Impresa
& Stato n°47
FISCO E CRIMINALITÀ
INTERNAZIONALI
di
Claudio
Sacchetto
Due
mondi che si intrecciano e si avviluppano sempre di più dentro e
fuori, e che quindi vanno combattuti congiuntamente.
Come
sembrano lontani i tempi nei quali ricerca di imponibili fiscali e repressione
penale venivano ritenute attività incompatibili e reciprocamente
indifferenti. In questi ultimi anni invece i due mondi fisco e criminalità
si intrecciano e si avviluppano sempre più nella realtà degli
stati nazionali e in quella transnazionale. Si registra inoltre una prepotente
affermazione della tendenza a far emergere e reprimere fenomeni chiaramente
e sostanzialmente criminali quando in precedenza si era preoccupati di
far salvi gli schermi formalistici soprattutto di tipo societario, si «legittimavano«
di fatto comportamenti illeciti dietro la scusante del rispetto rigoroso
delle procedure formali. Si assiste anche ad una scissione dei concetti
di proprietà e di disponibilità di fatto della ricchezza
e, in ultima analisi, l’affermarsi di una nozione puramente economica del
reddito.
Oggi
è per così dire entrato nel DNA di chi riveste funzioni di
autorità - ma anche, mi pare di poter dire, dell’opinione pubblica
più sensibile e attenta - l’idea che questi due mondi, quello della
pretesa fiscale e quello dell’attività criminale, non costituiscano
più delle «monadi» attive in universi incomunicabili,
ma generino, al contrario, una serie di causa-effetto dalle reciproche
interconnessioni, la cui analisi appare decisiva per le sorti stesse del
sistema del libero mercato come comunemente inteso, ovvero basato su principi
di concorrenza leale.
Un
mercato la cui internazionalizzazione (ove il processo di integrazione
europea costituisce solo un sia pur significativo tassello) trasferisce
su scala sempre più planetaria i problemi degli Stati più
avanzati, consentendo al contempo a élites dei paesi meno sviluppati,
comunque in grado di maneggiare i complessi strumenti dell’economia globale,
l’inserimento con operatività e finalità non sempre trasparenti
e armoniche con le regole tradizionali.
I
rapporti tra fisco e criminalità economica internazionale possono
oggi leggersi sotto diversi profili.
-
Rapporti tra conseguimento di ricchezza a mezzo di attività illecita
per l’ordinamento e pretesa erariale (il problema della c.d. tassazione
dei proventi illeciti).
-
Influenza dei processi economici sulla tassazione e, pertanto e inevitabilmente,
sulla strategia delle organizzazioni criminali: il ruolo della repressione
dell’illecito fiscale come elemento tenuto in considerazione dalle organizzazioni
criminali come «rischio di seconda battuta», incidente sul
reimpiego delle ricchezze illegalmente conseguite.
-
Influenza della pretesa fiscale come fattore genetico di fenomeni criminali
e non solo con riguardo alla criminosità delle condotte di evasione
dell’obbligo ma, anche se un po’ argomento non particolarmente apprezzato
e approfondito, all’adozione di scelte di politica fiscale tali da ingenerare
la creazione di mercati paralleli, per definizione illegali, idonei non
solo a determinare un ampliamento della platea dei soggetti criminali ma
anche un incremento di disponibilità economiche impegnate nello
sviluppo di attività criminali di più elevato spessore.
Per
fare un solo esempio, che ha riflessi internazionali, la politica impositiva
nel settore dei tabacchi lavorati, sostanzialmente riconducibile ad una
gratuita esosità statale, ha consentito alle varie congreghe criminali
guadagni tali da permetterne l’ingresso nella ben più lucrosa attività
del traffico degli stupefacenti, dell’immigrazione clandestina, etc. e
implementando così in modo esponenziale, con effetto non voluto,
potenzialità e diffusione dei nuovi fenomeni.
E
ancora evoca la possibilità, oggi in via di positivo affinamento,
di aggredire ricchezze sospette con l’utilizzo di analisi tipiche di metodiche
fiscali e parafiscali, cui fa da contraltare l’incidenza delle sempre più
sofisticate metodiche di controllo tributario sull’ingenerarsi di nuovi
fenomeni criminali.
Non
dimenticando poi le connessioni tra strumenti di repressione di attività
criminali (es. antiriciclaggio) e la ricostruzione di imponibili fiscalmente
rilevanti.
FISCO COME ATTIVITÀ
REPRESSIVA
Centrali
rispetto ad ogni analisi appaiono comunque, da un lato, l’esame dell’effetto
dell’utilizzo dello strumento fiscale in chiave repressiva dell’attività
criminale, dall’altro gli effetti di genetica criminale, distintamente
per fenomenologie organizzate e comuni, delle politiche fiscali (ovvero
di ricerca del gettito) e di repressione dei fenomeni evasivi.
Orbene,
l’utilizzo in chiave repressiva dello strumento fiscale è dato essenzialmente
proprio della lotta al crimine organizzato (il crimine comune contraddistinguendosi
per una minor sofisticazione nelle tecniche di reimpiego dei proventi):
esso tende ad attenuare quegli effetti di concorrenza sleale, fortemente
indotti da imprese o prestatori di servizi, che non incontrano difficoltà
di sorta nell’ottenimento del denaro necessario al finanziamento della
propria attività o che non hanno remore a ricercare e imporre complicità
presso soggetti terzi.
Se
infatti l’investimento produttivo si presta a comportamenti di evasione
e frode assai più di quello finanziario, contraddistinto quest’ultimo
sempre in misura maggiore dall’esistenza di imposizioni sostitutive sui
redditi di capitali puri, peraltro con aliquote da tempo in costante diminuzione,
i sistemi più evoluti si sono venuti via via attrezzando con norme
volte a reprimere i fenomeni indotti di interposizione fittizia (in Italia,
l’articolo. 37 del D.P.R. 600/73), tese a riattribuire capacità
contributiva ai soggetti realmente titolari in quanto aventi la disponibilità
di fatto del bene in forza di un accordo sostanzialmente simulatorio, sì
da superare gli schermi della intestazione formale e, sia pure con maggiore
discutibilità, della personalità giuridica, o a colpire indirettamente
gli investimenti realizzati attraverso l’impiego di mezzi di illecita provenienza
(sempre nel nostro paese attraverso l’articolo 38 e, in mancanza di dichiarazione,
l’articolo 41 dello stesso D.P.R. 600/73).
Se
è dato verificare come le organizzazioni criminali si inseriscono
nel mercato legale assumendo e conformandosi a modelli tipici dell’impresa
di successo (si pensi alle creazioni di holding e sub-holding all’estero),
emerge anche come l’esercizio dell’attività con modalità
legali espone il capitale illecito reimpiegato all’esame tributario con
sistemi di analisi e osservazione idonei a far emergere, nel caso di adozione
delle tecniche più sofisticate, la anamnesi storica di quel reimpiego.In
altri termini, le attività economiche finiscono per entrare comunque
nell’orbita di valutazione del fisco il quale controlla oltre che gli aspetti
di formazione rilevanti sul piano fiscale, anche gli aspetti di legalità
e liceità extratributaria della sua formazione.
L’adozione
della strumentazione tipica del controllo fiscale permetterà di
percorrere una analisi storica delle variazioni del capitale affidato all’attività,
la valutazione della compagine societaria e dei sistemi di rilevazione
contabile, valendosi delle tradizionali analisi delle variazioni delle
liquidità immediate o del circolante netto, delle poste dello stato
patrimoniale, ma anche riscontri di tipo bancario e l’esame dei conti di
reddito (in particolare di quelli accesi alle prestazioni di servizio fatte
o ricercate che maggiormente si prestano alla copertura di illeciti).
Ora,
se è vero che l’intervento degli strumenti fiscali potrà
determinare concreti effetti solo sui mezzi o sulle forme del reimpiego,
tuttavia potrà fornire elementi di importanza significativa anche
sulle possibili fonti di finanziamento (sovente assai diversificate e provenienti
da una pluralità di micro fatti delinquenziali) del cui esame si
faranno carico altri e diversi strumenti, quali ad esempio gli istituti
antiriciclaggio e gli strumenti nazionali di repressione del crimine organizzato
fondati sull’opera di intelligence e, come nel nostro paese, su istituti
speciali (art. 25 della legge 646/92 come modificata dalla legge 55/90).
Senza
trascurare il fatto, in verità tutt’altro che irrilevante, che l’aggressione
del realizzato accumulo di ricchezza consentirebbe di pervenire in prospettiva
e di fatto, all’«esproprio» dei mezzi di illecita provenienza
introdotti nell’ordinario circuito economico.
In
un contesto che vede la criminalità economica, vuoi come sottosettore
di attività delle varie associazioni criminali internazionali, vuoi
come forme autonome e sofisticate di piccoli gruppi di persone, attiva
nell’impiego di fondi nel settore immobiliare (sia nella forma tradizionale
di realizzazione di interventi residenziali che in quella più recente
ma anche più «internazionale» della realizzazione di
villaggi turistici), in quello finanziario (leasing, factoring, attività
di finanziare e intermediari finanziari atipici), in quello mobiliare,
nel rilevamento di aziende in crisi in operazioni sui capitali societari,
nell’attività di grande distribuzione, non manca l’utilizzo di forme
di allocazione di soggetti giuridici e attività finanziarie in paradisi
fiscal-bancari (e magari, seppur ormai straordinariamente ridotti rispetto
al passato, giudiziari) che spesso forniscono coperture della composizione
della compagine societaria e dall’effettivo beneficiario della rimessa
finanziaria insormontabili sotto il profilo civilistico e amministrativo.
Così
come è costante lo sfruttamento di quelle zone grigie degli ordinamenti
dove la cooperazione amministrativa tra gli Stati non riesce a supplire
ai gravi effetti della mancanza di armonizzazione.
Si
inserisce qui l’aspetto attualissimo degli strumenti disponibili e di cosa
si sia fatto e cosa si possa fare per reprimere anche con strumenti fiscali
la criminalità internazionale.
Ora,
se politiche di armonizzazione appaiono di grandissima difficoltà
per la molteplicità delle situazioni locali (basti pensare come
l’Unione Europea dopo sforzi titanici non è ancora riuscita a completare
il processo di armonizzazione dell’I.V.A.), difficoltà che appaiono
addirittura pressoché insormontabili, almeno nel medio periodo,
nel settore dell’imposizione diretta, ecco che assumono ruolo decisivo
le politiche di cooperazione amministrativa e penale (specie attraverso
lo strumento delle commissioni rogatorie) verso cui negli ultimi anni è
dato riscontrare un processo di significativa accelerazione.
Cooperazione
giudiziaria che, al di là delle tradizionali convenzioni di assistenza
(stesura originaria e protocolli addizionali) ed estradizione, si è
venuta arricchendo di strumenti innovativi quali la Convenzione di Strasburgo
sulla repressione del riciclaggio e l’accordo di Schengen nella parte specificatamente
dedicata alla cooperazione giudiziaria.
Ma
anche cooperazione amministrativa, per superare i tradizionali limiti di
territorialità e il principio di non cooperazione, nelle forme di
cooperazione all’accertamento (verifiche simultanee, scambi di informazioni
spontanei, d’iniziativa, etc.) ma anche alla riscossione sì da non
vanificare tutta l’attività prodromica volta a determinare la definitività,
la certezza, la liquidità, l’esigibilità della pretesa del
Fisco di uno Stato. E in questa direzione è forte e costante lo
sforzo dell’Unione Europea nel senso di una eliminazione delle barriere
sul territorio dell’Unione.
LA TRASPARENZA
FISCALE
Da
più parti viene quindi sollecitata una generalizzazione della trasparenza
fiscale (intesa come trasparenza al fisco) facendo leva anche sui risultati
ritratti nell’ordinaria attività di repressione dell’evasione dalla
sostanziale eliminazione del segreto bancario nei confronti dell’amministrazione
finanziaria, laddove attuata.
Pulsioni
condivisibili, in linea di principio e di fatto, giacché ormai è
chiarissimo ai massimi esperti della politica comunitaria che il rispetto
di un mercato con condizioni di libera concorrenza non passa solo attraverso
la abolizione delle normative nazionali discriminatorie, ma anche attraverso
la eliminazione di elementi perturbatori del mercato quali sono le attività
economiche criminali. D’altro lato la richiesta di una maggior attivazione
di strumenti repressivi e di maggior trasparenza del mercato va misurata
all’opposto con la preoccupazione che proprio questa trasparenza potrebbe
rivelarsi, in un certo senso, fattore di sviluppo di sistemi economici
e finanziari paralleli ai canali tradizionali, contraddistinti al contrario
dall’assoluta segretezza e dalla assenza di tracce cartolari: è
il caso dei circuiti di formazione asiatica CHOP SHOP, CHITI, HAWALLA,
HUNDI, in espansione territoriale in forza dell’incremento dei flussi migratori.
Ma alla luce anche della possibilità di istituire banche virtuali
attraverso l’utilizzo di Internet (sul modello già esistente presso
istituti di credito assolutamente legali), oltre alla folta schiera di
intermediari finanziari che muniti solo di un terminale e di un server
svolgono la loro attività in altri stati quali operatori virtuali
in assenza di ogni autorizzazione e controllo e proprio per evitare i controlli
degli enti nazionali di sorveglianza dell’attività bancaria.
Patologie
poi che vengono amplificate dall’elevatezza dell’imposizione sulle attività
più strettamente produttive tipiche di molti paesi occidentali (tra
i primi l’Italia) che sollecitano la ricerca di vie di fuga a quello che,
in molti paesi specie europei, è definibile come «taglieggiamento
fiscale» esercitato in forme tali da minare alla radice la sopravvivenza
concorrenziale, specie tecnologica, dalle proprie imprese.
LA SITUAZIONE
ITALIANA
Con
riguardo al nostro paese, d’altro canto, e forse radicalmente in antitesi
con gli effetti dell’elevata pressione tributaria, contribuiscono ad alimentare
le file dei più furbi tanto il caos normativo, con una produzione
alluvionale e raramente ben coordinata o coordinabile, quanto le carenze
dell’attività di controllo.
In
questo senso, i segnalati incrementi di gettito e ampliamenti delle basi
imponibili di questi ultimi anni appaiono più frutto di una attività
legislativa volta ad incidere sulla deducibilità di oneri e spese
(con un modello tipicamente erosivo del riconoscimento di costi) e di un
aumento delle fattispecie, delle aliquote e dei soggetti incidibili da
singoli tributi (ne è un esempio l’IRAP per i professionisti non
già soggetti ad ILOR), che il risultato di un reale riemergere di
transazioni economiche svolte con modalità fiscalmente illegali.
E
la sfida sarà proprio sul terreno delle ricomposizione di queste
spinte centrifughe attraverso la realizzazione di un modello impositivo
più condivisibile e il contenimento di quella giungla criminale
che pone in crisi l’operatore corretto e mina le radici stesse del nostro
modello di sviluppo.
Armonizzazione
e, laddove poco praticabile, cooperazione, le strategie per gli Stati.
Una cosa appare sicura: scelte timide e indecisioni, in un contesto di
rapidissime trasformazioni, potrebbero lasciare segni pesanti su molti.
Nunc videant consules!
|