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Impresa & Stato n°47 

CDC E AUTONOMIE FUNZIONALI: COME CACIOCAVALLI APPESI?

 di 
Enzo Balboni

La mancanza di un riconoscimento costituzionale, dovuta al naufragio della Bicamerale, pone il dubbio sulla solidità del rampino costituito dalla legislazione ordinaria.


 


Le Camere di Commercio hanno compiuto nell’ultimo ventennio un tratto di cammino alquanto singolare. Per i primi 15 anni, dall’adozione del mitico decreto n. 616 del 1977 (la cosiddetta seconda regionalizzazione dello Stato e dell’amministrazione; la prima, di portata modestissima, c’era stata nel 1972) sino alla approvazione della legge di riforma camerale nel dicembre 1993 si era consumata una navigazione lenta e pigra che sembrava voler accompagnare la grossa nave nel porto delle vecchie carcasse. La legge n. 580 ha prodotto invece una inversione della rotta a 180 gradi: aggirata la boa dell’innovazione e della rivitalizzazione delle sue componenti, la nave camerale si è messa a spingere poderosamente rifacendo all’inverso e a velocità tripla il percorso fatto sin lì, e dimostra oggi grande vitalità.
Ma usciamo dalle metafore e spieghiamo i concetti, almeno attraverso una argomentazione essenziale.
Per capire il punto di partenza è molto utile e istruttivo rileggere il commento all’articolo 64 del decreto n. 616 dedicato alle Camere di Commercio da un giurista del calibro di Giuliano Amato, che lo scrisse per l’autorevole Commentario edito nel 1978 da Il Mulino a cura di Barbera e Bassanini.
Dopo avere riconosciuto che la materia era fra le più difficoltose e aver dato comunque un giudizio totalmente negativo della disposizione in commento («la disposizione a cui si è arrivati è molto peggio di quanto sarebbe stato possibile» p. 391), Amato prende il toro per le corna e svolge un’analisi di grande lucidità e senza falsi pudori che merita di essere trascritta per intero: 
«Le Camere di Commercio sono l’esempio migliore della commistione tra funzioni di governo e funzioni di rappresentanza corporativa scaturita dal modo in cui si sono innestate l’una nell’altra l’esperienza istituzionale feudale, quella liberal-borghese e quella fascista. Il modello che esse incarnano è quello dell’ente che esercita funzioni di interesse pubblico in ordine allo svolgimento di determinate attività economiche, essendo conformato in modo tale da rappresentare i soli esercenti e le attività medesime. In tal modo interesse pubblico e interesse corporativo vengono fatti strutturalmente coincidere, sulla premessa che l’uno è e deve essere la mera proiezione istituzionale dell’altro. È un modello incompatibile con l’assetto complessivo disegnato nella Costituzione repubblicana, che è invece imperniato sugli enti territoriali di governo (e quindi sulla rappresentanza politica come fondamento per la cura di interessi pubblici). E del resto, quando le Camere di Commercio vennero ricostituite nell’immediato dopoguerra, lo si fece con carattere di accentuata transitorietà, proprio in vista di un ordinamento nuovo, diversamente impostato.» (Il corsivo è mio).
Nel modello del decreto n. 616, coerentemente con l’idea di fondo che le funzioni amministrative spettavano alla competenza delle assemblee elettive - e quindi degli enti territoriali di cui quelle erano la proiezione, avendone al tempo stesso la rappresentanza: Regioni, Province e Comuni - si demandava l’esercizio delle funzioni delle Camere di Commercio agli enti territoriali sotto forma di trasferimento o di delega.
Nella visione del decreto n. 616 del 1977 al centro del sistema di distribuzione delle competenze si ponevano dunque le Regioni, che avrebbero dovuto provvedere alla riallocazione delle funzioni «nel quadro di un decentramento organicamente imperniato sull’asse Regioni-enti locali» (Amato, pag. 323).
In questa visione «territorialistica» non c’era spazio per le Camere di Commercio che, in attesa di una loro eventuale e futuribile riforma, avrebbero ben potuto fare ingresso nel cantiere della demolizione.

LE AUTONOMIE FUNZIONALI
Le cose, come sappiamo, non sono andate così. La spinta riformatrice dell’asse Regione-enti locali si è presto rivelata modesta e spesso qualitativamente scadente. Le Regioni sono state le prime a non trasferire e non decentrare o delegare agli enti locali, mentre continuavano (spesso a ragione) a lamentarsi del perdurante centralismo statale.
Così ha ripreso vigore la capacità di autogoverno delle categorie produttive e dunque delle imprese, nonché degli interessi che hanno percepito la doverosità e la possibilità di scommettere su una loro auto-amministrazione. Naturalmente ciò doveva avvenire in un «ambiente» politico «democratizzato» attraverso elezioni e rappresentanze: cosa che è stata fatta attraverso la legge di riforma n. 580 del 1993.
Non è tuttavia di questa pur importantissima legislazione che voglio far cenno in questa nota, quanto piuttosto di una sua conseguenza derivata che è assunta al rango di principio costituzionale.
Dopo avere riconquistato vita, articolazione e struttura con la legge più volte citata, le Camere di Commercio dovevano andare alla ricerca di un principio di nobiltà da appuntare sul loro blasone: e tale principio lo hanno trovato (e saputo ben valorizzare) con l’idea delle «autonomie funzionali». 
Camere di Commercio e Università degli studi sono i paradigmi delle autonomie funzionali. Un’autorevole e innovativa dottrina che risale a Feliciano Benvenuti e al suo «Ordinamento repubblicano» sin dagli anni ‘50, il libro di testo scritto a commento della nuova Costituzione, metteva in luce il ruolo che sarebbe dovuto spettare alle autonomie funzionali accanto alle autonomie territoriali (Regioni, Province, Comuni, altri enti locali) come specie del genere «formazioni sociali».
Dicendo autonomie funzionali ci si intendeva riferire a corpi sociali, rappresentativi di interessi e/o svolgenti funzioni di rilievo pubblico che, nel nuovo assetto pluralista della Repubblica, reclamavano un loro spazio e una loro capacità di autogoverno e di auto-amministrazione. Dovendo ottimizzare con una definizione la qualità della loro autonomia, questa era stata trovata nelle funzioni svolte, proprio per il rilievo pubblicistico (cioè per quella porzione di interesse generale coinvolto che veniva ad essere da loro concretamente amministrata) che a tali nuovi soggetti avrebbe potuto competere.
Le autonomie funzionali hanno continuato a lungo a restare un concetto senza soggetto. Seguendo il folcloristico approccio adottato dalla scuola filosofica napoletana di fine ’800, legata all’idealismo tedesco, che dovendo spiegare l’essenza dei concetti («Begriffe») ricorreva ad una fragrante metafora, le autonomie funzionali potevano essere immaginate come irraggiungibili «caciocavalli appesi nel cielo delle idee». Alla stessa maniera potevano essere rappresentate anche le Camere di Commercio, fin quando anch’esse non hanno trovato il loro «filosofo» attuale e concreto che ha saputo attaccarle al... rampino giusto.
Non sembri irriverente il linguaggio usato, che vuole solo dare un tocco leggero ad una vicenda importante, ma che è arrivata anche nel mondo dei giuristi e costituzionalisti in modo quantomeno inatteso. Quasi di colpo - anche per la tenace spinta che ha continuato a profondervi Piero Bassetti in molte sedi, ma soprattutto nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro dove ha trovato un alleato importante e decisivo nel Presidente De Rita – l’idea di inserire contemporaneamente le autonomie funzionali sia nella legge di delega n. 59 del 1997 (la Bassanini uno) sia, e soprattutto, nel progetto di revisione della Costituzione (articolo 56 del progetto della Commissione Bicamerale presieduta dall’on. D’Alema) è partita ed è andata molto avanti.
Anzi l’idea ha avuto successo su tutti e due i fronti. Così di autonomie funzionali ha parlato la già citata legge di delega n. 59 del 1997, all’articolo 1 e, conseguentemente, il primo articolo del decreto n. 112 del 1998 che, se è vero che limita il conferimento di funzioni e compiti alle autonomie funzionali ai «casi espressamente previsti», in ogni caso fornisce loro il riconoscimento fondamentale richiesto. Questo c’è stato e l’attribuzione di funzioni e compiti è avvenuta.
Conseguentemente, il citato decreto n. 112 dedica all’ordinamento delle Camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura il capo VII (articoli 37 e 38), mentre ulteriori qualificate citazioni sono rinvenibili in altri articoli del titolo II: «Sviluppo economico e attività produttive», specialmente là dove è previsto che i Comuni (tutti, ma specialmente quelli medi e piccoli) possano stipulare convenzioni con le Camere di Commercio per la realizzazione dello sportello unico delle attività produttive (articoli 24 e 23).

SENZA UN RICONOSCIMENTO COSTITUZIONALE
Fin qui tutto bene: le autonomie funzionali sono state messe in campo e possono operare. Per loro sono stabiliti compiti, attività e svolgimento di funzioni. Ma... c’è un punto interrogativo, importante e del tutto correlato alla filosofia di fondo che il ministro della funzione pubblica Franco Bassanini ha adottato in tutta la vicenda del decentramento autonomistico o federalismo amministrativo, all’insegna del quale si è mosso nel biennio della sua direzione politica del settore.
La strategia è stata quella dell’anticipo, nel tentativo di coagulare intorno ad un’idea e a un progetto un consenso di massima utilizzando in tempi ristretti la fiducia ottenuta per marcare un immediato cambio di direzione prima che gli interessi conservatori dello status quo potessero organizzarsi per frenare e opporsi a qualsiasi effettiva riforma.
Va osservato tuttavia che la spinta al decentramento autonomistico, che ben può essere iscritta nella Costituzione vigente (artt. 5 e 128 per la parte che qui ci interessa, nonché 115, 116 e 118, specialmente per quel che riguarda le Regioni e gli «altri» enti locali), anche quando venga portata «sino ai limiti del federalismo», come è stato detto più volte, viene a scontrarsi con un muro che è quello della letteralità delle disposizioni costituzionali. Proprio per superare questo ostacolo ci si è mossi sulla strada di fornire un quadro costituzionale rinnovato all’intero sistema delle autonomie locali, dentro la riforma dell’ordinamento costituzionale in senso federale. Sottospecie di questo era poi il riconoscimento delle autonomie funzionali che venne inserito, come si diceva, nell’art. 56 del progetto della Commissione Bicamerale.
Come sappiamo, la nave della Commissione D’Alema ha fatto naufragio e con essa l’art. 56, che pure aveva avuto la buona ventura di essere stato approvato da un ramo del Parlamento in una delle ultime sedute prima dell’affondamento.
Ci domandiamo a questo punto: potranno le autonomie funzionali (e le Camere di Commercio che ne sono specie qualificata) reggere senza un riconoscimento costituzionale che è venuto meno restando appese soltanto al ben più esile rampino della legislazione ordinaria? Certo, i poteri sin qui previsti non vengono per ciò stesso meno e le Camere di Commercio continueranno ad avere le competenze stabilite, ma certo per esse - e per le Università: l’altra forma di spicco tra le autonomie funzionali - il riconoscimento sancito dall’art. 56 sarebbe stato fondamentale.
Può esser questo, in definitiva, un argomento ulteriore per procedere ad una revisione parziale della Costituzione, parte II, cominciando con l’approvare - secondo le procedure ordinarie dell’art. 138 - quelle parti di federalismo amministrativo ovvero di autonomismo autentico che appaiono mature e a portata di mano.