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Impresa & Stato n°46

 

PILASTRI D’ARGILLA A DIFESA DELLA SOCIETÀ EUROPEA

di 
Vittorio Olgiati

Università e Ordini: due ambiti istituzionali distinti ma inscindibilmente legati, su cui fondare il sistema delle credenziali professionali. 

Come è noto, tra i principi costitutivi della società occidentale contemporanea - accanto e trasversalmente alla «Comunità», allo «Stato» e al «Mercato» - si annoverano anche i «Corpi», o «Gruppi sociali organizzati». 
Tra le forme ordinamentali di detti Corpi, quelle proprie dei ceti professionali intellettuali - da non confondere con altri gruppi occupazionali professionalizzati - si contraddistinguono non solo per la loro specifica funzione, ma anche per la loro particolare struttura. Ciò deriva dal fatto che le professioni intellettuali - a differenza di altri prestatori d’opera - radicano la propria legittimazione ad agire su di un complesso sistema istituzionalizzato di credenziali professionali imperniato più sulla qualità o l’autorità dei giudizi che sul «mercato dei prezzi» dato dal valore di scambio o dal risultato della prestazione. 
Il sistema istituzionalizzato delle credenziali professionali fa perno, in via formale ed ufficiale, su due ambiti istituzionali: l’accesso all’educazione superiore e alla critica della conoscenza scientifico-sistematica, e dunque alle Università come luoghi di ri-produzione del sapere formale, e il controllo circa l’applicazione pratica di tale sapere, vale a dire, gli Ordini come strumento di garanzia in merito al cosiddetto knowledge gap connesso all’uso elitario (perché selettivo e monopolistico) e non-fraterno (perché specialistico e competitivo) del sapere stesso. 
Entrambi i processi, così come entrambe le istituzioni che li pongono in essere, sono - pur nella loro relativa autonomia - complementari e indisgiungibili. Si tratta infatti di una articolazione organica tesa a realizzare condizioni d’ordine generale, quali, ad esempio, quelle che rendono possibile la mobilità sociale ascendente, ovvero la stabilizzazione dei valori condivisi. 
In particolare, ove sussistano condizioni congruenti, il sistema istituzionalizzato delle credenziali professionali consente ai professionisti di svolgere una funzione nomica, cioè ordinante, rispetto: (a) ai processi di divisione sociale del lavoro (Mercato); (b) alle attribuzioni di status proprie della stratificazione sociale (Comunità) e (c) alla dinamica delle forme di esercizio del potere politico-istituzionale (Stato). A questo scopo, esso è strutturato in modo tale che le metodiche psico-sociali attraverso cui si selezionano i professionisti culminano in riti di passaggio - o cerimoniali socio-istituzionali - che certificano, ad un tempo, la non arbitrarietà delle procedure adottate, la competenza acquisita e la utilità o necessità sociale di queste stesse variabili. 
Tutti i fattori sopra accennati sono ben visibili non solo nella ratio istitutiva dei più antichi ordinamenti universitari e professionali, ma anche nella esperienza quotidiana dei rapporti sociali correnti. Inoltre essi sono a tal punto consustanziali alla dinamica delle forze sociali e ai valori che ne definiscono l’assetto generale, da fungere da modello di riferimento esemplare per qualunque progetto di gruppo teso alla «dominanza organizzativa» a livello simbolico e materiale. Infine, sono cosi radicati nella storia e nella costituzione formale e materiale della attuale civiltà occidentale, che si trovano inclusi nelle linee programmatiche di qualunque strategia politica. 
Date queste caratteristiche, non può dunque sorprendere se il sistema istituzionalizzato delle credenziali professionali costituisce un pilastro anche per il processo di sviluppo della integrazione europea. Non è un caso infatti che proprio la Direttiva EU 1989/48, concernente il Mutuo Riconoscimento dei Diplomi di Educazione Superiore, consideri come «diplomi» non solo il diploma di laurea, ma anche i certificati di idoneità degli esami di Stato e le iscrizioni agli albi professionali. Analogamente non è affatto casuale che il «mutuo riconoscimento» di detti diplomi confermi e addirittura rinforzi nel suo insieme il sistema esistente, e cioè i diversi criteri di selezione e i diversi riti di passaggio che derivano dalla varietà socio-istituzionale e culturale delle singole forme ordinamentali statuali-nazionali. 
Tuttavia non è soltanto facendo riferimento alle radici storico-evolutive e ai presupposti struttural-funzionali del credenzialismo professionale in Europa che si comprendono le ragioni che hanno indotto alla attivazione di una politica di sostegno alla reciproca convergenza e di reciproco consolidamento tra ordini professionali e istituzioni universitarie a livello europeo. Per cogliere pienamente il significato e l’importanza di questa strategia occorre allargare l’orizzonte teorico-pratico e indagare più a fondo sui rischi e sulle sfide che incombono attualmente sull’intera dinamica della civiltà europea.   
   
LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI 
Se ben si considera, l’attuale politica europea di rinforzo del sistema istituzionalizzato delle credenziali professionali muove da una ricognizione realistica e da una opzione strategica circa lo stato di fatto del rapporto inscindibile tra Università e Ordini professionali in quanto elemento fondante e irrinunciabile della identità dell’Europa contemporanea.  
Quantomeno a partire dal Congresso di Vienna e fino agli anni Trenta, le condizioni di quel rapporto erano date dalla distinzione fondamentale tra «sapere» e «saper fare» e dalla egemonia politica e culturale di élites di potere aggregate attorno alla Forma-Stato/Nazione. In virtù di questa situazione si era persino giunti ad istituzionalizzare il «principio di reciprocità» (e di «autonomia relativa») tra il potere del sapere accademico-professionale, il potere delle forze di governo e il potere (di consenso/assenso) delle classi sociali. 
Oggi quelle condizioni non esistono più. 
Non solo lo Stato, ma anche le Università e gli Ordini hanno perso il monopolio del controllo di quella distinzione e della ri-produzione della connessa egemonia politica. A partire dagli anni Trenta, infatti, le grandi corporazioni economiche transnazionali hanno iniziato in modo sistematico a creare propri centri di ricerca teorica e applicata e a formare nuove generazioni di esperti, gli uni e gli altri tecnicamente, ideologicamente e politicamente orientati non già al principio attivo della più ampia dinamica sociale - cioè la mediazione e il contemperamento di valori e interessi contrapposti - bensì alla logica stringente della decisione imprenditoriale. Intorno degli anni Settanta, hanno poi iniziato, altrettanto sistematicamente, a rivendicare la «deregolazione» e la «liberalizzazione» dei cosiddetti «mercati» professionali protetti per poter trarre vantaggio dalla intrusione e dall’abbassamento dei livelli di autorità e di controllo pubblici. Attualmente esse competono pertanto con lo Stato, e persino tra loro, per il supremo traguardo: la organizational dominance che deriva non dai media del denaro e del potere, ma dalla interiorizzazione della conoscenza, dalla simbologia e dall’immaginario collettivo. 
Sul punto, per quanto riguarda il venir meno del ruolo regolativo dello Stato, l’esperienza e la letteratura scientifica esistente sono tali da non richiedere ulteriori dettagli. Per quanto riguarda le Università, è sufficiente il richiamo all’esplicita presa d’atto contenuta nella Carta sottoscritta nel 1988 a Bologna in occasione delle celebrazioni dell’Alma Mater Studiorum Saecularia Nona. Infine, per quanto riguarda gli Ordini, basta soltanto ricordare l’attività delle più diverse Anti-Trust Authorities europee e internazionali (es. Accordi GATT). 
In breve: il sistema istituzionalizzato delle credenziali professionali europeo non solo non è più in grado di agire monopolisticamente nell’ambito della ri-produzione e della applicazione del sapere tecnico-scientifico - e dunque non esprime più linee di egemonia politica tra loro coerenti -, ma non è nemmeno in grado di tenere sotto controllo e orientare istituzionalmente - cioè democraticamente - le nuove competenze e i nuovi valori emergenti dalla effervescenza e dalla efficienza organizzativa dei new comers legati ai potentati economici transnazionali. 
Ora, tutto ciò assume un rilievo ancor più decisivo se solo si pensa ai possibili scenari della Quarta Rivoluzione industriale, notoriamente incentrata sul «paradigma della comunicazione» virtuale info-telematica e sul cosiddetto «lavoro esperto» e, soprattutto, se non si chiudono gli occhi di fronte all’impatto socio-istituzionale della Globalizzazione: la crisi del modello di governabilità vigente e un possibile «scontro di civiltà» dagli esiti imprevedibili. 

ABOLIRE GLI ORDINI? 
Quanto si è appena detto consente di entrare con una certa cognizione di causa nel merito di una questione che agita attualmente il dibattito politico sotto la pressione lobbistica di alcune frazioni interne ed esterne ai ceti professionali in aperto contrasto con la strategia di integrazione europea, in generale, e con la Direttiva n. 89/48 sul «Mutuo Riconoscimento dei Diplomi di Educazione Superiore», in particolare: l’ipotesi della abolizione del valore legale dei diplomi di laurea e, parallelamente, della abolizione degli Ordini professionali. 
A ben vedere la questione non è nuova. Se si scorrono gli annali della storia europea, ci si avvede che essa riemerge ogniqualvolta  si prospettano condizioni rivoluzionarie o presunte tali: condizioni, che, evidentemente, la politica riformistica e cautelare europea non coltiva, né persegue.  
Per ovvie ragioni, non è qui possibile discutere contemporaneamente di entrambe le ipotesi. Mi limito pertanto a svolgere alcune riflessioni sul problema degli Ordini (rimarcando, tuttavia, ancora una volta la inscindibilità dal problema delle Università, soprattutto in relazione alla esplosione demografica).  
Negli ultimi due secoli, gli Ordini professionali più discussi vennero aboliti in due sole occasioni e in due soli paesi: in Francia durante la Rivoluzione Francese con le ordinanze del 1789 e in Russia durante la Rivoluzione bolscevica con i decreti del 1917. Non appena esaurita la fase rivoluzionaria più estrema, detti Ordini vennero subito ricostituiti per le evidenti ragioni di utilità e di necessità sociale più sopra indicate.  
In Italia la questione dell’abolizione si è posta apertamente negli anni Trenta, in relazione all’avvento del Fascismo e alla politica del Regime rispetto alla evoluzione del sistema economico, cioè - come si è detto - allo sviluppo delle corporazioni economico-finanziarie transnazionali e alla nascita del cosiddetto Terziario. 
La soluzione che allora venne data fu - come è noto - tipicamente compromissoria: fu creato un modello tecnocratico-corporativo basato sui principi del tradeunionismo (professionale) e del protezionismo (statale). Caduto il Regime, questa soluzione non venne del tutto meno. Di fatto si realizzò un sistema ancora più spurio, centrato sulla ricostituzione del sistema protetto dei tradizionali Ordini post-unitari, ma «bilanciato» dall’associazionismo tradeunionistico e dalla «diaspora» politica e culturale delle aggregazioni di genere (espressione delle più diverse divisioni interne a vari gruppi professionali).  
Attualmente questo tipo di configurazione - significativamente riscontrabile anche negli altri paesi europei - mostra evidentissimi segni di crisi. 
In proposito si parla spesso di inefficienza e di parassitismo dovuti alla mancanza di rappresentatività, alla carenza di controllo disciplinare e alla chiusura monopolistica. Tutto ciò è vero, ma si tratta di effetti disfunzionali indotti e non delle ragioni di fondo.  
Tre - a ben vedere - sono i fattori strutturali che configurano questa crisi non come una semplice disfunzionalità, ma come un vero e proprio fatto epocale problematico. Innanzitutto, attivando processi di «produzione integrata» su scala mondiale, le grandi corporazioni economico-finanziare hanno posto all’ordine del giorno la esigenza della multidisciplinarità teorico-pratica del sapere esperto, cioè il superamento delle tradizionali distinzioni formali disciplinari (su cui insistono i monopoli professionali). In secondo luogo, l’avvento della Rivoluzione mediale info-telematica ha scompaginato le pratiche e le prestazioni spazio/tempo in tutti i campi d’azione, e dunque anche i meccanismi di garanzia circa le competenze e le relazioni socio-professionali. Infine - ma non ultima - la cosiddetta «Fine della Modernità» ha messo a nudo i limiti della razionalità tecnoscientifica illumistica e ha esaperato a tal punto la frammentazione e il «disincanto» dei gruppi professionali da rendere pressoché impossibile qualunque forma di coesione e di rappresentanza collettiva unitaria. 
Così si assiste attualmente ad un duplice, inquietante paradosso. Da un lato, quanto più il sistema di mercato si dispone a creare un proprio sistema istituzionale di credenziali - così come dimostra l’avvio dei processi di Certificazione della Qualità - tanto più cerca sostenitori per attaccare il sistema professionale là dove è, in effetti, più debole, minando i punti nevralgici della identità professionale, vale a dire la specificità tecnica, la coesione sociale e la lealtà ideologico-politica. 
Dall’altro lato, poi, quanto più il sistema sociale mostra di temere gli effetti destabilizzanti del mutamento sociale in atto e invoca una adeguata protezione da parte di chi, quantomeno per competenza, dovrebbe essere in grado di garantirla, tanto più intere frazioni interne a ciascun gruppo professionale assumono comportamenti opportunistici - se non del tutto anomici - pur di trarre vantaggio dalla situazione esistente. 
Dato questo contesto generale, non deve dunque sorprendere se l’ipotesi di abolire gli Ordini professionali proviene contemporaneamente sia da coloro per i quali l’attacco di cui si è detto appare particolarmente vantaggioso, sia da coloro che, al contrario, si ritrovano senza tutela e senza guarentigie. 
In ogni caso, è del tutto evidente che la ipotesi della abolizione degli Ordini muove soprattutto da una pretesa politica destabilizzante che trascende il loro attuale stato di fatto e riguarda l’assetto complessivo della società occidentale. 
Di conseguenza non si può certo ignorare che chi oggi invoca quella ipotesi attenta, direttamente o indirettamente, non solo al processo di Unificazione Europea, ma anche e soprattutto alla identità culturale e alle condizioni epistemiche della stessa civiltà europea.