Impresa
& Stato n°47
LA TUTELA GIURIDICA
DEGLI INTERESSI FINANZIARI COMUNITARI
di
Dino
Rinoldi
La
collaborazione tra gli Stati della Comunità Europea ha portato alla
definizione di uno standard minimo di difesa di valori e beni.
L’ampio
dispiegarsi, nei vari ambiti di attività delle Comunità europee,
del principio della leale collaborazione tra Stati e Comunità stesse
ha condotto a individuare in generale in capo ai Paesi membri l’esistenza
dell’obbligo di garantire uno standard minimo di tutela a valori e beni
giuridici comunitari. Quest’obbligo può tradursi nella necessità
che essi adottino per determinate fattispecie delle misure repressive consistenti
in sanzioni penali, per le quali le Comunità non posseggono competenza.
Benché infatti sia loro consentita in via amministrativa l’irrogazione
di ammende e penalità di mora direttamente efficaci nei confronti
degli stessi soggetti privati di diritto interno, ciò non si traduce
nell’attribuzione alle istituzioni comunitarie della potestà di
configurare illeciti penali. L’obbligo di penalizzazione fondato sull’art.
5 CE, e sui principi generali del diritto comunitario a tale disposizione
sottostanti, consiste in altre parole nello svolgimento di un’attività
punitiva statale rivolta a soddisfare esigenze di effettività e
di proporzionalità, oltre che di dissuasione, come ha sottolineato
la Corte di Giustizia delle CE nella sentenza cosiddetta del Mais greco.
Le
necessità minime di repressione delle violazioni del diritto comunitario
negli ordinamenti degli Stati membri possono allora condurre, nel campo
della lotta alle frodi, a una previsione punitiva che disponga in termini
analoghi, sotto il profilo sostanziale e procedurale, a quanto sancito
dall’ordinamento nazionale per le violazioni del diritto interno simili
per natura e per importanza. Vale peraltro, specularmente, anche il principio
secondo cui il Trattato CE osta a che la sanzione nazionale abbia carattere
penale più che solo amministrativo, e sia dunque in questo senso
sproporzionata: si pensi ad esempio alla violazione di formalità
richieste per l’accertamento del diritto di soggiorno di un individuo tutelato
dal diritto comunitario.
Opera
in questo modo dunque il principio di assimilazione, secondo il quale ogni
Stato membro dovrebbe applicare ai delitti compiuti contro i beni giuridici
comunitari le norme penali adottate, a tutela dell’amministrazione nazionale,
per sanzionare i reati corrispondenti.
Ma
poiché le norme penali interne poste a salvaguardia degli interessi
finanziari di natura pubblicistica dello Stato non sono automaticamente
estensibili alla protezione del patrimonio economico-finanziario delle
Comunità, l’art. 209A ha allora lo scopo di obbligare gli Stati
ad ampliare la fattispecie penale interna fino a ricomprendervi la tutela
degli interessi finanziari comunitari contro le frodi che colpiscono questi
stessi interessi. E per «frode comunitaria» si intende un’ampia
tipologia di infrazioni al diritto comunitario; fra esse rilievo preminente
assumono i comportamenti illeciti che comportano conseguenze dirette per
il bilancio comunitario, in termini di diminuzione delle entrate e di impiego
distorto delle uscite.
È
dunque per esigenze di certezza del diritto che il Trattato di Maastricht
ha introdotto con l’art. 209A un obbligo di assimilazione che precisa quanto
già poteva essere desunto dall’art. 5 in termini, come si è
detto, di obbligo di penalizzazione a carico degli Stati. Ma le esigenze
di certezza proprie dell’assimilazione in questione sono quelle di una
disciplina che incide in campo penale, dov’è più urgente
la necessità del rispetto non tanto della sovranità statale
quanto dei requisiti fondamentali posti in questa materia a garanzia delle
libertà personali e dei diritti individuali - e dello stesso principio
democratico - negli ordinamenti costituzionali di tutti gli Stati membri,
requisiti non ancora riprodotti appieno, almeno per equivalenti e comunque
nell’essenziale, nell’ordinamento comunitario, che soffre dunque anche
per quest’aspetto di un deficit democratico.
Non
c’è qui modo di riproporre la tormentata e ancora aperta discussione
sui rapporti tra diritto comunitario e diritto penale. Sembra però
corretto ritenere che l’art. 209A sia la fonte di un obbligo di comportamento
per gli Stati membri, un vincolo posto al legislatore nazionale nella scelta
delle sanzioni.
L’ORDINAMENTO
ITALIANO
Ciò
non significa che la norma sia dotata di una efficacia diretta, che ad
essa cioè consegua un’applicazione estensiva della disposizione
punitiva interna. Se così fosse, infatti, sarebbero alterati in
via interpretativa i requisiti di certezza, legalità e garanzia
della fattispecie penale e si contravverrebbe a quei principi fondamentali
del nostro ordinamento la cui difesa è sempre stata affermata dalla
Corte costituzionale anche nell’impostazione di massima apertura all’ordinamento
comunitario - giustificata dall’art. 11 Cost. - e conseguentemente di maggior
ritrazione dell’ordinamento interno di fronte ad esso.
Occorre
insomma da parte dell’ordinamento statale un adeguamento esplicito ad hoc
- che non può consistere nel solo ordine di esecuzione del Trattato
di Maastricht - alla norma in oggetto, che è formulata comunque
in termini ben più generali di quanto accade per altre norme pattizie
comunitarie che pure dispongono in materia penalistica tramite l’imposizione
di un obbligo di assimilazione. Si pensi all’art. 27 del Protocollo sullo
Statuto della Corte di Giustizia della Comunità economica europea
(Bruxelles 17-4-57), secondo cui «ogni Stato membro considera qualsiasi
violazione dei giuramenti dei testimoni e dei periti alla stregua del corrispondente
reato commesso avanti a un tribunale nazionale giudicante in materia civile.
Su denuncia della Corte esso procede contro gli autori di un tale reato
avanti alla giurisdizione nazionale competente». O si guardi all’art.
194 CEEA, secondo cui «ogni Stato membro considera tutte le violazioni
d[ell’] (...) obbligo [di segretezza professionale in ambito comunitario]
come un attentato ai suoi segreti protetti che, sia per il merito sia per
la competenza, sono soggetti alle disposizioni della sua legislazione applicabile
in materia di attentato alla sicurezza dello Stato ovvero di divulgazione
del segreto professionale. Esso procede contro ogni autore di una violazione
del genere sottoposto alla sua giurisdizione, su istanza di qualsiasi Stato
membro interessato o della Commissione». E infine si considerino
gli obblighi di comportamento posti a carico degli Stati attraverso la
normativa comunitaria derivata, secondo una prassi da tempo invalsa, e
consistenti nell’adozione di «tutte le misure appropriate»
allo scopo di sanzionare le violazioni in uno specifico settore di disciplina.
Si veda ad esempio l’art. 10, par. 2, reg. Cons. CEE 1035/72, 18-5-72 sull’organizzazione
comune dei mercati nel settore ortofrutticolo. Introducendo nel codice
penale due nuovi articoli, il 316 bis in tema di malversazione a danno
dello Stato e il 640 bis in tema di truffa aggravata per il conseguimento
di erogazioni pubbliche, e ancor prima disciplinando con l’art. 2 l. 23-12-86,
n. 898 l’indebito conseguimento di fondi FEOGA, l’Italia ha realizzato
un deciso intervento a protezione degli interessi finanziari delle Comunità
europee. È stata appunto estesa ai fondi comunitari la tutela precedentemente
prevista per i soli fondi pubblici nazionali (in specie per le erogazioni
di denaro ottenute dallo Stato), a tal fine facendo uso del principio di
assimilazione dei primi ai secondi.
Che
questa strada non sia pacifica per tutti gli Stati membri è dimostrato
dall’insuccesso che per lungo tempo ha caratterizzato il progetto di accordo
internazionale elaborato fin dall’inizio degli anni Settanta proprio allo
scopo di introdurre una regolamentazione comune sulla protezione penale
degli interessi finanziari delle Comunità.
Per
una volta dunque l’Italia ha addirittura anticipato quanto prescritto dal
diritto comunitario dotandosi fin dal 1990 di disposizioni penalistiche
necessarie a dare attuazione all’obbligo di cui all’art. 209A.
I FUNZIONARI COMUNITARI
Le
norme penali interne poste a salvaguardia della pubblica amministrazione
nazionale non sono dunque per se stesse estensibili alla tutela della pubblica
amministrazione comunitaria. Ma proprio l’art. 209A potrebbe anche far
ritenere che, almeno con riferimento ai reati finanziari, l’assimilazione
delle infrazioni compiute dai funzionari comunitari agli illeciti penali
commessi da funzionari pubblici contro la pubblica amministrazione sia
ormai contemplata dalla stessa disposizione; e cioè che, al di là
dei «doveri e diritti» (elencati in quest’ordine) specificamente
e dettagliatamente inseriti nel titolo II dello Statuto dei funzionari
comunitari, assortiti dalla previsione di sanzioni disciplinari, si possa
porre la questione di una loro imputabilità interna per azioni svolte
a titolo ufficiale - e a cui non faccia ostacolo l’immunità invocabile
dalle Comunità quando risulti minacciato l’interesse comunitario
o appaiano lesi diritti individuali - oppure in veste di privati cittadini.
L’imputabilità è ovviamente possibile per i reati previsti
dalla legge penale nazionale, ma gli ostacoli sorgono allorché quest’ultima,
non conoscendo e dunque non proteggendo valori e beni giuridici propri
dell’ordinamento comunitario, non ne contenga la previsione. Proprio il
principio di assimilazione pare allora un utile strumento da cui trarre
ulteriore spunto per il raggiungimento di una disciplina comune tra i Paesi
delle Comunità europee anche in materia di tutela e responsabilità
penale dei funzionari di queste.
Deve
però anche essere chiarito che questa risulta comunque essere una
soluzione parziale. Non solo la portata della norma è infatti ristretta
alla connessione con la protezione degli interessi finanziari delle Comunità.
Ma il ricorso al principio di assimilazione secondo una via concordata
(cioè resa impegnativa dall’accordo - il Trattato di Maastricht
- intervenuto fra tutti i Paesi comunitari) avviene pur sempre in maniera
unilaterale (perché l’assimilazione è alla stregua di ciascuna
diversa disciplina dei quindici Stati membri). In questo modo restano le
diversità di trattamento comunque oggi riscontrabili tra i vari
Stati membri, così nella tutela dei pubblici ufficiali (ai quali
siano assimilati i funzionari comunitari) come nella protezione dei fondi
pubblici nazionali (cui vengano assimilati i fondi comunitari).
COOPERAZIONE INTERGOVERNATIVA
La
via unilateralistica (concordata) scelta dall’art. 209A lascia quindi largo
spazio alla cooperazione intergovernativa per una più ampia armonizzazione.
Proprio la strada pattizia è stata quella percorsa negli anni Settanta,
parallelamente al ricordato progetto sulla protezione penale degli interessi
finanziari della Comunità, per cercare di adottare una disciplina
comune agli Stati membri sulla responsabilità e sulla protezione
penale di funzionari e altri agenti comunitari. Anche in tal caso quel
percorso, pur senza mai essere stato esplicitamente abbandonato, si è
per molto tempo arenato. Ma in ambedue i casi la creazione dell’Unione
europea sta proponendo concreti passi in avanti, il cui fondamento giuridico
è offerto dal cosiddetto «terzo pilastro» del Trattato
di Maastricht e dunque dal titolo VI di questo, contenente disposizioni
relative alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.
Se
ci si ferma alle sole convenzioni internazionali promosse dall’Unione europea
in quest’ambito, vanno anzitutto ricordate la Convenzione del 26 luglio
1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità,
il I Protocollo aggiuntivo, del 27 settembre 1996, sulla protezione degli
interessi finanziari delle Comunità, e il II Protocollo addizionale,
del 19 giugno 1997.
Mi
sembra opportuno dire brevemente anzitutto del I Protocollo, il quale -
come rileva il preambolo - muove nella consapevolezza «del fatto
che gli interessi finanziari delle Comunità europee possono essere
lesi o minacciati da altri illeciti penali, in particolare quelli costituenti
atti di corruzione commessi da funzionari sia nazionali sia europei, o
a danno di questi, responsabili della riscossione, della gestione o della
spesa dei fondi comunitari ovvero del loro controllo»; e considera
«importante, per un’azione efficace contro questi atti aventi ramificazioni
internazionali, che il diritto penale degli Stati membri ne valuti in maniera
convergente la natura perseguibile». Prevede quindi per le parti
contraenti l’obbligo specifico di incriminazione delle condotte di corruzione
commesse da e nei riguardi di funzionari delle Comunità, e di altri
Stati membri nei limiti della connessione di questi comportamenti col pregiudizio
subito dalle finanze comunitarie. A questa previsione si accompagna la
ricerca di una armonizzazione delle fattispecie penali contenute negli
ordinamenti interni e la fissazione di adeguate norme di competenza e di
cooperazione reciproca. I criteri di competenza concorrenti elencati dal
Protocollo (art. 6) sono quelli del territorio, della cittadinanza del
presunto colpevole o delle persone ai cui danni l’illecito sia stato commesso,
del luogo di sede dell’istituzione o dell’organismo comunitario da cui
dipende il funzionario. I criteri in questione tendono a rendere possibile
il proponimento dell’azione penale pressoché nella totalità
dei casi di comportamenti illeciti che in materia si possano verificare.
Tranne quello - prioritario - che stabilisce la competenza delle giurisdizioni
nazionali quando l’illecito sia commesso, in tutto o in parte, nel territorio
dello Stato, tali criteri sono peraltro derogabili dalle parti contraenti,
tramite apposite dichiarazioni.
A
questo Protocollo - come detto - se ne è aggiunto un secondo: esso
dispone in tema di responsabilità delle persone giuridiche e relative
sanzioni, di riciclaggio, di confisca, di cooperazione tra i servizi della
Commissione delle Comunità e Stati nelle inchieste in materia di
frodi e in quelle relative alla protezione dei dati. Per quanto riguarda
la responsabilità delle persone giuridiche si segnala che essa è
di natura tanto penale che amministrativa. Non è stata seguita quindi
l’originaria proposta della Commissione che suggeriva l’introduzione di
un regime di responsabilità unicamente penale; né è
stata accolta la proposta di elaborare un registro centrale delle inchieste
in materia di frode, nonché di dotarsi di un dispositivo in materia
di cooperazione tra Stati e servizi della Commissione.
Gli
strumenti convenzionali appena ricordati hanno l’ambizione di andare sia
oltre il principio di assimilazione - che pure è adeguatamente preso
in considerazione ma non può di per sé ovviare a tante diversità
di disciplina tra i vari ordinamenti - sia oltre l’aspetto della mera protezione
degli interessi finanziari delle Comunità. Dal primo punto di vista
la stessa Convenzione del 26 luglio 1995 fornisce una definizione di frode
- qualificando i principali elementi costitutivi della relativa condotta
- comune alle parti contraenti e applicabile in materia di tutela sia delle
entrate che delle spese comunitarie, alla cui individuazione e distinzione
si provvede in modo specifico. La Convenzione dispone inoltre in materia
di sanzioni, non escludendo il ricorso a quelle di natura amministrativa
per le frodi inferiori a un determinato valore. Si fa comunque uso del
principio di assimilazione in rapporto all’obbligo fatto alle parti contraenti
di incriminare (al di fuori della previsione di sanzioni amministrative)
la condotta fraudolenta oppure consistente nell’istigazione alla frode,
nel tentativo di frode e nella complicità, senza peraltro accogliere
la proposta di prevedere l’obbligo di definire la frode comunitaria quale
infrazione specifica.
Si
interviene anche in materia di competenza e di estradizione, in quest’ultimo
caso completando, ai fini della Convenzione sugli interessi finanziari,
le disposizioni della Convenzione europea di estradizione del 1957.
PROSPETTIVE FUTURE
Il
coordinamento fra Stati membri nell’azione intesa a tutelare gli interessi
finanziari delle Comunità contro le frodi, di cui si occupa il secondo
comma dell’art. 209A promuovendo l’organizzazione - con l’aiuto della Commissione
europea - di una «stretta e regolare» cooperazione tra competenti
servizi statali, rappresenta perciò una sorta di disposizione «di
chiusura» tra la cooperazione in quest’ambito disciplinata dal titolo
VI del Trattato sull’Unione europea e le altre disposizioni del Trattato
istitutivo della Comunità europea che, come quelle sull’unione doganale
(art. 12 ss.), vengano ad interessare la materia. Già nel 1988 è
stata del resto creata in seno alla Commissione una Unità di coordinamento
della lotta antifrode-UCLAF. Oggi il sistema dei controlli in materia,
che vede la cooperazione dei servizi della Commissione con quelli degli
Stati membri e implica tra l’altro una vasta raccolta di informazioni al
livello più decentrato possibile, fa capo ad una articolata disciplina
comunitaria volta alla continua ricerca delle soluzioni migliori. Si possono
così esemplificativamente ricordare il reg. Cons. 1468/81, relativo
alla mutua assistenza tra le autorità amministrative degli Stati
membri e alla collaborazione tra queste e la Commissione per assicurare
la corretta applicazione della disciplina doganale o agricola, nonché,
tra gli atti più recenti, la dec. Comm. 94/140, il reg. Cons. 1469/95,
il reg. Cons. 2988/95, il reg. Comm. 2992/95.
Si
ricorda infine che l’art. 55 della «legge comunitaria» per
il 1994 ha istituito nel nostro Paese un Nucleo speciale della Guardia
di Finanza per la repressione delle frodi comunitarie.
Resta
da accennare agli sviluppi futuri, aperti dalla firma - il 2 ottobre 1997
- del Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato di Maastricht. E la
modifica cui si assiste per la materia che qui interessa è radicale:
infatti la responsabilità di adottare le misure necessarie a prevenire
e reprimere le frodi agli interessi finanziari delle Comunità sarà
affidata - con l’entrata in vigore del nuovo Trattatto sull’Unione europea
- al Consiglio e al Parlamento europeo (che delibereranno con la procedura
di codecisione). Nonostante un disposto così ampio, sembra difficile
escludere l’intervento della cooperazione intergovernativa in materia penale
strumentale alla tutela di questi interessi.
|