Impresa
& Stato n°46
GLI ORDINI PROFESSIONALI,
SCONTRO TRA DUE CULTURE
di
Maria
Malatesta
Una battaglia
dal contenuto simbolico, la cui posta in gioco non è solo la libera
concorrenza, ma l’identità stessa delle professioni così
come si è delineata nell’ultimo secolo.
La
battaglia che si sta svolgendo in Italia attorno agli ordini professionali
ha un evidente contenuto simbolico. La posta attualmente in gioco non è
solo l’introduzione di un regime di libera concorrenza all’interno del
nostro sistema professionale. L’equiparazione delle professioni intellettuali
all’impresa, che è la premessa concettuale di questo mutamento,
rimanda infatti ad un nodo di portata storica. Ciò che viene messa
in discussione oggi è l’identità stessa delle professioni
italiane, quale si è costruita nel corso della storia dell’Italia
unita.
La natura «protetta»
delle moderne professioni liberali fu definita nel 1874. Essa trovò
la sua espressione più compiuta in un istituto, l’ordine, la cui
funzione consisteva nel rappresentare e al tempo stesso garantire la specialità
delle professioni intellettuali: l’essere cioè mestieri ad alta
utilità sociale, la cui natura eminentemente pubblica implicava
che ad essi venissero riconosciuti particolari privilegi, ma che dovessero
anche essere sottoposti a particolari controlli.
IL MODELLO FRANCESE
Il modello professionale
ancora oggi vigente in Italia deve le sue origini alla legge del 1874 che
riordinava e unificava su tutto il territorio nazionale le professioni
forensi. La Francia fu il modello a cui si ispirò il legislatore
dell’epoca. Dal XV secolo l’ordre rappresentava il corpo degli avvocati
francesi e al tempo stesso l’istituto preposto al controllo della professione.
L’ordre era infatti inteso come un’associazione di singoli individui uniti
da un’attività comune, la cui socializzazione era il risultato del
comune possesso della competenza professionale. L’ordre stava così
ad indicare la professione stessa di avvocato. Il suo elemento distintivo
era l’onore nel quale era racchiuso il capitale simbolico della professione.
L’onore creava tanto un sistema di destinazione professionale quanto un
sistema di deontologia in base al quale l’ordre veniva investito del potere
di disciplinare il corpo professionale.
Soppresso durante la Rivoluzione
francese e ripristinato nel 1810, l’ordre francese rimase prerogativa dei
soli avvocati. La «paura della corporazione» impedirà
fino al 1884 che in Francia si liberalizzi la formazione dei sindacati
professionali. Sotto l’impulso di Napoleone, verrà accentuato nel
corso dell’Ottocento il carattere pubblico dell’ordre, inteso ora piuttosto
come necessità di regolamentazione della professione che come etica.
L’ordre francese, con tutte
le evoluzioni avvenute all’interno delle sue funzioni, venne ripreso e
adattato al contesto italiano. La linea interpretativa che si affermò
fu quella rappresentata da Giuseppe Zanardelli – stilatore del Codice penale
dell’Italia unita e futuro primo ministro - secondo il quale l’ordine andava
innanzitutto considerato come un’istituzione a cui attribuire il compito
di tutelare i diritti e di far rispettare i doveri del corpo forense. In
uno dei discorsi pronunciati davanti al Consiglio dell’ordine degli avvocati
di Brescia, di cui era presidente, Zanardelli si espresse in questi termini:
«Noi non siamo una società, non siamo una corporazione che
goda di alcun privilegio; noi siamo, secondo le parole che ereditammo dalle
tradizioni romane, un ordine.»
Il fatto che nell’ordine
italiano prevalesse la componente istituzionale, che l’ordinamento prevalesse
cioè sul corpo, ha consentito che l’ordine si estendesse nel corso
degli anni dalle professioni forensi alle altre professioni liberali, la
cui prima credenziale era la formazione universitaria. Era infatti la natura
istituzionale e sociale delle professioni liberali ad implicare il concetto
di collegialità. L’ordine rappresentava così la socializzazione
del corpo professionale ed esprimeva il riconoscimento del valore sociale
della professione.
LA PROFESSIONALIZZAZIONE
ITALIANA
Con la creazione dell’ordine
degli avvocati e dei procuratori iniziò la parabola della professionalizzazione
italiana sorta – come avvenne nell’Europa continentale – grazie alla spinta
dello stato, ma poi proseguita in forza degli stimoli provenienti dagli
altri corpi professionali, desiderosi di trovare nell’ordine un riconoscimento
professionale e sociale paragonabile a quello degli avvocati.
L’autonomia degli ordini
otto-novecenteschi non fu molto ampia. Per la cultura dell’epoca l’ordine
rappresentò, più che la prova dell’autonomia professionale,
il trionfo dello stato e della sua capacità di riconoscere, regolamentandoli,
i corpi sociali. L’ordine controllava le credenziali richieste dallo Stato
per iscriversi all’albo professionale: il possesso del diploma di laurea,
il superamento dell’esame di abilitazione alla professione, la cittadinanza,
la buona condotta, l’incompatibilità con altre professioni. La funzione
di certificazione degli ordini è rimasta a tutt’oggi la stessa,
così come inalterato è rimasto il loro potere di disciplinamento
del corpo professionale.
Il regime repubblicano ha
rafforzato l’autonomia amministrativa, normativa e giurisdizionale degli
ordini. Soppressi negli anni Trenta dal fascismo allo scopo di riassorbire
l’autonomia dei corpi professionali all’interno del regime corporativo,
gli ordini sono stati ripristinati a partire dal 1944 ed estesi anche alle
professioni che erano state riconosciute e regolamentate durante il fascismo.
La Repubblica si è riallacciata alla tradizione liberale, recuperando
al tempo stesso la cultura pubblica delle professioni diffusasi durante
il fascismo. Con la legge del 1938 infatti veniva affermato il principio
del riconoscimento della funzione pubblica delle professioni intellettuali
e l’obbligatorietà dell’iscrizione agli albi.
Il significato rivestito
sul lungo periodo dagli ordini italiani è stato soprattutto quello
di dare una veste istituzionale alla specialità di alcune professioni
intellettuali, individuabile nella funzione di utilità pubblica
che queste riuscirono ad imporre e che fu loro riconosciuta.
Nel corso della sua storia
l’ordine professionale italiano non è mai stato in grado di limitare
la concorrenza professionale, giacché l’iscrizione agli albi non
è mai riuscita ad arginare la crescita del numero dei professionisti.
E infatti dal primo Novecento, in concomitanza con l’inizio di una maggiore
diffusione dell’istituzione superiore, i professionisti italiani hanno
sempre invocato metodi malthusiani, consistenti per lo più nel domandare
allo Stato di controllare gli accessi all’Università. Ci sono riusciti
da non molto i medici. Ma gli unici vincenti in questo campo sono stati
i notai i quali, sfruttando la loro duplice identità di liberi professionisti
e di funzionari dello stato, sono riusciti a controllare rigidamente l’accesso
alla professione.
Sostiene Magali Sarfatti
Larson che la crisi in cui versano attualmente tutte le professioni nel
mondo occidentale è dovuta alla perdita di quell’identità
di civil service che fu ovunque all’origine del moderno professionismo.
Non si può escludere che gli ordini abbiano perso oggi la loro funzione
per il fatto che le professioni non si identificano più nel modello
del civil service, ma tendono ad assumere come unico referente il mercato.
In questo caso, la battaglia
sugli ordini professionali a maggior ragione simboleggia il conflitto tra
due identità e due culture.
BIBLIOGRAFIA
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