Impresa
& Stato n°48
COME
CAMBIA LA FUNZIONE FINANZIARIA D’IMPRESA
di
MAURO
BINI
Le conseguenze della creazione
della moneta unica si faranno sentire su tutti i fronti della gestione
aziendale, richiedendo una logica più orientata alla programmazione.
In
questa breve nota non tratterò degli aspetti direttamente attinenti
alla transizione all’Euro, ma piuttosto delle conseguenze della creazione
di un’area monetaria comune sulla funzione finanziaria di impresa.
L’Euro non rappresenta un’area
economica ottimale, cioè un’area nella quale i vantaggi per tutti
i Paesi partecipanti sono sicuramente superiori agli svantaggi. Quando
furono stabiliti i parametri di Maastricht, fra le due possibili strade:
consentire l’unificazione monetaria solo ad economie già integrate
o viceversa consentire di forzare l’integrazione con l’unificazione monetaria,
fu scelta la seconda via. L’interrogativo che dobbiamo porci quindi è
il seguente: come Paese avremo prevalentemente vantaggi o svantaggi dall’unificazione
monetaria? La risposta è la seguente: avremo vantaggi rilevanti
di ordine finanziario, e quindi anche grandi opportunità sul fronte
reale, ma la capacità di cogliere queste opportunità dipenderà
dalla consapevolezza delle nostre imprese di dover cambiare filosofia
di gestione.
L’errore più grande che
si può compiere affrontando lo scenario Euro è guardare alle
singole conseguenze gestionali separatamente. L’Euro genererà effetti
di portafoglio, cioè simultanei su tutti i fronti della gestione
aziendale; effetti che ad oggi è difficile stimare. In questa ottica
proviamo a interrogarci su quali siano i vantaggi che la creazione di un’area
economica comune dischiude. Il primo vantaggio consiste in minori costi
relativi alle transazioni con l’estero, nella forma sia di costi diretti
che di costi indiretti (connessi ai rischi di cambio). Il secondo vantaggio
è legato al fatto che l’unificazione monetaria genera l’irreversibilità
dei rapporti di cambio e ciò incide sulle aspettative degli operatori.
Quali sono invece gli svantaggi? L’unificazione monetaria si accompagna
a ciò che è stato battezzato “l’inconciliabile quartetto”,
cioè quattro condizioni macroeconomiche che non possono simultaneamente
verificarsi: libertà dei movimenti di capitale, libertà dei
movimenti commerciali, cambi fissi e libertà di politica monetaria.
Se queste quattro condizioni non si possono realizzare insieme, significa
anche che per avere cambi fissi, libertà di movimenti di capitale
e libertà commerciale (cioè l’Euro) dobbiamo perdere
libertà di politica monetaria.
MINORE FLESSIBILITÀ
FINANZIARIA
Cosa significa per un Paese
perdere libertà di politica monetaria? Significa rinunciare ad avere
tassi di interesse e tassi di cambio flessibili rispetto alle specifiche
esigenze di quel Paese. L’unificazione monetaria determina quindi minore
flessibilità finanziaria; questo difetto di flessibilità
sul fronte finanziario dovrà essere compensato da una maggiore flessibilità
di tipo reale. Questa è la grande novità introdotta dell’unificazione
monetaria.
Per esprimere la differenza
fra flessibilità reale e flessibilità fianziaria voglio riferirmi
ad un grafico. La Tabella 1 riporta il tasso
di disoccupazione di uno Stato degli USA - il Michigan - negli anni ’80;
la disoccupazione sale nel corso del tempo, ma poi viene mitigata dall’emigrazione
di forza lavoro. È questo un bell’esempio di flessibilità
sotto il profilo reale, cioè di mobilità dei fattori produttivi.
In altre parole, se il Michigan ha subìto un impatto negativo sotto
forma di shock esterno, supponiamo perché è aumentato il
prezzo del petrolio, e quello Stato è più esposto in termini
di importazione al petrolio rispetto al Texas che invece produce ed “esporta”
petrolio, l’effetto conseguente è una perdita di competitività
della base delle imprese del Michigan. Per ristabilire la produttività
dei fattori occorre che si riduca la base produttiva del Michigan e parte
della base produttiva si delocalizzi fuori dallo Stato. Il grafico illustra
che così è stato.
Adesso guardiamo un Paese europeo
(tabb. 2 e 3): il Belgio, in quegli stessi anni. La disoccupazione del
Belgio è messa a raffronto con la disoccupazione della media di
nove Paesi europei (Tabella 2). Il Belgio per
un certo periodo ha avuto una disoccupazione più elevata rispetto
ai Paesi europei per poi ritornare a un livello di disoccupazione allineato
a quello medio d’Europa. Cosa è successo? Come ha fatto il Belgio
a ridurre la disoccupazione? Di certo non c’è stata emigrazione;
è stata sufficiente una variazione reale del cambio. Il grafico
n. 3 illustra la variazione del cambio reale del franco belga rispetto
all’Ecu, dal quale si nota che il guadagno di ragioni di scambio da parte
del Belgio ha consentito al Belgio stesso di ridurre la disoccupazione.
Queste manovre di cambio nell’Europa
ad 11 non si potranno più fare. Non potendosi realizzare aggiustamenti
sul fronte finanziario, bisognerà dunque muovere le variabili reali.
Bisognerà ricreare le condizioni di produttività interna
allineate a quelle degli altri Paesi che partecipano all’Euro.
Per spiegare questo concetto
agli studenti nelle aule universitarie chiedo loro perché l’Africa,
che non è il più grande continente al mondo, ha il
maggior numero di paesi al mondo e il maggior numero di valute al mondo.
La risposta è semplice: perché il benessere dell’Africa dipende
prevalentemente dai prezzi delle materie prime, e i prezzi delle materie
prime sono così volatili e così poco correlati fra loro che
gli shock indotti dalle variazioni di prezzo sono così difformi
sui singoli Paesi da non consentire loro l’adozione di una moneta unica.
L’Africa è in qualche misura condannata ad avere tante valute, almeno
fino a che lo sviluppo economico non ne affrancherà il livello di
benessere dal prezzo delle materie prime.
INTEGRAZIONE FRA
ECONOMIE
Dunque l’unificazione monetaria
presuppone l’integrazione fra economie. In Europa solo taluni Paesi
sono già integrati fra loro, ad esempio Olanda e Belgio sono già
integrati con la Germania, le loro economie hanno una struttura simile
a quella tedesca. Esistono poi altri Paesi, Italia, Spagna e Portogallo,
i quali dall’ingresso nell’Euro traggono soprattutto vantaggi di ordine
finanziario ma non sono ancora integrati in termini reali con la cosiddetta
core Europe e puntano proprio con l’unificazione monetaria a “forzare”
l’integrazione. Infine vi sono Paesi come il Regno Unito, la Danimarca,
la Svezia che hanno scelto di non partecipare all’Euro nella prima fase
perché non sono integrati e non trarrebbero rilevanti benefici di
ordine finanziario.
Per altro, i parametri
del patto di stabilità (cioè le condizioni per rimanere nell’Euro)
non riguardano in nessun modo misure di integrazione tra le economie; non
è richiesta eguale produttività del capitale, né eguale
flessibilità di costo del lavoro, né eguale mobilità
delle risorse. I parametri del patto di stabilità attengono “esclusivamente”
ad alcuni elementi in grado di garantire la stabilità dell’area.
Che il 3% del disavanzo pubblico in un Paese lo si raggiunga con un livello
di imposizione fiscale molto elevato e con altrettante elevate spese, o
viceversa con basse imposte e basse spese, non conta; ciò perché
la stabilità è stata considerata comunque propedeutica allo
sviluppo. Questo principio applicato a paesi non ancora integrati economicamente
significa che la stabilità è propedeutica ad un diverso
sviluppo. Il segnale che ne scaturisce per l’uomo d’azienda è che
l’ unificazione monetaria è propedeutica a un cambiamento.
Il principale cambiamento che
ci è richiesto come Paese consiste nel produrre reddito senza produrre
inflazione (cioè debito pubblico). L’Italia negli ultimi venti anni
non è mai stata veramente capace di produrre reddito senza produrre
inflazione, fatta eccezione per un recente passato “virtuoso”. Di conseguenza
le imprese hanno sviluppato un “saper fare” di management che è
frutto di due decenni di inflazione alta e volatile. Oggi viviamo una fase
di inflazione contenuta, ma le nostre imprese sono ancora troppo diverse
da quelle di Paesi storicamente a bassa inflazione. La stabilità
dei prezzi determina infatti strutture organizzative più piatte,
meno organizzate in senso verticale, con minori costi di burocrazia, minori
costi di struttura (indiretti) e più costi diretti. La riflessione
aziendale che consegue logicamente alla presa di coscienza che l’unificazione
monetaria non sarà una operazione neutra è la seguente: molti
punti di forza delle nostre imprese possono essere spiazzati dal nuovo
contesto.
LE GRANDI OPPORTUNITÀ
Una riflessione in positivo
che da questa considerazione consegue è invece legata alle grandi
opportunità dell’Euro. L’inflazione infatti è una fonte di
rischio sistemico, essa esercita un effetto redistributivo tra imprese
capaci e imprese meno capaci, facendo pagare alle più capaci il
costo della redistribuzione in termini di tassi di interesse più
elevati, e offrendo alle imprese meno capaci i vantaggi di una maggiore
domanda interna (alimentata via debito pubblico) e di una maggiore domanda
estera legata alle variazioni del cambio (svalutazioni della Lira). Provo
a fare un identikit di queste imprese meno capaci: esse preferiscono investimenti
a veloce rigiro rispetto a investimenti di lungo termine, hanno strutture
dei costi più orientate ai costi variabili che ai costi fissi, hanno
investito più sul portafoglio prodotti e clienti e meno sulle capacità
di rinnovare il portafoglio prodotti/clienti nel tempo.
L’Euro pone le condizioni per
cambiare questi orientamenti gestionali perché la stabilità
che ad esso consegue consente uno sviluppo dei mercati finanziari favorevole
ad una diversa domanda di finanza da parte delle imprese. Il primo grande
vantaggio in tal senso sarà offerto dall’allungamento delle scadenze
sul debito e dal fatto che le imprese troveranno conveniente effettuare
finanziamenti a più lungo respiro, consolidando così la loro
forza competitiva. Un esercizio banale di matematica finanziaria consente
di comprendere questo. Un mutuo di 100 Lire della durata di 5 anni al tasso
del 5% richiede una rata annua di 23 Lire; un mutuo al tasso del 20%, cioè
ad un tasso quattro volte superiore, ma di durata doppia (dieci anni) prevede
una rata pressoché identica (24 Lire). In termini di flusso di cassa
conta molto di più la durata del finanziamento rispetto al livello
del tasso. Domani nel rapporto banca-impresa si discuterà più
delle scadenze che non del livello dei tassi.
Questa nuova logica è
molto diversa dalla precedente, quella tipica di scelte a veloce rigiro
dove conta il tasso, l’affare, o meglio il singolo affare ripetuto “n”
volte. Nella nuova logica spetta alla banca offrire una finanza utile a
fare affari nel lungo termine e al contempo selezionare gli imprenditori,
distinguendo fra più capaci e meno capaci. I risparmiatori, dal
canto loro, a causa dei più contenuti tassi a breve termine, saranno
indotti a sottoscrivere titoli a lunga scadenza, così che per le
banche sarà in generale più facile “trasformare” le scadenze.
La capacità che le nostre
imprese debbono guadagnare, anche grazie alla nuova finanza d’impresa,
consiste nel saper leggere i segnali di mercato; in particolare in un sistema
capitalistico le imprese devono saper leggere i prezzi di mercato e reagire
prontamente alle loro variazioni reali. Le imprese, in breve, devono diventare
più flessibili al sistema dei prezzi.
In un contesto di elevata inflazione
le imprese si impongono al mercato e trasferiscono tutte le loro inefficienze
al consumatore in un delta di prezzi. Ma quando non è più
possibile trasferire “a valle” la dinamica dei prezzi, quando il mercato
non riconosce più questa capacità, allora muta la prospettiva
perché le imprese sono chiamate a “star dentro” ai prezzi di mercato.
Questa inversione di tendenza - muovere dai prezzi per fare impresa, immaginare
cioè che i prezzi li stabilisca il mercato e che alle imprese spetti
adeguarvisi - porta naturalmente ad una logica gestionale più orientata
alla programmazione e più in generale a una gestione anticipata.
A questo deve volgere pure la finanza d’azienda.
 
|