Impresa
& Stato n°47
LA QUESTIONE CRIMINALE
NELL’EUROPA DEI QUINDICI
di
Alberto
Perduca
Le
iniziative dell’Unione Europea per trovare soluzioni coordinate ai problemi
sollevati dai fenomeni di devianza grave.
Dal
1° gennaio 1993, data di entrata in vigore del Trattato di Maastricht,
al 31 dicembre 1997 il Consiglio dell’Unione europea adotta ben 148 testi
in materia di giustizia e affari interni. La produzione, a valenza giuridica
estremamente variegata e non sempre definibile con chiarezza, comprende
25 azioni comuni, 5 posizioni comuni, 18 tra convenzioni e protocolli aggiuntivi,
39 risoluzioni, 14 raccomandazioni, 12 decisioni. Tenuto conto delle non
poche iniziative successive, concluse o prossime alla conclusione, è
facile prevedere che, per la fine del 1998, il numero totale degli atti
assunti
dal Consiglio raggiunga la soglia dei 200.
Altrettanto
ricco è poi lo spettro dei temi trattati: terrorismo, estradizione,
frodi comunitarie, immigrazione clandestina, cooperazione di polizia e
doganale, criminalità internazionale, riciclaggio, criminalità
ecologica, tratta degli esseri umani, turbativa dell’ordine pubblico nel
corso di manifestazioni sportive, stupefacenti, formazione degli operatori
di giustizia, sfruttamento sessuale dei bambini, corruzione, razzismo e
xenofobia, …
Già
sulla base di questi scarni dati è facile constatare che nel campo
d’azione dell’Unione europea si amplia progressivamente lo spazio destinato
alla ricerca di soluzioni coordinate ai problemi sollevati dai fenomeni
di devianza grave. La questione criminale si afferma ormai, almeno in taluna
delle sue manifestazioni più preoccupanti, non soltanto quale emergenza
nazionale di singoli Stati ma come vera e propria priorità, da affrontare
e cercare di risolvere anche nel quadro dell’Europa dei Quindici.
In
assenza di un simile impegno, i costi per la convivenza civile e per gli
stessi assetti economici e politici dell’Unione europea rischiano di divenire
intollerabili.
Del
resto la consapevolezza di tali pericoli, oggi profondamente radicata nel
senso comune a fronte di manifestazioni criminose sempre più allarmanti
e a crescente dimensione internazionale, è già presente nel
Trattato di Maastricht che si fa carico di definire un primo quadro di
competenze, procedure e strumenti per consentire iniziative nel settore.
Nel Trattato compare infatti come obbiettivo generale dell’Unione europea,
non disgiunto dai fini di ‘promuovere il progresso economico e sociale’
e di ‘rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini’,
quello di ‘sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia
e degli affari interni’.
Non
solo, ma si chiede agli Stati membri e alle Istituzioni comunitarie (peraltro
con un ruolo ridotto) di considerare e perciò trattare come di ‘interesse
comune’ non poche questioni di ‘giustizia ed affari interni’, tra cui quelle
relative alla ‘lotta contro l’immigrazione’ clandestina, alla ‘lotta contro
la tossicodipendenza’, alla ‘lotta contro la frode internazionale’, alla
‘cooperazione giudiziaria in materia penale’, alla ‘cooperazione doganale’
e alla ‘cooperazione di polizia’.
Una
tappa ulteriore verso una vera e propria politica criminale da definirsi
e attuarsi nell’ambito dell’Unione europea è segnata dal Trattato
di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ma in attesa di entrare in vigore
dopo le necessarie ratifiche da parte degli Stati membri.
Rispetto
al Trattato di Maastricht, l’esigenza di assicurare una risposta contro
il crimine quanto più omogenea ed efficace su scala europea è
resa esplicita dal dichiarato fine di ‘fornire ai cittadini un livello
elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia’.
Per
il perseguimento di tale obbiettivo occorre prevenire e reprimere ‘la criminalità,
organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli
esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga
e di armi, la corruzione e la frode’ mediante ‘una più stretta cooperazione
tra le forze di polizia, le autorità doganali… e le autorità
giudiziarie… degli Stati membri’, nonché ‘il ravvicinamento, ove
necessario, delle normative degli Stati membri in materia penale...’.
Sul
piano delle competenze, Commissione e Parlamento europei vedono rinforzato
il loro ruolo nelle procedure di adozione degli atti.
CONTRO IL RICICLAGGIO
Tra
i fenomeni di criminalità economica delittuosi su cui più
si concentra lo sforzo di elaborazione degli strumenti di contrasto meritano
di essere ricordati il riciclaggio, la frode al bilancio comunitario e
la corruzione.
Per
quanto riguarda la prima fattispecie, risale al 1991 la Direttiva comunitaria
relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio
dei proventi di attività illecite.
Adottata
in epoca anteriore al Trattato di Maastricht, la Direttiva pone a carico
degli Stati membri della (allora) Comunità economica europea una
serie di obbligazioni, tra cui quella di considerare illecito il riciclaggio.
La
Direttiva invero si limita a impegnare gli Stati a far sì che il
riciclaggio ‘sia vietato’ astenendosi dall’imporre lo specifico obbligo
di incriminazione. Peraltro, secondo quanto riportato da un rapporto della
Commissione Europea lo scorso luglio, tutti gli Stati membri risultano
aver penalizzato il riciclaggio.
La
necessità di risposte ancor più incisive contro l’occultamento
e la riconversione di capitali d’origine criminale ispira poi talune delle
raccomandazioni contenute in un assai articolato Piano d’azione contro
la criminalità organizzata adottato lo scorso anno dal Consiglio
dell’Unione.
TUTELA DELLE RISORSE
Le
dimensioni ragguardevoli del bilancio comunitario, nel 1997 superiore a
82 miliardi di Ecu, e la sua vulnerabilità alle frodi giustificano
ampiamente le iniziative prese nell’ambito della Unione europea a tutela
delle risorse finanziarie comuni.
Inoltre,
al di là della generale riconducibilità dell’impegno antifrode
alle questioni di ‘interesse comune’, il Trattato di Maastricht prevede
specificamente l’obbligo degli Stati di collaborare tra di loro e con la
Commissione europea.
Tra
il luglio 1995 e il giugno 1997 vengono così stipulati una Convenzione
e due Protocolli, tuttora in attesa di ratifica, volti a promuovere un
sistema di protezione penale quanto più uniforme e efficace in tutti
gli Stati dell’Unione.
Sul
piano delle incriminazioni le Parti contraenti hanno cura di fissare preliminarmente
le nozioni comuni di ‘frode che lede gli interessi comunitari’, di ‘corruzione’
e di ‘riciclaggio’ connessi alla frode, impegnandosi poi a prevedere tali
fattispecie come reati suscettibili di sanzioni ‘effettive, proporzionate
e dissuasive’ comprensive, nei casi più gravi, delle pena detentiva.
Per
la corruzione, occorre segnalare che la nozione comune adottata nel primo
dei due Protocolli vede come soggetti attivi non soltanto i funzionari
nazionali ma anche quelli degli altri Stati membri e delle Istituzioni
comunitarie. In tal modo si vuole colmare la lacuna, diffusa nel diritto
penale dei Quindici, che normalmente permette di punire per fatti di corruzione
soltanto gli appartenenti delle amministrazioni pubbliche interne.
Un’ulteriore
novità degna di rilievo è offerta dalla obbligazione assunta
dagli Stati membri di prevedere forme di responsabilità penale,
ovvero (se non compatibile per ragioni di ordine costituzionale) quasi-penale
(e cioè amministrativa), a carico delle persone giuridiche i cui
dirigenti abbiano commesso fatti di frode al bilancio comunitario (e/o
di corruzione e riciclaggio connessi alla frode) nell’ambito della gestione
di impresa.
Sul
piano processuale vengono poi introdotte regole tese a evitare il rischio
di vuoti di tutela nell’intervento giudiziario contro le frodi a carattere
transnazionale che talora, proprio in ragione di tale profilo, possono
sfuggire ai tradizionali criteri di competenza nazionale per territorio.
Non solo, ma la Convenzione e i due Protocolli introducono principi per
rendere più rapida e incisiva la cooperazione giudiziaria.
Sempre
in tema di corruzione, occorre infine ricordare che la scelta sperimentale
di estenderne la responsabilità anche ai funzionari degli altri
Paesi dell’Unione e delle Istituzioni europee finisce rapidamente per travalicare
il limitato ambito della protezione del bilancio comunitario.
È
infatti del maggio 1997 la Convenzione generale sulla corruzione che gli
Stati dell’Unione concludono (ma a tutt’oggi ancora non ratificano) impegnandosi
a prevedere nelle proprie legislazioni le condotte di corruzione anche
allorché poste in essere da funzionari dei Paesi membri e della
Comunità.
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