Impresa
& Stato n°47
LA COOPERAZIONE CONTRO
LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
di
Nicoletta
Parisi
Prevenzione
e repressione in tema di riciclaggio di denaro «sporco» nell’attività
istituzionale dell’Unione Europea.
Sempre
più spesso nell’attività di prevenzione e repressione dei
fenomeni di criminalità organizzata si rivela non solo utile, ma
anche essenziale percorrere le vie messe a disposizione dal diritto internazionale.
Corruzione, riciclaggio e insider trading sono infatti fenomeni a dimensione
tipicamente transnazionale. In particolare per il riciclaggio questa attitudine
è addirittura troppo evidente perché sia necessario meglio
precisare come esso tragga vantaggio dalla natura e dalle caratteristiche
che hanno assunto le transazioni finanziarie, le quali trascendono ormai
i confini politici fra Stati; nonché come esso sarà ulteriormente
favorito nell’area dell’Europa occidentale dall’introduzione di un’unica
moneta; e come è già sin da ora avvantaggiato dalle diversità
dei sistemi normativi nazionali, e soprattutto dall’esistenza in taluni
di essi di normative che proteggono il più assoluto anonimato societario
e il più impenetrabile segreto bancario. Non a caso ormai da più
di un decennio l’iniziativa di predisporre strumenti normativi vuoi in
funzione preventiva vuoi in funzione repressiva non è più
assunta a livello nazionale, ma in sedi internazionali, nel tentativo di
elaborare norme uniformi per gli Stati o di indirizzarli verso l’armonizzazione
delle loro legislazioni interne. In questa direzione si muovono la Convenzione
delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze
psicotrope, aperta alla firma a Vienna il 20 dicembre 1988; la Convenzione
del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca
dei proventi di reato, aperta alla firma a Strasburgo l’8 novembre 1990;
la direttiva comunitaria 91/308/CEE del 10 giugno 1991; gli «Accordi
di Schengen» (firmati il 14 giugno 1985 e il 19 giugno 1990) per
l’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, cui l’Italia
ha aderito con gli Accordi di Parigi del 27 novembre 1990; nonché,
da ultimo, gli accordi frutto della cooperazione intessuta all’interno
del cosiddetto «terzo pilastro» dell’Unione Europea, dei quali
operante oggi è solo la Convenzione EUROPOL.
L’UNIONE EUROPEA
È l’ambito dell’Unione
Europea che si segnala per la sua singolarità, la quale sta nella
molteplicità dei metodi ivi utilizzati e della sinergia fra di essi.
Ci si avvantaggia in questa sede infatti vuoi degli strumenti giuridici
propri della cooperazione cosiddetta istituzionale, attuata cioè
utilizzando gli organi delle Comunità europee e dunque adottando
atti - così particolari per la realtà internazionale - quali
le direttive e i regolamenti; vuoi ricorrendo alle vie diplomatiche, secondo
i metodi tipici della cooperazione intergovernativa. La scelta fra queste
due modalità di cooperazione non è affidata alla discrezionalità
volta a volta esercitata dagli Stati membri o, per essi, dall’Organizzazione;
essa è determinata - com’è facilmente intuibile - dal fatto
che nella specifica materia si sia verificata, a vantaggio dell’Organizzazione,
un’attribuzione di competenza idonea a conferire a essa i poteri d’azione
necessari; ovvero che, mancando tale conferimento, la concertazione degli
Stati debba essere svolta secondo modalità intergovernative e, dunque,
ricondotta al settore «giustizia e affari interni» all’interno
del cosiddetto «terzo pilastro» dell’Unione Europea. E poiché
il fenomeno del riciclaggio rileva in un ambito suscettibile di incidere
in modo significativo sulle funzioni penali dello Stato, il trasferimento
di competenze dallo Stato membro all’Organizzazione pone questioni particolarmente
delicate.
Proprio quest’ultima notazione
suggerisce il «filo rosso» da seguire: è infatti nel
campo della prevenzione - là dove, dunque, non si tratta di ricorrere
a strumenti sanzionatori - che il diritto comunitario esercita il proprio
ruolo di fattore di armonizzazione, talvolta di unificazione, dei diritti
interni degli Stati membri dell’Unione Europea; mentre è sul fronte
della repressione che si ricorre agli strumenti offerti dalla cooperazione
intergovernativa.
Inizio con l’osservare che
le banche rappresentano uno di soggetti chiave nel «gioco di guardie
e ladri» che vede opposte le forze di polizia a tutti coloro che,
con ruoli e peso diverso, concorrono al riciclaggio. Non a caso lo strumento
principe nella regione europea occidentale è oggi costituito, come
anticipato, dalla direttiva comunitaria 91/308/CEE, la quale fa degli istituti
di credito (nonché degli enti che a diverso titolo esercitano l’attività
finanziaria) il perno dell’intero sistema che si informa al criterio della
trasparenza.
A carico di questi enti
la direttiva pone una serie di obblighi (identificare i clienti, conservare
i documenti, esaminare con particolare attenzione ogni operazione atta
per sua natura ad avere una connessione con il riciclaggio di denaro di
provenienza illecita, sospendere l’attività sospetta, fornire piena
collaborazione alle autorità responsabili della lotta al riciclaggio
e, nel contempo, instaurare adeguate strutture interne di comunicazione
nonché di formazione del personale); a carico degli Stati stabilisce
l’obbligo di considerare «illecito» il riciclaggio.
Restano tre problemi di
fondo non risolti dalla direttiva, che tuttavia la Comunità si sta
avviando ad affrontare. Il primo attiene all’esigenza di allargare il ventaglio
delle attività (ovvero degli enti) cui si applica la direttiva 91/308/CEE:
non più soltanto gli enti creditizi come individuati dalla prima
«direttiva banche» n. 77/780/CEE; non più soltanto,
con questi, gli enti che esercitano attività finanziaria, secondo
la definizione abbastanza lata che si ricava dall’applicazione congiunta
della direttiva 91/308/CEE stessa e della seconda «direttiva banche»
n. 89/646/CEE; ma anche altre categorie di imprese che svolgono attività
professionali che potrebbero prestarsi, consapevolmente o meno, a «pulire»
denaro frutto di traffici illeciti (v. Prima relazione della Commissione
sull’applicazione della direttiva relativa al riciclaggio dei proventi
di attività illecite, COM(95)54 def., p. 7).
Il secondo problema è
di portata più generale: come anticipato, la direttiva non si spinge
in alcun modo sul terreno della repressione; affida infatti agli Stati
il compito di adottare ogni misura utile a garantire la piena attuazione
delle disposizioni della direttiva stessa e, in particolare, di disporre
in ordine alle sanzioni da applicare in caso di violazione. Sanzioni che,
in applicazione dell’art. 14 della direttiva stessa e della giurisprudenza
della Corte di giustizia della Comunità Europee, devono essere effettive,
proporzionali alla violazione e dissuasive (CGCE 68/1988). E vengo infine
al terzo problema strettamente collegato a quanto appena detto: la direttiva
non contempla nemmeno norme che prevedano canali di cooperazione fra le
autorità nazionali responsabili della lotta al riciclaggio; ed è
un’assenza generalizzata, poiché nulla si dispone né al livello
esecutivo, nè sul piano della cooperazione penale, doganale e di
polizia (Prima relazione cit., p. 20).
COOPERAZIONE NELLA
REPRESSIONE
Ancora una volta è
l’ambito della «piccola Europa» che si segnala per una più
significativa azione in materia repressiva: la lotta contro la criminalità
organizzata è qui avvertita come un’esigenza imprescindibile nel
cammino dell’unificazione europea e confermata anche dal Trattato di Maastricht
sull’Unione Europea, il quale, al proprio art. K. 1, n. 9, fa esplicito
riferimento alla cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della
lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droghe e altre forme
gravi di criminalità internazionale, compresi, se necessario, taluni
aspetti di cooperazione doganale, in connessione con l’organizzazione a
livello dell’Unione di un sistema di scambio di informazioni in seno ad
un Ufficio europeo di polizia. In questa norma e nell’intero titolo del
Trattato di Maastricht in cui essa è inserita (il VI, che riguarda
la cooperazione intergovernativa in materia di giustizia e affari interni,
appunto il cosiddetto «terzo pilastro» dell’Unione) risiede
a mio parere l’aspetto più nuovo della concertazione fra Stati nella
lotta al riciclaggio, anche per le prospettive di incorporazione in esso
del sistema di Schengen, che presenta significative caratteristiche di
complementarità con l’Unione Europea: cooperazione di polizia doganale,
giudiziaria in materia penale sembrano poter essere destinati a saldarsi,
con logica unitaria, fra loro e con il versante della cooperazione istituzionale
(cioè con la cooperazione attuata attraverso l’attività delle
istituzioni comunitarie, nell’ambito del cosiddetto «primo pilastro»
dell’Unione).
Sul fronte della cooperazione
fra le autorità di polizia la «Convenzione EUROPOL»
- che si avvale dell’ «Unità droghe EUROPOL» - ha l’obiettivo
di migliorare l’efficacia della concertazione fra i servizi competenti
degli Stati membri al fine di prevenire e reprimere le forme di criminalità
internazionale in ogni caso in cui - come essa stessa si esprime - «esistano
indizi concreti di una struttura od organizzazione criminale e purché
due o più Stati membri siano lesi da queste forme di criminalità
in modo tale da richiedere, considerata l’ampiezza, la gravità e
le conseguenze dei reati, un’azione comune degli Stati membri» (art.
2). Fra le forme di criminalità che l’Accordo vi propone di combattere
- tassativamente elencate, ma estendibili su decisione del Consiglio dell’Unione
ad altre indicate in allegato - rientra anche il riciclaggio. L’organo
di polizia che è istituito da quest’accordo è tuttavia concepito
come un centro per la raccolta e lo scambio di informazioni, nonché
per la loro analisi, ed è oggi del tutto privo di funzioni investigative
ed esecutive in senso proprio. A questa ultima attività è
preposto il «Sistema di Schengen», destinato a essere integrato
con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam all’interno dell’Unione
Europea. Esso affronta il problema del riciclaggio dei proventi del traffico
illecito di droga in via indiretta, obbligando le Parti contraenti ad adottare
tutte le misure necessarie a prevenire e reprimere questo traffico, dovendo
garantire nel contempo l’adozione di disposizioni interne utili a consentire
il sequestro e la confisca dei suoi proventi (artt. 71-72). La cooperazione
fra le autorità nazionali di polizia prevede aspetti esecutivi (diritto
di osservazione e diritto di inseguimento oltre frontiera), nonché
un sistema di scambio di informazioni (cosiddetto «sistema SIS»).
La cooperazione doganale
si è espressa, per l’aspetto che in questa sede interessa, anzitutto
e principalmente in connessione con l’attività di contrasto del
traffico illecito di sostanze psicotrope. In questa prospettiva segnalo
in particolare due azioni comuni: la prima volta ad approfondire la cooperazione
fra amministrazioni doganali e imprese nella lotta contro il traffico di
droga (GUCE L 322/1996, p. 3), la seconda relativa alla ridefinizione dei
criteri per i controlli mirati e dei metodi di selezione, nonché
alla raccolta di informazioni doganali e di polizia soprattutto in funzione
di migliorare ulteriormente l’efficacia della lotta contro il traffico
illegale di stupefacenti (GUCE L 159/1997, p. 1). Quest’ultima azione è
stata preceduta da una risoluzione del Consiglio che invita alla stipulazione
di accordi tra polizie e dogane nel settore della lotta al traffico di
droga (GUCE C 375/1996). Intervengono a rafforzare il settore anche la
Convenzione che istituisce un sistema di informazione doganale, nonché
la Convenzione «Napoli II» che si propone di organizzare la
cooperazione fra le autorità doganali degli Stati membri, anche
su richiesta e sotto il controllo dell’autorità giudiziaria.
È il versante della
cooperazione giudiziaria in materia penale forse il più ricco di
implicazioni e suggestioni. V’è anzitutto da considerare la particolare
prospettiva dalla quale guardare a questo tipo di concertazione fra autorità
statali: essa è una necessità indotta dalla creazione di
uno spazio unico integrato dal punto di vista socio-economico, entro il
quale persone e beni circolano liberamente; spazio unico che preconizza
la possibile futura nascita di un ordinamento integrato anche dal punto
di vista giuridico e politico. Non sembra fuor di luogo suggerire che in
prospettiva fra le autorità nazionali responsabili della giustizia
in ambito Unione Europea dovrebbero instaurarsi rapporti più vicini
alle modalità della ripartizione di competenza piuttosto che a quelle
che contraddistinguono le relazioni fra giurisdizioni straniere.
Credo che a questa logica
rispondano per esempio alcune clausole contenute della Convenzione generale
di estradizione del 26 luglio 1996, la quale ha superato l’ostacolo del
rifiuto di consegna allo Stato richiedente dell’individuo responsabile
(o presunto tale) di reati politici: l’art. 5 infatti dispone che nessun
reato possa essere considerato politico dagli Stati contraenti; è
tuttavia introdotta la previsione secondo la quale, con apposita riserva,
essi possono circoscrivere l’ambito di applicazione di tale esclusione,
limitandola ai soli reati che già sono stati privati della qualità
di «politici» dalla Convenzione europea sul terrorismo (e che
- trattandosi di reati associativi - si trovano con essi legati da un rapporto
di consequenzialità). Ogni Paese membro dell’Unione Europea ha così
manifestato la propria fiducia nel sistema penale degli altri partners,
dalla prospettiva della loro conformità a taluni principi fondamentali
posti a tutela della persona. Sempre nella stessa logica si situa la norma
della medesima Convenzione che esclude la possibilità di rifiutare
la consegna della persona richiesta per assenza del requisito della doppia
incriminabilità, allorché la richiesta sia motivata da reati
associativi di criminalità organizzata (art. 3).
Vi è poi un gruppo
di strumenti convenzionali volti a reprimere fenomeni criminosi posti a
«monte» del riciclaggio - quale la frode e la corruzione -
e destinati a innescarlo: si tratta della Convenzione «generale»
sulla corruzione commessa da funzionari comunitari e degli Stati membri
(26 maggio 1997), nonché quella relativa alla tutela degli interessi
finanziari della Comunità con i due Protocolli aggiuntivi (rispettivamente
del 26 luglio 1995, del 27 settembre 1996 e del 19 giugno 1997). Di questi
ultimi due strumenti per la materia di cui qui si tratta è in particolare
significativo il secondo: esso dispone non solo in tema di responsabilità
delle persone giuridiche, di cooperazione tra i servizi della Commissione
della Comunità e gli Stati nelle inchieste in materia di frodi e
in quelle relative alla protezione dei dati personali; ma soprattutto obbliga
gli Stati contraenti a introdurre nel proprio ordinamento il reato di riciclaggio
di proventi che derivano da atti di frode e di corruzione.
Da ultimo, sforzi significativi
in materia di contrasto al crimine sono stati compiuti dal cosiddetto Gruppo
ad alto livello con l’adozione del Piano d’azione contro la criminalità
organizzata adottato dal Consiglio dell’Unione il 28 aprile 1997 (GUCE
C 251/1997). Particolare attenzione merita il capitolo VI dedicato al tema
«Criminalità organizzata e denaro» ove si affronta la
questione del riciclaggio dei capitali e della confisca dei proventi di
reato, suggerendo, tra le altre misure, il miglioramento dello scambio
internazionale dei dati di polizia attraverso EUROPOL; la penalizzazione
generalizzata del riciclaggio; l’estensione degli obblighi di segnalazione
contemplati nell’art. 6 della direttiva sul riciclaggio; l’introduzione
di disposizioni comuni per la lotta alla criminalità organizzata
nei settori della contraffazione economica e commerciale, nonché
della contraffazione e falsificazione di banconote e monete, proprio in
previsione dell’introduzione della moneta unica.
Alla luce di quanto detto,
l’espressione stessa di «cooperazione giudiziaria» utilizzata
dal Trattato di Maastricht per indicare una delle «questioni di interesse
comune» ricomprese nel «terzo pilastro» rischia di apparire
riduttiva almeno per l’oggetto della cooperazione di cui qui ci si occupa.
La stessa iniziativa di creare un Gruppo ad alto livello, nonché
gli indirizzi normativi da esso indicati, segnano infatti in maniera evidente
il passaggio dalla semplice cooperazione giudiziaria all’elaborazione di
strategie e iniziative comuni nei confronti della criminalità, che
puntano anche al ravvicinamento dei sistemi normativi degli Stati membri
dell’Unione.
Queste iniziative anticipano
le soluzioni e le prospettive aperte dal Trattato di Amsterdam per la lotta
al riciclaggio di denaro sporco, il quale assegna all’Unione in quest’ambito
esclusivamente l’obiettivo di «fornire ai cittadini un livello elevato
di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia»,
sviluppando tra gli Stati membri un’azione in comune nel settore della
«cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, prevenendo
e reprimendo la criminalità - organizzata e non - e in particolare
il terrorismo, la tratta di esseri umani, i reati contro i minori, il traffico
illecito di sostanze stupefacenti e di armi, la corruzione e la frode,
il razzismo e la xenofobia» (art. K.1, co. 1).
Gli strumenti messi a disposizione
vengono identificati nella cooperazione - sia diretta sia tramite l’EUROPOL
- fra autorità doganali e di polizia; nella cooperazione tra autorità
giudiziarie e altre autorità nazionali competenti; nel ravvicinamento
delle normative nazionali in materia penale (Art. K.1, co.2, terzo trattino
TUE).
Bisogna sottolineare con
forza la mutata prospettiva nella quale si situa il Trattato di Amsterdam,
che non si limita più a imporre agli Stati una (pur stretta) cooperazione
intergovernativa, ma intende avviare in materia anche il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri. Questa prospettiva si è già
manifestata in campo penale: se infatti nei primi tempi di funzionamento
del Trattato di Maastricht la cooperazione intessuta in materia di giustizia
e affari interni è stata improntata per lo più alla ricerca
di un minimo comune denominatore tra ordinamenti giuridici nazionali, si
sono col tempo moltiplicati i segnali in favore della promozione di interventi
dell’Unione volti a obbligare concretamente gli Stati a ripensare e modificare
istituti tradizionali anche rilevanti appartenenti al loro patrimonio giuridico.
Ne sono manifestazione i tentativi di ravvicinare le fattispecie incriminatrici
del reato di associazione criminale, di frode e di corruzione; o, ancora,
di armonizzare le discipline nazionali sulla responsabilità delle
persone giuridiche. Questa prospettiva, con l’entrata in vigore del Trattato
di Amsterdam, dovrà rappresentare non più l’eccezione ma
la via usuale da percorrere, utilizzando - si crede - lo strumento della
decisione-quadro, che sembra puntualmente prestarsi alle esigenze dell’attività
di armonizzazione, così come per la stessa funzione nel quadro della
cooperazione comunitaria è stata ed è utilizzata la direttiva.
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