Impresa
& Stato n°46
I LAVORATORI AUTONOMI
DI SECONDA GENERAZIONE
di
Sergio
Bologna
Un termine largamente
frainteso, insieme al discorso storico, sociale e politico ad esso
sotteso, una categoria che non ha ancora trovato le strade per farsi sentire.
L’autore
di queste righe si chiede se un giorno dovrà pentirsi o meno di
aver coniato il termine «lavoratore autonomo di seconda generazione»
e di averlo messo in circolazione più di un anno fa con un libro
dallo stesso titolo edito dalla casa editrice Feltrinelli di Milano. La
domanda si pone perché nel corso di quest’anno, pur avendo riscosso
il libro un notevole successo e pur essendo stato assunto il termine come
punto di riferimento di alcune iniziative nuove sul piano della rappresentanza
sindacale del lavoro indipendente, si è potuto constatare che non
solo il termine in quanto tale ma il discorso storico, sociale e politico
che gli sta dietro sono stati largamente incompresi o fraintesi (cfr. S.
Bologna e A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari
del postfordismo in Italia, Feltrinelli 1997).
Cerchiamo dunque di chiarire
cosa intendiamo per «lavoro autonomo di seconda generazione».
UNA DEFINIZIONE
DEL TERMINE
È il lavoro che non
può non pagare le tasse, potremmo dire con una formula sbrigativa,
che non può «lavorare in nero» perché è
il lavoro che trova come riferimento una committenza nell’impresa, sia
essa pubblica o privata, la quale ha tutto l’interesse a documentare i
suoi costi, nella fattispecie i costi delle prestazioni fornite da terzi,
e quindi esige da costoro una fattura, nel caso di soggetti forniti di
partita IVA, o una ricevuta compensi negli altri casi (prestazioni occasionali
e prestazioni coordinate e continuative).
Si dirà che questo
è comune a tutte le prestazioni di tipo professionale o di tipo
commerciale. In realtà sappiamo che non è proprio così
e che l’evasione fiscale non è solo una questione di comportamento
civico e morale scorretto ma è anche frutto di una situazione oggettiva,
determinata dalle caratteristiche dei soggetti che intrattengono uno scambio
di servizi e dai rapporti di forza tra i medesimi.
Un medico verso i suoi clienti
ha un rapporto di forza diverso che un consulente verso l’azienda per la
quale deve predisporre un piano di formazione del personale, pur essendo
ambedue prestatori di servizi professionali. È presumibile che il
primo, qualora preferisca un rapporto fiscalmente «informale»,
lo ottenga con meno difficoltà del secondo.
I meccanismi che possono
determinare comportamenti scorretti non sono di natura morale ma sono riconducibili
a dei rapporti di produzione, direbbe il vecchio Marx. E quali sono i rapporti
di produzione che hanno portato alla creazione del lavoro autonomo di seconda
generazione? Sono i meccanismi propri del sistema «post-fordista»,
di un sistema nel quale la grande impresa (pubblica o privata) è
portata a esternalizzare una quota consistente di servizi professionali
oltre che una quota consistente di segmenti produttivi (Atti del Convegno
di Nimega, Autonomy and independent work? Experiences with restructuring
industrial organisation in West and East, 30 novembre - 1 dicembre 1992).
Non è possibile trovare
altra spiegazione alla crescita improvvisa di lavoratori indipendenti,
per esempio nel settore «servizi all’impresa», che l’affermarsi
di un modo di produzione nel quale, contrariamente ai decenni precedenti
- dove sembrava esserci la rincorsa al raggiungimento di unità produttive
sempre più consistenti in modo da poter creare delle economie di
scala - si manifesta (o almeno si è manifestata dalla metà
degli Anni Settanta in poi) una rincorsa al raggiungimento di tessuti reticolari
d’impresa estremamente flessibili, dove c’è posto per tutte le dimensioni
e le tipologie d’impresa, da quella medio-grande all’impresa artigiana
alla microimpresa del lavoratore indipendente, tra loro collegate in maniera
permanente o occasionale (Cfr. A. Fumagalli, Flessibilità e scomposizione
del mercato del lavoro e la crescita del lavoro autonomo di seconda generazione:
il caso di Milano e della Lombardia, XII Convegno di Economia del Lavoro,
Cagliari, 2-4 ottobre 1997, settembre 1997).
Il core manpower tende a
ridursi e il numero di lavoratori esterni che concorrono alla formazione
del prodotto, alla sua promozione e commercializzazione, ad accrescersi.
In particolare questo fenomeno
si è verificato in Italia, paese nel quale i sistemi locali d’impresa
o «distretti industriali» e le produzioni diffuse hanno raggiunto
non solo dimensioni quantitative consistenti ma hanno ottenuto anche significativi
risultati sul piano della qualità del prodotto e della sua competitività
sui mercati esteri (Cfr. Brusco e Paba, Per una storia dei distretti industriali
italiani dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, in Storia del capitalismo
italiano dal dopoguerra ad oggi, a cura di Fabrizio Barca, Donzelli Editore,
Roma 1997).
Sarebbe stato lecito aspettarsi
che le istituzioni e la cultura italiana in senso lato cogliessero questo
fenomeno con anticipo rispetto ad altri paesi, ma così non è
stato, il fenomeno e tutti i suoi risvolti politico-sociali sono emersi
all’attenzione delle istituzioni e della scena pubblica solo di recente,
il che dà la misura di quanto la dimensione politica sia «ingessata»
e lontana dai problemi della società civile.
Il modo di produzione post-fordista
ha introdotto quindi dinamiche che hanno alimentato la subfornitura in
misura tale che gli statuti giuridici dell’impresa non sono apparsi più
adeguati a rappresentare l’effettiva funzione che questi organismi svolgono
nel sistema economico e produttivo: ciò vale tanto per la forma
giuridica della «impresa artigiana» quanto per la forma giuridica
«ditta individuale» o per altre forme di società non
di capitale.
LE CLASSI SOCIALI
Non è certo compito
mio, né avrei la competenza necessaria per farlo, entrare nel merito
del dibattito che si è aperto sulla forma giuridica dell’impresa
o sulle forme giuridiche del rapporto di lavoro, sulla loro inadeguatezza
o meno a tutelare i prestatari d’opera (Cfr. Adalberto Perulli, Il lavoro
autonomo, Giuffrè Editore, Milano 1996).
Il compito di questo breve
intervento è quello di mettere in luce alcuni aspetti specificamente
socio-politici del fenomeno del lavoro indipendente moderno.
Il primo aspetto riguarda
il problema delle classi sociali, se ci è permesso ancora usare
questo termine, più precisamente il problema dell’identità
del ceto medio.
Ci può soccorrere
nell’affrontare questo tema molto complesso il lavoro svolto in profondità
dai sociologi tedeschi e austriaci dell’epoca weimariana, in particolare
da Emil Lederer e da Theodor Geiger, i quali si erano interrogati sul fenomeno
inverso: nel primo Novecento la grande fabbrica fordista sembrava essere
il modello vincente. Essa produceva forza lavoro salariata in grande quantità
e il lavoro salariato, sia esso pubblico o privato, rappresentava la forma
più diffusa di identità sociale del cittadino operaio, impiegato,
quadro o manager che fosse. Si formava un nuovo proletariato industriale
e una nuova borghesia. Che accadeva in quell’universo ancora consistente
ma in palese decremento proporzionalmente agli altri, cioè l’universo
del lavoro autonomo, rappresentato dal contadino, dal commerciante, dal
professionista, dall’artigiano? Soffriva del malessere tipico dei ceti
in declino? Se il lavoro salariato trovava la sua rappresentanza nei sindacati
operai, se vedeva garantirsi dallo stato sociale sempre maggiori tutele,
quale ruolo potevano svolgere le associazioni di categoria dei lavoratori
autonomi? E questi lavoratori autonomi o indipendenti come reagivano al
loro sentirsi un ceto in declino?
La mentalità di ceto,
profondamente radicata, non veniva messa in crisi dalla progressiva emarginazione
economica e politica? I vecchi lavoratori indipendenti, i quali avvertivano
la maggiore forza degli operai sul piano della contrattazione degli interessi,
si sentivano sempre appartenenti al ceto medio? Come reagivano a questa
sensazione di «declassamento»?
Un altro aspetto, importantissimo,
fu messo in luce: il lavoro indipendente si trasforma sotto l’influenza
dei nuovi modelli produttivi e di consumo. Per quanto riguarda l’artigianato,
proprio Schumpeter, assieme ad altri, come Briefs, osservò che la
fabbrica fordista stava imponendo un processo di profonda innovazione nella
micro-impresa artigiana, mentre altri, come Geiger, sottolinearono come
l’evoluzione sia delle tecnologie di produzione che delle tecniche di gestione
creava nuove professionalità e arricchiva l’universo del lavoro
indipendente di figure moderne, dotate di skills diversi, di conoscenze
innovative, apriva nuovi mercati e nuove possibilità di affermazione
e di reddito. Quindi non era il lavoro indipendente in quanto tale, non
era il vecchio ceto medio in quanto tale, che poteva dirsi in declino,
ma quella parte di esso che non era più all’altezza dei tempi, che
non sapeva adeguarsi alla rivoluzione fordista. C’erano sì i Proletaroiden
come li chiamava Geiger, ma c’erano anche i nuovi ingegneri, i nuovi tecnici
della comunicazione, i nuovi esperti di marketing ecc.. Si affermava dunque
un «nuovo lavoro autonomo».
È il vecchio problema
della modernizzazione, dove ci sono perdenti e vincenti. La sociologia
degli Anni Venti attribuì grande importanza a questo fenomeno, mise
in luce come certi strati operai potevano essere considerati i nuovi vincenti
e certi strati di lavoratori autonomi i nuovi perdenti, come gli uni fossero
propensi ad abbandonare mentalità e comportamenti proletari e gli
altri sentissero tutta la frustrazione di un declassamento della borghesia.
La «spiegazione» del successo del movimento di Hitler fu ricondotta
a questi fenomeni (imborghesimento operaio e declassamento dei ceti medi).
La reazione contro i valori dello stato democratico sarebbe stata la reazione
di un ceto medio in declino che si difendeva dal potere dei sindacati operai
e protestava contro i poteri e i privilegi del funzionario pubblico.
La storiografia successiva
ha modificato, anche radicalmente, questa interpretazione del fascismo,
ha formulato un giudizio più articolato; resta il fatto però
che i problemi posti allora sono tuttora attuali: esiste un problema di
identità di ceto del lavoro indipendente, esiste un problema di
rappresentanza, di riconoscimento sociale, in particolare per quello di
«seconda generazione».
Passano cinquant’anni da
quelle riflessioni ed ecco che, alla fine degli Anni Settanta, inizia nel
mondo capitalistico una nuova stagione di analisi del lavoro autonomo.
E subito si parla di «nuovi lavoratori indipendenti», di un’altra
generazione di lavoratori indipendenti, di neue Selbständige, di new
self-employed. Ne parlano sociologi europei e americani, ne parlano sociologi
dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, introducendo una variante nuova,
quella «cultural-antropologica»: la crescita del lavoro autonomo
dalla metà degli Anni Settanta sarebbe riconducibile a un moto spontaneo
delle nuove generazioni attratte da modi di vita diversi da quelli canonici
e regolamentati del lavoro salariato: la voglia di «farsi da sé»,
di gestire il proprio tempo, di cogliere le opportunità offerte
dal cambiamento delle abitudini e dei consumi, oppure la voglia di tornare
alla terra, di uscire dallo stress della metropoli – in altre parole un
moto libertario, una voglia di vivere secondo regole interne, non da «eterodiretti».
È quindi un intreccio
di spinte soggettive e oggettive quello che avrebbe portato alla forte
espansione del «lavoro autonomo di seconda generazione», da
un lato la riorganizzazione del modo di produzione, l’esternalizzazione
dei servizi, il modello cosiddetto post-fordista e dall’altro il mutamento
nei modi di pensare e nelle attese delle nuove generazioni: domanda e offerta
si sarebbero incontrate felicemente.
IL DISAGIO DEL
CETO MEDIO
A questo punto dovrei esser
riuscito a chiarire meglio il percorso che ha portato alla formulazione
del concetto di lavoro autonomo di seconda generazione, un lavoro che non
è presente nel commercio o nelle professioni protette e tutelate
dagli Ordini, ma è presente massicciamente nel settore dei servizi
alle imprese, servizi alla persona, professioni non riconosciute e non
tutelate dagli Ordini, è presente nella subfornitura e nell’esternalizzazione
di certi servizi pubblici o di funzioni assicurate una volta e ora non
più dall’ente pubblico.
Se di fronte a questo universo
complesso e composito ci dovessimo porre con lo stesso sguardo della sociologia
austrotedesca degli Anni Venti, quali domande dovremmo porci?
Un primo problema riguarda
l’identità del nuovo universo sociale. È un nuovo ceto medio
oppure è un nuovo proletariato? O meglio, dato che il termine «proletariato»
sembra ormai porre qualche problema, in quale fascia della grande e pervasiva
middle class si colloca questo universo?
Per dare una risposta a
questa domanda si dovrebbe poter disporre di una base di ricerche molto
più approfondita di quella attuale sui redditi medi, segmento per
segmento di mercato, dei «lavoratori autonomi di seconda generazione»,
in particolare di quelli che hanno scelto questo modo di vita come l’unico,
non quelli che esercitano un’attività di lavoro autonomo secondaria
rispetto a un’attività salariata o a una pensione.
Alcune ricerche condotte
in altri paesi e frammenti di ricerca condotti in Italia ci portano ad
avanzare l’ipotesi che l’attività di questo lavoro autonomo non
procura redditi elevati in media e comunque non superiori, se non decisamente
inferiori, a quelli del lavoro dipendente del medesimo settore di attività
o affini (cfr. la serie di monografie pubblicate negli anni Novanta dell’Unemployement
Insurance Service dell’U.S. Dept. of Labour di Washington).
In realtà i parametri
che sono stati tradizionalmente usati per «contabilizzare la consistenza
dei ceti sociali», i valori che stavano alla base dei giudizi sulle
«diseguaglianze sociali» sono radicalmente mutati, questo è
il punto.
La comparazione tra redditi
deve essere integrata da una comparazione tra orari, condizioni di lavoro,
esistenza o meno di un salario differito. L’orario medio di una giornata
lavorativa di un lavoratore indipendente supera largamente, com’è
confermato anche da alcune statistiche dell’U.E., quello di un lavoratore
salariato e le diseguaglianze sul piano della disponibilità del
proprio tempo di lavoro e di vita contano nella percezione soggettiva quanto,
se non di più ormai, delle diseguaglianze di reddito (v. Commissione
Europea, Dir. Gen. Occupazione, relazioni industriali e affari sociali,
L’occupazione in Europa, anni 1993 sgg.).
Questo spiega a mio avviso
«il disagio» del ceto medio del lavoro indipendente di seconda
generazione, disagio che non a caso è diffuso anche presso soggetti
che raggiungono redditi soddisfacenti. Ciò non significa che il
problema del reddito e quindi dello status sociale, che una posizione lavorativa
consente di raggiungere, non siano sentiti. Su questo terreno la condizione
del lavoratore autonomo di seconda generazione in Italia è giunta
a una soglia oltre la quale è difficile immaginare che questa attività
possa essere attraente per i giovani.
È chiaro che stiamo
parlando dell’imposizione fiscale: un sistema che richiede il pagamento
delle imposte prima della riscossione dei compensi è un sistema
incivile, un sistema che mette sullo stesso piano del trattamento fiscale
la filiale di una multinazionale e la ditta individuale è un sistema
ingiusto, un sistema che non offre alcun sostegno né alcun servizio
all’indispensabile aggiornamento professionale è un sistema miope,
e l’elenco potrebbe continuare se mettiamo in conto l’assenza di tutele
previdenziali.
L’aumento della pressione
fiscale negli ultimi cinque anni in Italia ha prodotto non solo un silenzioso
declassamento del lavoro autonomo di seconda generazione ma per molti soggetti
– impropriamente chiamati «imprese» – anche uno scivolamento
da redditi e mentalità da middle class a redditi e mentalità
da working poor. La sensazione di essere padroni di sé, liberi e
indipendenti, lascia il posto alla certezza di essere degli Scheinselbständige
come dicono i tedeschi, degli autonomi per finta, di essere lavoratori
che subiscono le costrizioni del mercato e dello stato in modo più
pesante dei lavoratori salariati.
Il disagio perciò
diventa sempre più «un disagio di rappresentanza e di identità».
Il passaggio da una società
dei lavoratori salariati a una società dei lavoratori autonomi introduce
una profonda modificazione dei valori e dei parametri di giudizio, che
richiede un altrettanto profondo cambiamento nella cultura e nelle istituzioni
della rappresentanza (Jean Dubois, Requiem pour l’emploi salarié,
in «Projet» n. 246, 1996, pp. 59-67).
La sempre maggiore consapevolezza
di essere più dei lavoratori flessibili che degli imprenditori tiene
lontani questi lavoratori da associazioni confindustriali, la coscienza
di essere diversi dai lavoratori autonomi di prima generazione li fa guardare
con diffidenza le Associazioni del Commercio e dell’Artigianato.
I sindacati confederali
hanno cominciato a porsi questo problema, la CGIL addirittura ha dato vita
a una nuova federazione di categoria tagliata su misura per quel segmento
di lavoratori autonomi di seconda generazione che è emerso nelle
posizioni INPS dopo l’introduzione del prelievo del 10% (successivamente
aumentato al 12%), e cioè il segmento rappresentato dai lavoratori
con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. La CISL e la
UIL hanno aperto delle agenzie per il lavoro autonomo, le ACLI stanno pensando
di offrire dei servizi, in breve tutta la gamma delle rappresentanze sindacali
del lavoro salariato ha scoperto questo nuovo mercato delle tessere.
Personalmente ho i miei
dubbi che, una volta tirata la rete, questi nuovi pescatori trovino buon
bottino, troppo forti e dure a morire sono le incrostazioni pseudo-operaiste
e assistenzialiste, l’immagine che queste organizzazioni hanno del lavoro
è ancora quella fordista o, peggio, dell’impiego pubblico, i loro
consulenti sono in genere funzionari di stato, i progetti di tutela giuridica
e previdenziale formulati da costoro tendono a riprodurre per il lavoro
autonomo di seconda generazione lo schema del lavoro salariato.
IL PRELIEVO DEL
10%
La storia del prelievo del
10% è lì a dimostrarlo. L’idea nacque ai tempi del governo
Ciampi, in piena crisi economica e fiscale dello stato, ed evidenziava
fin dall’inizio la sua vera natura: un provvedimento adottato non per andare
incontro alle reali esigenze di lavoratori privi di qualsiasi copertura
previdenziale, ma per ampliare la base imponibile da cui prelevare contributi
destinati alla copertura della deficitaria gestione finanziaria dell’INPS.
Il tentativo fallì
rapidamente, per le dimensioni abnormi del prelievo (27%) e perché,
soprattutto, coinvolgeva tutti i lavoratori autonomi, comprese le categorie
protette da Ordini. Ci fu una vera e propria rivolta, l’idea fu messa in
un cassetto in attesa di tempi migliori e questi tempi vennero con il governo
Prodi che introdusse un prelievo, non a caso, per quella tipologia di lavoratori
autonomi che assomiglia di più (almeno così la pensano i
decisori) ai lavoratori subordinati e che si classifica in effetti come
«lavoro parasubordinato». Accadde allora una di quelle tipiche
situazioni che si verificano in questo paese ingessato, incapace di vedere
l’evidente.
Abituati, come dicevo all’inizio,
alla disciplina fiscale, i nostri amici parasubordinati effettuarono il
versamento all’INPS e si scoprì così che essi erano circa
un milione e 400 mila. Fu la prima volta che l’Italia Ufficiale prese atto
dell’esistenza del lavoro autonomo di seconda generazione, ne riconobbe
la cittadinanza solo quando lo vide indossare la divisa fiscale che le
ricordava il lavoro dipendente; e di colpo il fenomeno, per vent’anni ignorato,
assunse proporzioni irreali e, mancando statistiche affidabili, fu sovrastimato.
Questa prima iniziativa
concreta sul piano delle tutele previdenziali ha svelato però tutta
l’improvvisazione e la superficialità con cui vengono affrontati
questi temi da parte di un ceto di governo che è ancora tenacemente
legato allo schema del lavoro salariato e a una visione del lavoro indipendente
di prima generazione.
Non è stato ritenuto
opportuno creare un fondo speciale per i lavoratori autonomi di seconda
generazione ma si sono fatti confluire i versamenti nel Fondo dei lavoratori
autonomi di prima generazione, i lavoratori parasubordinati hanno perso
rapidamente la fiducia nella possibilità di vedersi tornare indietro
un giorno quei soldi sotto forma di contributo pensionistico e hanno cominciato
a cercare nuove forme contrattuali o societarie che, pur mantenendo la
trasparenza fiscale, evitassero loro il prelievo, molte posizioni INPS
appena aperte sono state chiuse e l’Italia Ufficiale, appena sovrastimato
il lavoro autonomo, ne sentenziò la «netta diminuzione»,
per dirla con le parole del Governatore della Banca d’Italia Fazio nella
sua Relazione generale del maggio 1998.
Dalla gestazione e dalla
decisione in merito a questo provvedimento coloro che ne sono rimasti completamente
fuori, pur essendone i protagonisti, sono stati proprio i lavoratori autonomi
di seconda generazione, la cui mancanza di visibilità sociale e
di rappresentanza mai è stata così chiara. Governi, partiti,
sindacati, cosiddetti esperti, hanno discusso, ragionato, legiferato senza
porsi mai il problema di capire chi sono questi lavoratori, che cosa pensano,
quali bisogni esprimono.
Ma non si può pretendere
che altri vedano ciò che non sono sollecitati o costretti a vedere.
Spetta quindi a questi lavoratori di trovare le strade per farsi sentire.
Per dirla con Hirschmann, exit or voice.
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