Impresa
& Stato n°46
LAVORO AUTONOMO E FLESSIBILITÀ
di
Bruno
Contini
La peculiare situazione
italiana: l’estensione a macchia d’olio di attività più o
meno regolamentate che sfuggono alle troppe normative e alla scarsa efficienza
dalla P.A
Si
Il lavoro autonomo è un enorme composito di attività eterogenee
tra di loro: da quelle tradizionali (in declino) collegate all’agricoltura,
al piccolo commercio, all’artigianato, fino a quelle in piena espansione
dei servizi alle imprese e alle persone. Queste ultime assumono la forma
di lavoro autonomo principalmente in quanto il regime fiscale e la normativa
sul lavoro lo rendono più conveniente rispetto al lavoro dipendente
organizzato in azienda, non perché sia la forma organizzativa più
efficiente. In Italia le cose stanno così, in altri paesi no. È
vero, peraltro, che in altri paesi dove il lavoro autonomo è, tradizionalmente,
molto meno sviluppato che da noi, le convenienze stanno modificandosi nella
direzione che riscontriamo in Italia.
Nel dibattito attuale sul
lavoro autonomo, e più generalmente sulle nuove forme di lavoro
atipico, si trova, a mio avviso, una certa confusione tra il concetto di
lavoro autonomo e quello di imprenditorialità. In senso molto lato
i due concetti tendono a coincidere. Ma le differenze sono notevoli, specialmente
se si rileggono i classici - da Marshall a Schumpeter - che sulla funzione
dell’imprenditore, sulle sue vocazioni e caratteristiche ci hanno pensato
a lungo. Una cosa è scegliere di fare l’imprenditore, di organizzare
attività altrui, esponendosi al rischio di impresa, altra cosa è
mettersi in proprio a svolgere un’attività di softwarista (con partita
IVA) dietro parcella, ovvero di fare assistenza agli anziani ricevendone
un compenso in nero. Tutte e due attività assai dignitose (meno
dignitoso evadere le tasse, ma quello è un altro discorso), ma comunque
attività che - in un contesto istituzionale diverso da quello italiano
- verrebbero normalmente svolte come un normale lavoro alle dipendenze.
La tabella
mostra come nei paesi del Sud Europa (ma anche in Irlanda) la quota di
lavoro autonomo sia molto più elevata rispetto ai paesi del Centro-Nord.
Il retaggio dell’agricoltura e del piccolo commercio più tradizionale
costituisce la spiegazione di questa differenza. C’è però
da chiedersi se non vi siano altri motivi che concorrono a rendere così
resistente il lavoro autonomo. Una ipotesi plausibile è quella che
si ricollega alla scarsità-inefficienza di alcuni servizi collettivi
(le scuole materne, le scuole a tempo pieno, le case per gli anziani, i
convalescenziari, i trasporti pubblici, e tanti altri) a cui fa da contrappeso
il ruolo della famiglia allargata che agisce da rete di salvataggio per
tutto ciò cui il settore pubblico non sopperisce.
Là dove i servizi
collettivi sono inesistenti o inaffidabili, si consolidano - per motivi
del tutto fisiologici - tutte le strutture che in qualche modo li sostituiscono.
La famiglia allargata è quella principale, e il lavoro autonomo
nelle sue forme più tradizionali è la tipica organizzazione
produttiva che dalla famiglia promana. In questo senso il lavoro autonomo
family-based è anche un ambito in cui si sviluppa per reazione,
sovente giustificata, una forte diffidenza nei confronti delle istituzioni
statali. Di qui ad una forte propensione all’evasione fiscale il passo
è breve, anche perché una pubblica amministrazione poco efficiente
nel fornire servizi sarà altrettanto poco efficiente nell’imporre
sanzioni credibili a chi trasgredisce gli obblighi del Fisco.
Non si creda, peraltro,
che la propensione ad evadere/eludere il Fisco sia prerogativa esclusiva
dei lavoratori autonomi italiani. Una spia di questo fenomeno - ma attenzione,
si tratta solo di un indicatore indiretto - è costituita dal rapporto
tra il reddito annuo da lavoro autonomo e quello da lavoro dipendente.
Quando il reddito di un lavoratore autonomo è inferiore a quello
di un dipendente «tipico» che opera nello stesso settore di
attività, vi sono buoni motivi per supporre che siano consentite
sostanziali forme di elusione fiscale (quando non si tratta di evasione
tout-court). La seguente tabella, costruita
sulla base di dati resi nel quadro di indagini sulle famiglie, mostra che
nel confronto con Germania e Regno Unito il lavoratore autonomo italiano
non sfigura più di tanto. Il confronto più indicativo è
quello sul rapporto tra redditi mediani (le medie possono essere distorte
da poche osservazioni molto anomale).
In agricoltura il reddito
dei lavoratori autonomi tedeschi è ancora più basso (in termini
relativi) di quello degli italiani; mentre nel Regno Unito è di
circa un terzo superiore a quello dei lavoratori dipendenti. Anche nel
settore manifatturiero il rapporto è inferiore a 1 (anche se non
di molto) in Italia e Germania, e di poco superiore a 1 nel Regno Unito.
In edilizia si rovesciano le parti : in Germania il reddito dichiarato
dagli autonomi è di oltre il 50% superiore a quello dei lavoratori
alle dipendenze, in Italia è di poco superiore, mentre nel Regno
Unito è notevolmente inferiore. Nel settore dei servizi, invece,
non vi sono praticamente differenze nei tre paesi: gli autonomi sembrerebbero
un po’ più «poveri», ma solo di 5-7 punti percentuali
rispetto a chi lavora alle dipendenze.
LA FLESSIBILITA'
ITALIANA
In tempi recenti sta trovando
sempre più consensi una tesi secondo la quale l’economia italiana
si sarebbe riconquistata un notevole grado di flessibilità, negata
dall’eccesso di normativa e dalla scarsa efficienza della Pubblica Amministrazione,
estendendo a macchia d’olio l’utilizzo di lavoro meno regolamentato, o
non regolamentato affatto. La crescita del settore delle piccole imprese,
del lavoro autonomo e del para-subordinato (il popolo delle partite IVA,
nella felice definizione di Gad Lerner), fino al lavoro nero tout-court,
ne costituirebbe la dimostrazione più efficace. Purtroppo non tutto
traspare dalle statistiche disponibili, ufficiali o no, e il dibattito
sulle politiche adatte ad affrontare i gravi problemi che affliggono il
paese ne risente. L’Istat fa del suo meglio, ma, per ora, non può
tenere sotto controllo la nascita e la morte di decine di migliaia di micro-imprese
che entrano ed escono ogni anno dal mercato. Il settore del lavoro autonomo,
storicamente vastissimo e tuttora in crescita dopo una flessione negli
anni Ottanta, conta per oltre un quarto di tutta l’occupazione, ben al
di là del peso che occupa in paesi come Francia, Germania e Regno
Unito, e superiore anche a quello di paesi della periferia europea come
Spagna, Portogallo e Irlanda. Del lavoro para-subordinato - di fatto anche
quello lavoro autonomo - si conosce pochissimo, salvo il fatto che il numero
di iscritti alla famosa contribuzione previdenziale straordinaria del 10%
(che non esaurisce tutti coloro che rientrano in questa tipologia) è
intorno a 1 milione di unità. Sul lavoro nero, per definizione,
non vi sono rilevazioni dirette, e le stime indirette, che vanno da un
minimo di 2 milioni di unità ad un massimo di 4 milioni, sono da
prendere con grandissima cautela. Dal Fisco arrivano poche informazioni,
e comunque, anche su questo versante, il compito di distinguere il bianco
dal grigio e il grigio dal nero è quanto mai arduo.
Il «secondo
mercato»
Quando si parla di problemi
del mercato del lavoro e delle sue supposte rigidità, l’esistenza
di questo «secondo mercato» che opera a fianco del lavoro «ufficiale»
è sovente dimenticata. Qui i rapporti di lavoro sono sovente deregolamentati,
vige ampia libertà di orario, assunzioni e licenziamenti, le norme
di sicurezza vengono eluse, le retribuzioni riflettono l’incontro tra domanda
e offerta.
Nella progettazione di interventi
volti a restituire flessibilità al mercato del lavoro si parte dal
presupposto che tanto più questo è flessibile, tanto maggiore
è il potenziale di creazione di nuove occasioni di lavoro. Il problema
consiste nel fatto che le prestazioni lavorative offerte nel secondo mercato
(quello libero) sono sostitutive di quelle che si acquistano sul mercato
«ufficiale». Le si utilizza in quanto più convenienti.
Nel momento in cui entrino in vigore provvedimenti volti ad aumentare la
flessibilità sul mercato «ufficiale», si modificano
i costi relativi: diminuisce la convenienza a servirsi del secondo mercato
e aumenta quella del mercato ufficiale. È quindi probabile che si
aprano nuove occasioni di lavoro nell’economia regolare, ma è altrettanto
probabile che ne vengano meno più o meno altrettante nel segmento
deregolato del mercato, in cui confluisce quasi tutto il lavoro autonomo.
Se, come è assai probabile, la produttività media nel secondo
mercato è inferiore a quella del mercato ufficiale, il saldo sarà
negativo. L’impresa che ha appaltato la manutenzione degli impianti ad
una piccola ditta specializzata potrebbe decidere di assumere un manutentore
e riportare quel lavoro in casa. Il gioco è tanto più a somma
zero, quanto maggiore è la sostituibilità tra lavoro dipendente
ufficiale e lavoro offerto dal secondo mercato. Anche in questo caso le
statistiche racconterebbero una storia più ottimistica di quella
vera, perché si renderebbero ben visibili i nuovi occupati nel mercato
ufficiale, mentre resterebbero immersi nella nebbia quelli distrutti nel
secondo mercato.
Vi sono certamente molti
buoni motivi per oliare il meccanismo di raccordo tra offerta e domanda
di lavoro. Ma sarebbe dannoso riporre in essi vane speranze. C’è
il rischio che la statistica proponga di nuovo una visione ottimisticamente
distorta sotto il profilo occupazionale. E anche la speranza che ne derivino
riflessi positivi sulla domanda aggregata potrebbe venire delusa, se è
vero che ad ogni nuovo posto di lavoro nell’economia ufficiale ne corrisponderà
uno in meno nel secondo mercato che la statistica fatica a riconoscere.
apre, con la costituzione
del Consiglio camerale, una delle fasi più significative del nuovo
volto
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