiori industrie ad alta densita' di capitale hanno avuto
scarso successo.
Il GiapponeRispetto all'europa, in Giappone lo Stato ha
giocato un ruolo ancor piu' significativo, anche se
abbastanza diverso, nella costruzione della forza necessaria
alle imprese industriali per competere nell'economia
internazionale. Eccetto che per la costruzione delle
infrastrutture industriali iniziali (ferrovie, telegrafo e
industria siderurgica), il Giappone non si e' affidato a
imprese di proprieta' statale o finanziate dallo Stato.
L'industrializzazione iniziale del Giappone rappresenta una
straordinaria impresa umana. Prima della Restaurazione
Maiji, il Paese era rimasto quasi completamente isolato dal
mondo per poco meno di due secoli e mezzo. La sua
tecnologia, economia e societa' erano ancora paragonabili a
quelle dell'Europa del tardo Medioevo. Visto che il Giappone
aveva poche esportazioni agricole e minerarie,
l'importazione di tecnologie moderne e l'esportazione di
merci lavorate erano essenziali per la sua crescita
economica.
Oltre a costruire e far funzionare le ferrovie, il telegrafo
e una grande e nuova acciaieria, il governo creo' anche le
prime industrie tessili, le organizzazioni minerarie, i
collegamenti marittimi e simili.Ma prima della fine del
secolo, queste imprese furono cedute a ricche famiglie (come
Mitsui e Sumimoto) o ad aggressivi imprenditori (come i
fratelli Iwasaki che fondarono il gruppo Mitsubishi).
Questi gruppi industriali fornirono quindi gli scarsi fondi
e le ancor piu' scarse capacita' manageriali necessarie per
lo sviluppo industriale. E lo fecero diversificandosi in un
gran numero di industrie tra loro collegate. Oltre alle loro
varie imprese industriali, essi fondarono e gestirono
compagnie marittime, grandi societa' commerciali, banche e
compagnie diassicurazione.
Negli anni Trenta di questo secolo, il Giappone aveva
acquisito potenza industriale sufficiente per incoraggiare i
suoi capi militari a iniziare l'occupazione della Cina e a
espandere il dominio del Paese in Asia orientale. Nel 1941,
per garantire la continuazione di tale dominio, il Giappone
entro' in guerra con gli Stati Uniti.
A seguito della devastante sconfitta, dopo il 1945 il Paese
ha dovuto riavviare da capo il proprio processo di
industrializzazione.Oltre a disarmare le forze militari
giapponesi, i vincitori abolirono gli zaibatsu, proibirono i
dazi e scoraggiarono la produzione. Ma dopo lo scoppio nel
1950 del conflitto con la Corea, gli Stati Uniti hanno avuto
bisogno del Giappone come base logistica e di sostegno.
Hanno pertanto incoraggiato l'espansione delle strutture di
produzione permettendo ai gruppi di imprese di riapparire
sotto forma di keireteu. Tra queste, Mitsui, Mitsubishi e
Sumimoto sono le dirette discendenti dei gruppi di prima
della guerra e sono andate a occuparne le stesse sedi
ricostruite. Altre come Fuji, Daiichi e Sanwa si sono
formate attorno alle principali banche commerciali.
Al pari delle zaibatsu prima di loro, operavano in diversi
settori industriali e disponevano di proprie compagnie
commerciali, di trasporti e di assicurazioni. Dopo la
guerra, quindi, sono stati questi gruppi imprenditoriali a
prendere, come avevano fatto prima degli anni Trenta, le
decisioni piu' importanti riguardo agli investimenti
industriali, produzione e distribuzione e per quanto
concerneva le merci da esportare e importare e le tecnologie
da trasferire.
Sin dall'inizio, si sono messe in concorrenza tra loro e
sempre di piu' con le multinazionali europee e americane sui
mercati globali.Il ruolo dello Stato, e in particolare
quello del Ministero del Commercio e dell'Industria (Miti),
e' stato quello di guidare la crescita economica assistendo
i gruppi imprenditoriali in due modi. Ha favorito il
finanziamento attraverso prestiti bancari a basso interesse,
in gran parte attraverso gli istituti bancari statali Japan
Development Bank (Jdb - Banca per lo Sviluppo del Giappone)
e Japan Imports-Exports Bank (Jieb - Banca Giapponese
dell'Import-Export).
In ogni caso, non ha tentato di controllare le modalita'
specifiche secondo cui venivano usati i prestiti, ne' ha
detenuto azioni di imprese industriali alla maniera
italiana. Queste banche hanno inoltre finanziato i progetti
di ricerca e sviluppo altamente prioritari per i settori
industriali critici, progetti che sono stati attuati in
comune da diverse imprese. Ma anche in questo caso, la
decisione su come sfruttare al meglio le opportunita'
tecnologiche che ne derivavano e' sempre spettata alle
singole aziende.
Lo Stato ha anche controllato il livello degli investimenti
stranieri all'interno del Giappone al fine di favorire nel
miglior modo possibile la capacita' concorrenziale a lungo
termine dei produttori giapponesi. Il Miti, per esempio, si
e' opposto all'apertura in Giappone di consociate a capitale
completamente straniero a meno che la loro esistenza non
fosse di importanza cruciale per la potenza industriale
dello stesso Giappone.
Oltre alle barriere doganali, le societa' straniere hanno
potuto entrare sui mercati giapponesi solo attraverso delle
joint ventures che avrebbero cosi' portato in Giappone le
tecnologie di produzione. Negli anni Sessanta e Settanta
quasi tutte le maggiori societa' chimiche americane e alcune
delle aziende farmaceutiche hanno realizzato delle joint
ventures secondo queste modalita'. Ma solo a un numero molto
ristretto e' stato permesso di gestire delle consociate
totalmente di loro proprieta'.
Dialtro canto, il Miti ha consentito l'ingresso e la
crescita di consociate completamente straniere se riteneva
che i prodotti di queste societa' fossero essenziali per le
esigenze industriali del Paese. Nei computer ha quindi
incoraggiato il ritorno e la continua crescita delle
consociate Ibm fino a che le ditte giapponesi non hanno
acquisito le tecnologie e la competenza necessarie per
produrre dei cloni degli Ibm. Nel settore dei
semiconduttori, ha rifiutato a Motorola e a Texas Instrument
il permesso di impiantare delle proprie sussidiarie in
Giappone.
Nel campo dei circuiti integrati, il Miti non ha concesso
alla Texas Instrument nemmeno l'autorizzazione per
realizzare una joint venture con la Sony fino a che, dopo
tre anni di negoziati, la compagnia americana non ha
acconsentito a concedere in licenza il chip a tutti i
produttori giapponesi.In questo modo, il governo giapponese
ha quindi aiutato i produttori nazionali di apparecchiature
elettroniche per l'elaborazione dati e di elettronica di
largo consumo a diventare leader sui mercati di tutto il
mondo. Ha fatto piu' o meno lo stesso nei motoveicoli e in
altri macchinari leggeri.
Ma, cosa abbastanza interessante, le compagnie giapponesi
non sono riuscite ad affermarsi con successo nella
concorrenza globale nei settori chimici e farmaceutici
nemmeno con un sostegno cosi' sofisticato da parte del
governo. Queste industrie su base scientifica continuano
infatti a essere dominate da centenarie imprese americane ed
europee.
Conclusioni
In conclusione, permettetemi di sottolineare l'importanza di
conoscere il passato storico, se si desidera comprendere il
complesso presente. Un costruttivo rapporto tra governo e
industria nell'ambito di un'economia sempre piu' globale
richiede che si sappia quando, perche' e come e'
inizialmente apparsa e si e' espansa in tutto il globo
l'industria moderna.
In questo caso, la forza motrice del cambiamento fu lo
sfruttamento di nuove opportunita' tecnologiche, in
particolare quelle che fecero la loro comparsa dopo la
rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni verificatasi
nel tardo XIX secolo.
Solo studiando la storia possiamo iniziare a capire perche'
la Gran Bretagna ha perso la sua supremazia a favore di
Germania e Stati Uniti; perche' Francia e Italia hanno avuto
difficolta' a inserirsi negli esistenti oligopoli globali,
solitamente dominati da aziende americane e tedesche che
controllavano gran parte del commercio mondiale nei settori
industriali a tecnologia avanzata e ad alta densita' di
capitale; e perche' l'ultimo arrivato, il Giappone, ha avuto
maggiore successo.
Solo prendendo in considerazione gli sviluppi storici
possiamo cercare di comprendere la natura del ruolo dello
Stato nel sostenere il potere competitivo di una nazione
nell'ambito di un'economia sempre piu' globale, e perche'
tale ruolo e' stato diverso da nazione a nazione.Se e'
possibile apprendere una lezione storica da questa breve
rassegna, essa e' che il ruolo piu' efficace che il governo
possa assumere e' quello di proteggere all'inizio il mercato
interno, quindi di tentare di dar stabilita' alla base
interna attraverso politiche macroeconomiche monetarie e
fiscali, e infine di fornire sostegno alle istituzioni
scientifiche, tecniche ed educative essenziali per mantenere
il potere competitivo.
Ma le vere decisioni riguardo allo sviluppo dei prodotti, ai
processi di produzione, alla distribuzione e agli
investimenti all'interno o all'estero devono rimanere di
competenza delle stesse imprese industriali.