Impresa
& Stato n°46
LE RAGIONI IN FAVORE
DI UNO «STATUTO DEI NUOVI LAVORI»
di
Marco
Biagi
Affrontare la
questione dal lato delle tutele, abbandonando vecchi schemi che non corrispondono
più alla realtà da regolamentare.
Dopo
decenni di relativa stabilità — caratterizzati da una progressiva
dilatazione dello statuto giuridico del lavoro dipendente e da un corrispondente
processo di fuga nel lavoro irregolare e sommerso — il diritto del lavoro
è stato recentemente attraversato da un profondo processo di riforma.
Con la Legge n. 196/1997
(c.d. «Pacchetto Treu») e i provvedimenti regolamentari ad
essa correlati è stata estesa e potenziata la gamma dei contratti
c.d. «atipici»: lavoro interinale, lavoro a tempo parziale,
apprendistato, contratto di formazione e lavoro, tirocini formativi e di
orientamento, borse lavoro. Con la Legge n. 59/1997 (c.d. «Legge
Bassanini») e il successivo Decreto Legislativo n. 469/1997 sono
stati ridisegnati i confini tra pubblico e privato nella gestione del mercato
del lavoro e nei servizi per l’impiego, ponendo definitivamente termine
alle pesanti rigidità e inefficienze del monopolio pubblico del
collocamento. Già avviati o comunque in via di definizione sono
poi gli interventi di sostegno alla ricerca e alla innovazione tecnologica,
i finanziamenti per lo sviluppo imprenditoriale nelle aree depresse o di
degrado urbano, il riordino della materia degli incentivi alle imprese
e alle assunzioni, le politiche sulle infrastrutture attraverso investimenti
qualificati e produttivi di spesa pubblica, le politiche di qualificazione
della domanda pubblica, la riorganizzazione del sistema di formazione professionale
e in particolare della formazione continua come strumento per massimizzare
la qualità dell’offerta di lavoro, etc. Pronti a decollare definitivamente
sono poi, pur tra le non poche difficoltà e resistenze, strumenti
di sicuro rilievo quali i contratti d’area e i patti territoriali, mentre
solo ora si cominciano ad apprezzare gli esiti e i futuri sviluppi di una
precedente riforma: la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego.
Questi e altri interventi
ancora indicano con chiarezza che il diritto del lavoro, inteso come tecnica
unilaterale di tutela fondata per regolare un unico modello di lavoro dipendente,
è già oggi sostanzialmente superato anche per il legislatore
e non soltanto per gli operatori economici che da tempo si sono trovati
a sperimentare — talvolta ai margini della legalità — nuovi modelli
di organizzazione del lavoro e di gestione delle risorse umane.
UN NUOVO SFORZO
PROGETTUALE
Il processo di riforma non
può tuttavia fermarsi qui. Si deve francamente riconoscere che la
transizione dal diritto del lavoro ad un più ampio e comprensivo
diritto dei lavori che tenga conto dei reali assetti evolutivi dell’economia
e della società è appena iniziata. Fenomeni costantemente
richiamati da sociologi ed economisti, quali l’internazionalizzazione dei
mercati e l’incessante innovazione tecnologica, unitamente a mali di antica
data come l’economia sommersa e la fuga dal lavoro subordinato, impongono
ora un nuovo sforzo progettuale che consenta il definitivo ammodernamento
della disciplina dei rapporti di lavoro.
Paradossalmente, sono proprio
le stime del lavoro «atipico» e irregolare a dimostrare come
non sia tanto il lavoro a mancare: quello che manca, piuttosto, sono regole
e schemi giuridici in grado di interpretarne forme e manifestazioni in
modo da consentirne l’emersione e l’equa ripartizione tra tutti coloro
che partecipano al mercato del lavoro.
Sempre più inadeguata,
in particolare, è la tradizionale contrapposizione tra lavoro autonomo
e lavoro subordinato. Il lavoro del futuro richiede regole semplici e flessibili,
capaci di attenuare incertezze qualificatorie e possibili fonti di contenzioso.
La compressione delle molteplici forme di lavoro nei rigidi schemi dell’autonomia
o della subordinazione relega invece tutte le forme contrattuali atipiche
o sui generis in una vasta area di lavoro grigio anche laddove manchino
intenti fraudolenti o di evasione legale, fiscale e contributiva, e anzi
lo schema negoziale risponda a reali esigenze delle imprese e/o dei lavoratori.
Per superare questa impostazione
occorrono interventi realmente innovativi e coraggiosi, come la recente
circolare n. 43/1998 del Ministero del lavoro che ha riconosciuto la legittimità
di uno schema contrattuale come il job sharing sin qui praticamente mai
sperimentato per i timori di possibili controversie sulla esatta qualificazione
del rapporto. Con questa circolare è stato dimostrato che non è
necessario attendere i tempi lunghi di una legge per disciplinare una nuova
modalità di organizzazione del lavoro, ma è sufficiente un
intervento amministrativo che ne chiarisca i contorni e le regole essenziali,
rinviando alla contrattazione collettiva e alle stesse parti del rapporto
di lavoro il compito di fornirne una più compiuta e dettagliata
regolamentazione.
Non si tratta peraltro di
rimuovere le tutele fondamentali che, nel nostro ordinamento, accompagnano
le diverse tipologie di lavoro subordinato. Pare invece necessario sperimentare
dosi di «flessibilità normata», che, nel contribuire
a rimuovere alcuni ostacoli al funzionamento del mercato del lavoro regolare,
concorrano a determinare un clima favorevole alla creazione di occupazione
aggiuntiva e alla canalizzazione di quella domanda e offerta di lavoro
che è oggi dispersa e frammentata per la mancanza di adeguate informazioni
o per la mancanza di strumenti di valorizzazione della forza-lavoro. L’impegno
del Governo, formalizzato negli accordi con le parti sociali, è
infatti quello di allentare talune rigidità reali del diritto del
lavoro italiano, senza però destrutturare il mercato del lavoro
stabile e a tempo pieno.
In questo ampio contesto,
caratterizzato da precisi vincoli di compatibilità economica e sociale,
il problema della ridefinizione dei confini tra lavoro autonomo e lavoro
subordinato non può semplicisticamente — e irrealisticamente — consistere
in un intervento diretto ad appesantire e penalizzare il lavoro atipico,
le prestazioni coordinate e le nuove forme di organizzazione del lavoro.
Né pare invero rilevante un intervento definitorio da parte del
legislatore, mediante la tipizzazione di un nuovo schema negoziale (il
lavoro coordinato). Il mercato richiede flessibilità, regole semplici,
certezza del diritto: una nuova definizione che introducesse un tertium
genus contrattuale non farebbe altro che alimentare i motivi di contenzioso,
le incertezze qualificatorie e la fuga nel sommerso.
LO STATUTO DEI
NUOVI LAVORI
Più convincente e
realistica pare invece l’idea di uno Statuto dei nuovi lavori che, con
atteggiamento pragmatico, affronti la questione dei nuovi lavori dal lato
delle tutele (e della loro rimodulazione rispetto a tutti i rapporti di
lavoro), piuttosto che da quello delle definizioni formali e dei concetti.
L’idea su cui si dovrebbe lavorare è quella di rinunciare ad ogni
ulteriore intento definitorio e classificatorio di una realtà contrattuale
in rapido e continuo mutamento, per predisporre invece un nucleo essenziale
(e abbastanza limitato) di norme e di principi inderogabili (soprattutto
di specificazione del dettato costituzionale) comuni a tutti i rapporti
negoziali che hanno per contenuto il lavoro.
In sintesi lo Statuto dovrebbe
operare su due piani distinti destinati però a sostenersi l’uno
con l’altro. Da un lato si potrebbe ipotizzare uno strumento volontario
e incentivante di certificazione in sede amministrativa della qualificazione
assegnata dalle parti ad un determinato rapporto di lavoro; dall’altro
lato, al fine di rendere effettivo tale meccanismo, si dovrebbe conseguentemente
procedere a rimuovere alcune delle cause che concorrono ad alimentare il
contenzioso in materia di rapporti di lavoro e la fuga fisiologica nel
sommerso e nell’atipico (altra cosa, invece, è la fuga patologica,
che, oltre a erodere le garanzie del lavoro, è anche un elemento
di distorsione della concorrenza tra le imprese e come tale va repressa),
delineando un percorso di tendenziale riduzione delle differenze di trattamento
normativo e soprattutto contributivo che, attualmente, accompagnano i rapporti
di lavoro autonomo e quelli di lavoro subordinato. Il meccanismo di certificazione
dei rapporti di lavoro può ragionevolmente funzionare solo se, al
contempo, viene reso meno squilibrato il «gioco» delle convenienze
(per entrambe le parti) circa la riconduzione del rapporto di lavoro in
uno schema negoziale piuttosto che in un altro. In questa prospettiva uno
Statuto dei lavori potrebbe consentire di modulare e graduare (in via tipologica)
le tutele applicabili ad ogni fattispecie contrattuale a seconda degli
istituti da applicare secondo una serie di cerchi concentrici che — lungo
un continuum di modalità di esecuzione del lavoro — vanno dalla
tutele minime e inderogabili applicabili a tutti i rapporti di lavoro alle
garanzie «forti» del solo lavoro subordinato (tutela contro
i licenziamenti).
La questione della certificazione
dei rapporti di lavoro come risposta al sovradimensionamento del contenzioso
giurisprudenziale in materia di qualificazione del contratto non pare comportare
problemi particolari, a condizione naturalmente che il programma negoziale
concordato ex ante dalle parti venga rispettato in sede di esecuzione del
rapporto di lavoro. Per incentivare la certificazione e sostenere la volontà
delle parti si potrebbe peraltro distinguere tra una area di inderogabilità
assoluta o di ordine pubblico (relativa cioè a diritti fondamentali
del lavoratore), come tale non disponibile dalle parti pena la riqualificazione
del rapporto in sede giudiziale, e una area di inderogabilità relativa,
gestibile dalle parti collettive in sede di contrattazione collettiva e/o
dalle stesse parti individuali in sede di costituzione del rapporto di
lavoro ma, in quest’ultimo caso, solo davanti all’organo amministrativo
abilitato alla certificazione (retribuzioni sopra la soglia della sufficienza,
gestione dei percorsi di carriera, durata del preavviso, stabilità
del rapporto, trattamento in caso di sospensione del rapporto, modulazione
dell’orario di lavoro, etc.).
RISCRIVERE LE
TUTELE
Più critica, indubbiamente,
è la parte relativa alla rimodulazione delle tutele rispetto alla
quale non solo stenta ancora a realizzarsi un adeguato consenso politico
e sociale, ma sorprendentemente riemergono tabù e contrapposizioni
ideologiche. Eppure è chiaro che la regolamentazione del lavoro
atipico impone di riscrivere (almeno in parte) anche le tutele tradizionali
del lavoro subordinato e di procedere ad un corrispondente riassetto normativo
delle prestazioni previdenziali, delineando uno zoccolo previdenziale comune
per i lavoratori autonomi e per i lavoratori subordinati che, nel garantire
un gettito contributivo di base per tutti i rapporti di lavoro, contribuisca
a sdrammatizzare il problema qualificatorio delle singole fattispecie anche
per gli istituti previdenziali. Un intervento di mera regolamentazione
del lavoro atipico senza una corrispondente ridefinizione dello statuto
del lavoro dipendente non può infatti che contribuire ad appesantire
le regole di gestione del lavoro incentivando presumibilmente una ulteriore
fuga nel sommerso se non una risposta in termini di esternalizzazione del
lavoro e di delocalizzazione delle imprese.
Un serio progetto di riforma
non può dunque prescindere da questo punto. A questo proposito lascia
francamente perplessi la pregiudiziale ideologica sui licenziamenti avanzata
da alcune forze politiche e sindacali rispetto ad un quadro normativo e
sociale che già prevede ampie forme di evasione della regola della
stabilità del lavoro. Anche a prescindere dal lavoro nero, grigio,
etc., non v’è nessuno che possa negare come oggi l’ingresso nel
mercato del lavoro subordinato avvenga nella maggior parte dei casi mediante
il ricorso legittimo a tipologie di lavoro temporaneo, a contratti fittizi
di formazione (apprendistato, formazione e lavoro) e a contratti di lavoro
autonomo e coordinato rispetto ai quali le regole sui licenziamenti non
trovano applicazione. Perché accettare questa ipocrisia, pur di
non toccare la materia dei licenziamenti, invece di mettere seriamente
mano ad una politica tesa a rilanciare veramente il contratto di lavoro
a tempo indeterminato e l’occupazione giovanile? Le idee, in proposito,
non mancano. Fatti salvi i divieti dei licenziamenti discriminatori ovvero
per malattia o maternità, si potrebbe escludere l’applicazione della
disciplina sui licenziamenti individuali, senza intaccare le tutele della
forza-lavoro adulta e stabilmente inserita in un contesto aziendale: a)
per i lavoratori alla prima esperienza di lavoro con contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato e comunque non oltre il compimento del
trentaduesimo anno di età del lavoratore; b) per tutte le nuove
assunzioni effettuate, per i primi due anni di lavoro, nelle province nelle
quali il tasso medio annuo di disoccupazione, secondo la definizione allargata
ISTAT, rilevato per l’anno precedente all’assunzione, è superiore
di almeno il 3 per cento alla media nazionale risultante dalla medesima
rilevazione; c) per i lavoratori che abbiano maturato una anzianità
di servizio presso lo stesso datore di lavoro inferiore a due anni.
Le idee non mancano, ripeto.
Quello che manca ancora è la capacità (il coraggio?) di abbandonare
vecchi schemi e paradigmi consolidati che non corrispondono più
alla realtà che si intende disciplinare.
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