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Impresa & Stato n°46 
  

OCCUPAZIONE INDIPENDENTE E FORMAZIONE IMPRENDITORIALE

di 
Luisa Rosti

Una buona politica per il lavoro indipendente dovrebbe incentrarsi non tanto sugli incentivi finanziari quanto sui servizi reali. 

L’occupazione indipendente in Italia è una parte rilevante dell’occupazione totale (29%): il confronto tra Paesi europei mostra che il nostro Paese ha una quota di occupati indipendenti tre volte superiore a quella della Germania, e più che doppia rispetto a Francia, Danimarca e Olanda. 
Malgrado fosse già così elevata nel 1980, la quota dell’occupazione indipendente in Italia è cresciuta ancora nel trascorso ventennio, sia per l’insieme dei settori che, soprattutto, per i settori extra-agricoli, confermando così la netta inversione della tendenza decrescente iniziata fin dalla seconda metà degli anni ‘70. 
L’andamento sopra descritto trova riscontro in letteratura. Numerosi saggi evidenziano infatti come, dopo circa un secolo di ininterrotto declino, l’occupazione indipendente abbia invertito questa tendenza sia nei Paesi europei che negli Stati Uniti e in Giappone. 
La simultaneità di questa inversione di tendenza induce ad avanzare l’ipotesi che sia avvenuto qualche cambiamento fondamentale nella struttura produttiva dei Paesi industrializzati, tale da rendere il lavoro autonomo più attraente e più competitivo del lavoro subordinato; ma prima di prendere in esame le ragioni che spiegano l’inversione di tendenza può essere opportuno citare le ragioni che determinano la tendenza stessa, cioè le cause del secolare declino dell’occupazione indipendente. 
La letteratura è sostanzialmente concorde nel sottolineare che la riduzione della componente indipendente dell’occupazione è riconducibile a due fattori: in primo luogo alle economie di scala che sono derivate dall’espansione dei mercati e dalla specializzazione della produzione e che hanno favorito lo sviluppo delle imprese di grandi dimensioni; in secondo luogo all’esodo della forza lavoro dall’agricoltura, dove il lavoro autonomo è molto più diffuso che negli altri settori. 
A partire dagli anni ‘70, però, dopo aver toccato il minimo storico nei settori extra-agricoli, la quota di lavoro indipendente sul totale ha cominciato gradualmente a crescere di nuovo, e in letteratura sono state esaminate e sottoposte a verifica numerose ipotesi sulla natura e sulle cause di questa inversione di tendenza. 
Sono stati evidenziati, in primo luogo, i cambiamenti nella tecnologia e nella struttura produttiva, che possono aver favorito i settori nei quali le piccole imprese sono numerose e le economie di scala sono poco rilevanti. Tali cambiamenti nella tecnologia (come ad esempio la diffusione dei personal computer) possono anche aver reso più competitive le piccole imprese in molte industrie e aver indotto la crescita di attività in cui l’occupazione indipendente è particolarmente diffusa (come ad esempio quelle dei servizi e del commercio al dettaglio). 
In secondo luogo un aumento dell’aliquota marginale d’imposta può aver reso la posizione indipendente più attraente di quella dipendente per la maggior facilità di ridurre, non dichiarandolo per intero, il proprio reddito imponibile. 
In terzo luogo un aumento nel livello delle pensioni di anzianità può aver indotto i dipendenti ad uscire prematuramente dalla forza lavoro, alzando così la quota degli indipendenti che invece restano in attività più a lungo. 
Infine, un aumento della rigidità salariale può aver aumentato la quota di forza lavoro che si rivolge ad un’occupazione indipendente in risposta ad una espulsione dal lavoro dipendente e in alternativa alla disoccupazione; e più in generale, un aumento delle tutele inderogabili garantite dall’ordinamento giuridico ai lavoratori dipendenti può, da un lato, aver precluso ai non occupati la possibilità di competere per i posti di lavoro protetti spingendoli verso un lavoro autonomo, e dall’altro può aver incentivato datori di lavoro e dipendenti a dividersi i vantaggi derivanti dalla rinuncia al sistema di tutela proprio del lavoro subordinato. 
Una conferma a quest’ultima ipotesi viene dai dati pubblicati dall’lSTAT nella matrice delle modifiche strutturali della popolazione tra rilevazioni corrispondenti di due anni successivi, che possono essere letti come flussi di passaggio tra una condizione e l’altra. 
Prendendo in esame la provenienza degli occupati indipendenti, si osserva infatti che tale aggregato è alimentato soprattutto da individui che lasciano un’occupazione dipendente, e più specificamente da soggetti che mutano solo la posizione nella professione, ma restano all’interno dello stesso settore di attività. Se si tiene conto anche del percorso inverso, cioè dei flussi da indipendenti a dipendenti, e si calcolano per differenza i corrispondenti flussi netti, si osserva che i flussi da dipendenti a indipendenti nello stesso settore hanno sempre segno positivo e sono numericamente consistenti, a ribadire la maggior probabilità di mettersi in proprio da parte di coloro che già svolgono la stessa attività come dipendenti. 
Numerose ricerche hanno evidenziato che, a parità di ricchezza posseduta e di livello di istruzione, è più probabile che passino al lavoro autonomo i dipendenti più poveri, con bassi salari e con una storia lavorativa di instabilità. Questo risultato suggerisce che i lavoratori con le minori opportunità nel settore del lavoro dipendente finiscano per scegliere un lavoro in proprio perché quest’ultimo è preferibile non tanto al lavoro subordinato quanto piuttosto alla più probabile e già sperimentata disoccupazione. D’altro canto, però, la dinamica dei flussi sembra confermare le migliori prospettive occupazionali di coloro che sono alla ricerca di un lavoro in proprio rispetto a coloro che cercano un posto di lavoro alle dipendenze. I dati di stock mostrano infatti che, a fronte di una quota di occupazione indipendente sull’occupazione totale sensibilmente elevata (29%), si rileva una dichiarata preferenza per il lavoro dipendente da parte delle persone in cerca di occupazione (su 100 persone in cerca di occupazione solo 1,3 è in cerca di un lavoro autonomo; nel 2,5% dei casi l’informazione non è disponibile, ma tutti gli altri - 96,2 - cercano un lavoro subordinato). I dati di flusso mostrano invece che, per ogni 100 persone che erano in cerca di occupazione all’inizio del periodo considerato e risultano essere occupate alla fine dello stesso periodo, ben 15,7 hanno trovato lavoro come indipendenti. Le politiche di incentivazione del lavoro autonomo e di creazione d’impresa tradizionalmente comprese tra gli interventi di politiche attive del lavoro e proposte ancora di recente nel Patto per il lavoro potrebbero avere qualche prospettiva di successo. 

OPPORTUNITÀ DI SVILUPPO 
L’obiettivo di tali politiche è quello di favorire la progettazione di iniziative imprenditoriali contribuendo alla valutazione delle loro opportunità di sviluppo (o quanto meno di sopravvivenza). In Italia vi sono attualmente sei leggi nazionali a sostegno del lavoro autonomo e della creazione d’impresa, più un centinaio di leggi regionali. Queste politiche sono diffuse in tutti i Paesi industrializzati, e, in alcuni Paesi, le attività di consulenza e di formazione dei nuovi imprenditori sono erogate da organizzazioni specificamente costituite, come le reti nazionali di agenzie specializzate che operano, ad esempio, in Gran Bretagna, Francia, Danimarca e Olanda. Tra i sostegni di tipo non finanziario hanno avuto una certa diffusione in Europa (ma non ancora in Italia) gli incubatori di imprese, i centri di innovazione (BIC), e i parchi tecnologici, cioè le strutture nelle quali si vorrebbero concentrare i principali fattori di successo delle nuove imprese: attività di ricerca, di formazione, di diffusione tecnologica, di servizi reali relativi alla commercializzazione dei prodotti, il monitoraggio dei mercati, servizi finanziari e informatici, consulenze di organizzazione aziendale. 
In Italia, un recente tentativo di stimare gli effetti della legge 44/86 (imprenditorialità giovanile), pur in presenza di notevoli difficoltà interpretative dovute ai limiti propri dei dati utilizzati, conferma sia la considerevole capacità di crescita occupazionale delle nuove imprese nei due anni successivi all’avvio (pur riferita principalmente ad un sottogruppo ristretto), sia una contenuta mortalità, i cui effetti sono stati comunque più che compensati dai tassi di crescita delle imprese sopravvissute. 
Alcuni studi per la valutazione d’impatto delle politiche comunitarie per la creazione di nuove imprese hanno evidenziato i principali fattori che riducono il tasso di abbandono; ad esempio, un sistema abbastanza efficace per ridurre la prematura mortalità delle nuove imprese sembra essere l’abbinamento delle attività di consulenza e formazione ad un severo processo di selezione che possa individuare e incentivare solo i progetti più affidabili. Un secondo problema per la sopravvivenza può essere costituito dal fatto che le imprese sorte nell’ambito dei programmi volti a favorire l’occupazione indipendente sono spesso sottocapitalizzate rispetto a quelle sorte autonomamente, ma la mortalità osservata, in tal caso, potrebbe dipendere proprio dal fatto che è più facile ritirarsi da un’attività economica se questa ha comportato un investimento iniziale modesto. Anche la formazione imprenditoriale specifica sembra avere effetti fortemente positivi: dopo tre anni di vita dell’impresa il tasso di abbandono è del 30% circa, ma si dimezza per coloro che hanno seguito un percorso formativo completo. Ai benefici effetti della formazione specifica si sommano quelli legati al titolo di studio: dopo tre anni di attività gli imprenditori laureati mostrano capacità di sopravvivenza maggiori della media di ben 13 punti percentuali. Vi è infine un ultimo fattore, rappresentato dall’esperienza professionale accumulata in precedenza (e preferibilmente nello stesso settore di attività), che riduce il tasso di abbandono di 9 punti percentuali rispetto alla media. 
Se ne conclude che una buona politica di incentivazione del lavoro indipendente dovrebbe porre attenzione a tre cose: 1 - fornire non tanto incentivi finanziari quanto servizi reali, come quelli relativi alla commercializzazione dei prodotti e al monitoraggio dei mercati, quelli di consulenza e di organizzazione aziendale, quelli finanziari e informatici, di formazione e di ricerca tecnologica; 2 - prevedere che la formazione imprenditoriale sia applicata dopo un severo processo di selezione degli aspiranti e sia quantitativamente rilevante, di buona qualità e protratta nel tempo; 3 - essere consapevoli del fatto che la precedente esperienza lavorativa nello stesso settore di attività e un elevato titolo di studio del neo imprenditore aumentano in modo non trascurabile la probabilità di sopravvivenza della nuova impresa. 

BIBLIOGRAFIA