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Impresa & Stato n°46 

  

IL LAVORO AUTONOMO VISTO DAL NORD-EST

di 
Armando Tursi 

Liberarsi dai condizionamenti del «paradigma lavorista», incentrando l’intervento sul mercato e sul welfare per rispondere alle esigenze dei soggetti coinvolti. 
 

Si moltiplicano negli ultimi tempi le analisi dottrinali e le iniziative legislative aventi ad oggetto il lavoro autonomo, o meglio, il suo rapporto con quello che può definirsi «il paradigma lavoristico»: il lavoro subordinato come oggetto classico del diritto del lavoro; la protezione e la promozione di un soggetto socialmente svantaggiato come ratio caratteristica del diritto del lavoro medesimo (Pedrazzoli 1998a e 1998b; Ferraro 1998; D’Antona 1997; De Luca Tamajo 1997; Ichino 1997; Perulli 1997; Alleva 1996; D’Antona 1996). 
Volendo riassumere e sintetizzare quasi in uno slogan il dibattito in atto - ma senza allontanarci, crediamo, troppo dal vero - si può affermare che nell’approccio ricorrente dei giuristi del lavoro, il problema viene prevalentemente focalizzato alla luce dell’idea secondo cui il lavoro autonomo, o larga parte di esso, sfuggendo al «paradigma lavoristico», sfugge del tutto alla regolazione protettiva, anche in quelle parti e in quella misura che invece sarebbero richieste dalla specificità del fenomeno; d’altro canto - ma su questa seconda istanza il consenso non è più unanime - parti significative del lavoro subordinato reclamerebbero un’esigenza di alleggerimento del carico protettivo, sia per via di diversificazione normativa, sia per via di una fuoriuscita dalla stessa fattispecie di riferimento.  
Le ragioni di questo profondo sommovimento - i cui primi esiti normativi sono imminenti (v. d.d.l. n. S 2049, sulla «tutela dei lavori atipici») - sono naturalmente di ordine socio-economico, e attengono essenzialmente a fenomeni quali la forte crescita quantitativa del lavoro autonomo, la stasi o il calo del lavoro dipendente, la trasformazione interna di quest’ultimo in parallelo con il tendenziale superamento del modello «fordista» del lavoro rigidamente eterodiretto, la mutata percezione sociale del valore relativo del lavoro indipendente rispetto a quello dipendente, che appare sempre meno in sintonia con il «paradigma lavoristico» assunto invece quale modello ispiratore dallo stesso legislatore, ordinario e costituzionale (Romagnoli 1995).  
A tutto questo, i giuslavoristi aggiungono del loro. 
Si tratta della mai sopita diatriba dottrinale e giurisprudenziale sull’esatta individuazione della nozione di lavoratore subordinato stabilita dall’art. 2094 cod. civ., messa in discussione dal processo, in atto ormai da circa 2 decenni, di crescente diversificazione e «flessibilizzazione» delle discipline: si ritiene da più parti, infatti, che questo processo non possa non comportare la rottura dell’unità della stessa fattispecie generale «lavoro subordinato». 
L’intreccio tra questa tematica classica del diritto del lavoro e quella delle trasformazioni del lavoro nel post-fordismo è, nel contempo, un item ineludibile per i giuristi del lavoro, ma anche un problema da affrontare con grande umiltà intellettuale e assoluto disincanto metodologico. 
Si tratta di ricercare in discipline non giuridiche, ma economiche e, soprattutto, sociologiche, le risposte a domande che attengono alla trasformazione del proprio oggetto d’indagine (e, dal punto di vista del legislatore, di regolazione), al nuovo contesto valoriale in cui esso si pone nella percezione sociale, al nuovo bilanciamento socialmente desiderabile tra istanze protettive ed egualitarie, e istanze di libertà individuale e diversificazione. Solo dopo una adeguata comprensione di tali mutamenti sarà possibile immaginare nuove modalità operative dei valori di preminente rilievo costituzionale che continuano inderogabilmente a illuminare il fenomeno del «lavoro umano» (v. artt. 35 e ss. Cost.; ma anche e soprattutto artt. 2 e 3, comma 2, Cost.). 
Nelle analisi dei giuristi del lavoro si riscontra una notevole enfatizzazione dell’approccio economicistico, assunto come punto di partenza per le diverse proposte di ingegneria sociale. Semplificando un dibattito quanto mai complesso e in larga parte estraneo alle specifiche competenze di chi scrive, sembra di poter individuare due opposte tendenze, qualificate dall’ipotesi interpretativa assunta come «chiave» euristica; all’interno di questi due estremi, poi, il dibattito si articola in una grande varietà di posizioni. 
L’ipotesi forse più diffusa è quella che parte dal dato - peraltro sovente enfatizzato - della «fuga dal lavoro dipendente», e lo spiega con l’eccessiva «rigidità» della sua regolazione, che agirebbe come fattore di esclusione degli outsiders: la «fuga dal diritto del lavoro», insomma, sarebbe segno di una patologia economico-istituzionale. 
La terapia dovrebbe pertanto fare leva, per un verso, su una coraggiosa deregolazione dei rapporti di lavoro, e per l’altro, sul potenziamento degli istituti di sostegno operanti nel mercato del lavoro: formazione, orientamento, sostegno alla disoccupazione in chiave workfare, ecc. (v., per tutti, Ichino 1996). 
La tendenza opposta - che potremmo definire «neoregolatoria» - si distingue quanto al diverso segno della «terapia», ma non quanto all’assunto secondo cui vi sarebbe una «fuga dal diritto del lavoro». Si assume, però, che tale fuga sarebbe segno di una patologia non tanto istituzionale, quanto sociale; e richiederebbe, pertanto, un rinnovato intervento istituzionale che miri a rimuoverla (per esempio, ad evitare il ricorso al lavoro cd. «parasubordinato» nella misura in cui nasconda fenomeni di elusione delle norme lavoristiche protettive). 
Qualche dubbio, però, può avanzarsi sull’esattezza dell’assunto di base: che, cioè, sarebbe in atto una «fuga» dal diritto del lavoro, e che ciò sarebbe indice di una patologia (istituzionale o sociale). 
Il dubbio ha notevoli implicazioni, perché se dovesse rivelarsi fondato costringerebbe la dottrina giuslavoristica (e il legislatore) a mutare almeno in parte il proprio approccio: da una prospettiva ottimisticamente ri-regolatoria (V. F. Von Hayek 1949), ad una più prudente rimeditazione circa il proprio oggetto empirico, finalizzata a verificare se, quando ci si interroga sul tramonto della subordinazione, sul lavoro sans phrase, sul travail sans emploi, si pongano giuste domande o falsi problemi.  

UN’INDAGINE SUL LAVORO AUTONOMO  
Un apprezzabile e non convenzionale contributo a questa chiarificazione proviene da un recente ricerca interdisciplinare condotta dal Dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con la Camera di commercio di Milano, che ha analizzato le trasformazioni del lavoro e della piccola impresa nelle regioni del nord-Italia (Università Cattolica 1998).  
Da questa ricerca emerge una parziale invalidazione sia dell’ipotesi «neoliberista», secondo cui l’esplosione del lavoro autonomo sarebbe una risposta del mercato alla regolazione eccessivamente protettiva del lavoro dipendente, sia di quella «neoregolatoria», secondo cui il vero problema - quasi la nuova «emergenza sociale» - consisterebbe nella carenza di protezione dei «nuovi lavori» che sfuggono al «paradigma lavorista». 
L’attendibilità dell’analisi è accresciuta dall’avere scelto come campo di indagine quel contesto del tutto peculiare nell’esperienza europea, ma del tutto omogeneo invece all’esperienza italiana, che è costituito dal prodigioso sviluppo economico in atto da qualche decennio nel nord-est del nostro Paese. 
Alle consuete analisi di taglio generale sulla «crisi della società salariale» e sulla conseguente destrutturazione della classe operaia fordista, si accompagna un’accurata disamina dei dati specificamente desumibili dalla realtà del nostro paese, e in particolare della sua area economicamente più dinamica ed evoluta.  
Questi dati documentano, innanzi tutto, il fenomeno della ridistribuzione, più che della riduzione, del lavoro dipendente: questo è trasmigrato in misura massiccia dalla grande e media impresa alla piccola, dall’industria al terziario; da mansioni operaie a mansioni impiegatizie. Solo in Lombardia si è registrato un calo quantitativo del lavoro dipendente, compensato da un forte incremento di quello autonomo; in Piemonte e Veneto si registra addirittura (fino al 1995) una debole tendenza contraria. 
Il lavoro autonomo non solo è cresciuto nel settore terziario (ove è autonomo un addetto su 3), ma, a differenza di quello dipendente, ha fatto registrare una tenuta o addirittura un lieve incremento percentuale anche nell’industria, ove peraltro l’emorragia di dipendenti è stata solo in parte compensata dai lavoratori autonomi e dai contratti atipici.  
Dunque, non c’è una «fuga dal lavoro dipendente», e non c’è neanche un’esplosione del lavoro indipendente, il quale «aumenta esclusivamente e moderatamente in termini percentuali, mantenendo costanti i valori assoluti». Le linee evolutive più marcate sono piuttosto quelle della terziarizzazione (e femminilizzazione) della forza lavoro, e della modifica del rapporto tra operai e impiegati: in sintesi, l’«indebolimento della fascia centrale della forza lavoro (lavoro dipendente operaio)» e la «crescita delle fasce laterali (pensionati, autonomi)». 
  
NUOVI APPROCCI REGOLATIVI 
L’aspetto di maggiore interesse per chi progetti nuovi archetipi regolativi del lavoro, è individuabile nell’«allargamento della struttura sociale» che questi fenomeni comportano: il lavoro subordinato non identifica più una classe sociale, giacché «la condizione lavorativa individuale (pensionato, lavoratore autonomo, impiegato, operaio, piccolo imprenditore) non è più sufficiente per predire il livello di reddito a cui i soggetti hanno accesso» (Università Cattolica 1998). 
Ciò non significa che la disuguaglianza diminuisca, ché anzi la polarizzazione sociale aumenta: solo che su di essa influisce sempre meno il discrimine autonomia/subordinazione, e sempre più influiscono fattori estranei alla struttura e alla regolazione dei rapporti di lavoro, e quindi al diritto del lavoro. 
Ciò potrebbe suggerire un nuovo approccio regolativo, basato sulla debolezza economica piuttosto che sulla condizione lavorativa subordinata: è questa una suggestione che sta prendendo piede non solo a livello accademico; ma l’analisi sociologica ci fornisce informazioni ulteriori, che è necessario assimilare prima di prendere decisioni politiche di questo segno. 
Da una parte, va constatato che «nelle fasce basse della popolazione lavorativa l’unità che la condizione operaia era stata in grado di costituire all’interno della società industriale viene meno e lascia spazio a una varietà di posizioni lavorative individualizzate, spesso instabili e di basso profilo-qualificazione, caratterizzate da una scarsa identità collettiva»: ciò rende più problematico l’intervento regolativo, per la semplice ragione che tale intervento rischia di essere un dono non richiesto e non accetto da parte dei destinatari.  
Ce ne rende avveduti la ulteriore constatazione che l’opzione per il lavoro autonomo non è riducibile, in molti casi, e forse addirittura nella normalità dei casi, almeno nella realtà economicamente avanzata del nord-est italiano, ad un second best, ma è una scelta considerata e socialmente percepita come più utile e più desiderabile rispetto al lavoro dipendente: e questo sia dalla prospettiva delle imprese che da quella dei lavoratori. 
Lo sviluppo del lavoro autonomo in Italia appare una questione principalmente endogena alle dinamiche economiche nazionali, la quale, per essere compresa appieno, va reindirizzata verso le tematiche delle differenti forme di sviluppo economico-produttivo susseguenti al superamento del modello della produzione di massa fordista, piuttosto che verso le diatribe sul tipo di garanzie e limiti al firing: contrariamente a quanto l’ipotesi della «rigidità» farebbe presupporre, il lavoro autonomo dei giovani in Italia è più diffuso laddove i tassi di disoccupazione sono più bassi, i tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro sono più sostenuti, e laddove alcuni fra gli indici di «massima rigidità» del mercato del lavoro sono inferiori alla media del resto del Paese (Università Cattolica 1998). 
La diffusione delle nuove forme di lavoro subordinato atipico, flessibili e, formalmente, indipendenti, è funzione, dunque, del livello degli investimenti e del grado di attività economica e produttiva realizzata nel territorio. Investimenti, imprese e lavoro, creando sviluppo creano le condizioni per un complessivo benessere economico, al quale è collegato anche il livello del self-employment. 
Il paradigma «economicistico», tanto nella versione neoliberista che in quella neoregolatoria, ne risulta inficiato, o quanto meno confinato in un’area ben delimitata e comunque da delimitare: un’area in cui il rimpiazzo del lavoro dipendente con quello autonomo si presta a nascondere fenomeni di pura elusione della normativa lavoristica. 
In quest’area, se non ci si accontenta della prospettiva meramente repressiva, si pone il problema della modulazione delle tutele, dell’articolazione tipologica della disciplina protettiva, della contrattazione in deroga, del «rientro graduale» dall’«economia sommersa»: dovendosi altresì constatare che l’assetto legislativo è già chiaramente orientato in tal senso, se è vero, ad esempio, che nel 1994, nell’area milanese, oltre il 70% delle assunzioni sono state a termine o a tempo parziale. 
Al contrario, ipotesi di ridefinizione normativa della fattispecie «lavoro subordinato», o di sua diversificazione, appaiono eccedenti lo scopo: non è riconducendo ad un tertium genus di «lavoro coordinato» fattispecie di autentica fuga dal diritto del lavoro, sia pure per «legittima difesa», che si risolve il problema della costruzione di un diritto del lavoro che renda compatibili efficienza economica e protezione, libertà e uguaglianza, mercato e valori della persona.  
Ma la sfida più difficile, per il diritto del lavoro e per il legislatore, non è questa; è invece quella lanciata da quei settori dell’economia e della società, cui si è sopra accennato, che fanno del lavoro autonomo, dell’auto-imprenditorialità e della micro-imprenditoralità l’oggetto di una scelta consapevole, in quanto legittimata dal contesto sociale, economico e culturale. 
In questo settore, la tendenza alla sovrapposizione funzionale e alla piena fungibilità tra lavoro subordinato e lavoro autonomo solleva le domande e i problemi più ardui, proprio perché non si tratta di riportare nell’alveo della vera subordinazione falsi lavori autonomi, ma di giustificare la prevalenza normativamente imposta di un paradigma, quello «lavorista», che mostra segni inequivocabili di rigetto sociale.  
Né si tratta semplicemente di sostituire un paradigma industriale-fordista con un paradigma lavorista «post-fordista»: in discussione sono proprio i caratteri fondanti del diritto del lavoro, ossia la sua ineliminabile valenza protettiva e collettiva, che pare esplicitamente rifiutata sia da coloro che liberamente optano per il lavoro autonomo, sia da coloro che accettano il lavoro dipendente - questo sì - come un second best, in attesa e nella speranza di un riscatto sociale atteso non già dal diritto del lavoro, ma dal passaggio all’auto-imprenditorialità (sia pure, e anzi certamente «micro»).  
«Nelle 3 regioni considerate il lavoro autonomo e la piccola impresa non solo sono numericamente importanti, ma sono anche capaci di attrarre nella propria sfera di influenza altre componenti sociali, dai lavoratori dipendenti ai pensionati». 
È facile che il dipendente della piccola impresa «tenda a identificarsi più con la propria impresa che con chi è nella medesima posizione professionale. Non a caso il tasso di sindacalizzazione è in queste regioni inversamente proporzionale alla dimensione d’impresa» (Università Cattolica 1998). 
Il «paradigma lavorista» torna però a prendere il sopravvento quando l’interlocutore diretto del dipendente non è il «padroncino», ma un manager o un quadro di un’impresa medio-grande o di un’impresa di servizi: si avverte una distanza sociale minore tra l’operaio e il titolare della piccola impresa che tra il commesso e il responsabile dell’ipermercato. 
Ne risulta una percezione della dipendenza legata, più che agli «indici» normativi dell’assoggettamento al potere direttivo o dell’inserimento in un’organizzazione altrui, alla impossibilità di un riscatto o progresso sociale: l’operaio della piccola impresa del nord-est crede che un giorno potrà mettersi anch’egli in proprio, e vede nel «padrone» un proprio simile sotto il profilo socio-culturale, se non economico; anzi, sotto questo aspetto, un modello imitabile e da imitare (Barbagli-Schizzerotto, 1997). 
E tuttavia in quest’area - quella cioè della microimprenditorialità diffusa - il fenomeno che si registra non è la crisi della subordinazione come categoria giuridica, ma semmai la sua devalorizzazione, e la conseguente devalorizzazione delle istanze protettive e collettive che il diritto del lavoro ad essa riconnette. 
E non solo il diritto del lavoro ne esce trasformato, se è vero che «le nuove forme di impiego, in quanto attività da one man band, quasi del tutto prive di regolazione istituzionale e di protezione sociale, implicano una vera e propria scelta sociale a favore di un regime di welfare di tipo residuale»: ciò che comporta un depotenziamento delle «possibilità redistributive e riequilibrative della disuguaglianza sociale insite nel principio del welfare universalistico» (Università Cattolica 1998). 
Non è certo scopo di queste note fornire risposte a simili problemi: esse si propongono solo di indurre i giuslavoristi ad una riflessione ancora più coraggiosa e disincantata di quella svolta finora sul «futuro del diritto del lavoro»; ma non ci esimiamo da qualche considerazione in proposito.  
Dunque, il ricorso al lavoro autonomo è sempre più visto, sul piano giuridico, come oggetto di una scelta «libera», e sul piano socio-culturale come oggetto di una scelta «migliore». Di fronte a questa realtà, il giurista del lavoro deve porsi in una duplice prospettiva: quella dell’interprete e operatore del diritto, e quella dell’ingegnere sociale. 
Dal primo punto di vista, deve ancora una volta escludersi che la «libertà» di scelta del lavoro autonomo possa tradursi nella libertà di qualificare il rapporto di lavoro in maniera difforme dal suo contenuto effettivo, quale riscontrabile nel suo concreto svolgimento: e ciò varrebbe, naturalmente, anche in caso di «certificazione» del rapporto ad opera di organismi pubblici extragiudiziari, che si suggerisce come parziale antidoto all’incertezza applicativa del diritto del lavoro nelle «aree grigie» tra subordinazione e autonomia. 
Più delicato, invece, è il problema che, sempre nella prospettiva del diritto positivo, si pone allorché si adottino nozioni della subordinazione molto spinte sul piano funzionale, e meno su quello strutturale. 
Intendiamo alludere alla tendenza, diffusa anche in giurisprudenza, soprattutto in quella di merito, a costruire una nozione di subordinazione «a misura dell’impresa», capace cioè di attrarre quasi per «magnetismo» ogni prestazione collaborativa che si presenti come funzionalmente interconnessa con l’impresa (criterio dell’«inserimento» nell’impresa), e mettendo in second’ordine l’elemento, assunto invece come decisivo dalla ancora prevalente giurisprudenza di legittimità, dell’eterodirezione.  
Non è possibile nemmeno accennare ad ulteriori approfondimenti di questa problematica (v., per tutti, Napoli 1995, 1057 e ss.): ci limitiamo ad osservare che la rilevata tendenza non può tollerare, in via di principio, l’esistenza di una sovrapposizione funzionale spinta fino alla piena fungibilità tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, e perciò è maggiormente suscettibile di entrare in rotta di collisione con la realtà dei «nuovi lavori» come sopra descritta.  
L’approccio metodologicamente più corretto appare quello che non faccia derivare dalla maggiore porosità funzionale del confine tra subordinazione e autonomia l’invalidazione della rigorosa distinzione giuridica tra le due fattispecie; si tratta allora di individuare, negli ampi spazi lasciati dalla definizione dell’art. 2094 cod. civ., la nozione di subordinazione a ciò più funzionale. 
Sul piano del ius condendum, invece, si tratta di realizzare forme regolative che introiettino la nuova legittimità sociale dei «nuovi lavori autonomi», e registrino in maniera per quanto possibile fedele le esigenze e i bisogni espressi da questi nuovi soggetti sociali. 
Bisognerà liberarsi, allora, dei condizionamenti del «paradigma lavorista», e quindi evitare moduli regolatori di stampo protettivo-eteronomo, o che presuppongano una articolazione collettiva degli interessi che ancora non si è realizzata nella realtà, e che solo si può auspicare e favorire, ma non creare per via istituzionale. 
Più che sul «rapporto» di lavoro, allora, l’intervento regolatorio andrà concentrato sul «mercato» del lavoro autonomo, e sul versante del welfare: sembra infatti che i bisogni maggiormente espressi dai soggetti in esame attengano alla formazione e all’aggiornamento professionale, da un lato; alla sicurezza sociale, dall’altro.  

BIBLIOGRAFIA