Impresa
& Stato n°46
LO SVILUPPO DELLE LIBERE
PROFESSIONI
di
Maurizio
Polato
Aspetti storici, sociologici
e giuridici: tre piani di lettura a confronto per avere un’idea più
chiara dell’evolversi delle attività intellettuali nel corso degli
anni.
Il
campo delle libere professioni ha subito, negli anni, un notevole
sviluppo, accelerato in quest’ultimo scorcio di secolo dalla «rivoluzione
post-industriale» che ha provocato la terziarizzazione del mercato.
La nascita e il consolidamento di un nuovo professionalismo che «determina
la comparsa di un elevato numero di forme professionali incorporanti abilità
specifiche di nuovo tipo» (G.P. Prandstraller 1994). Le vecchie
professioni (avvocato, medico, notaio) si sono modificate; differenziate
a tal punto che ne sono sorte, per gemmazione interna, di nuove, in virtù
della specializzazione delle conoscenze, dell’adeguamento del credential
system; le nuove professioni, prive di tradizione, hanno risposto in parte
ad «un processo di autoaffermazione» (G.P. Prandstraller 1994);
in parte ai bisogni nascenti dalla società; in parte all’espressione
del consolidarsi e del sistematizzarsi di nuovi ambiti teoretici dovuti
all’affermarsi delle scienze; in parte, ancora, all’esistenza di prescrizioni
normative che hanno indotto la formazione di nuove specialità professionali
alle quali devolvere funzioni di controllo e consulenza.
Il mondo dei liberi professionisti
ha visto, nell’evolversi delle vicende storiche che lo hanno riguardato,
oscillanti momenti nel farsi della professionalizzazione.
Per avere un’idea più
chiara del fenomeno delle professioni intellettuali è necessario
mettere a confronto tre piani di lettura: quello storico, quello sociologico
e quello giuridico. Tre piani che consentono di tematizzare una figura
che altrimenti rischierebbe di rimanere in parte in penombra, con la conseguenza
di un esito interpretativo parziale ed arbitrario.
IL PIANO STORICO
Il processo di professionalizzazione
rinviene le sue ascendenze in epoca medioevale. Le opera liberalia erano
identificate col lavoro intellettuale, che caratterizzava, in modo trasversale,
tutte le classi sociali. Lo stesso intellettuale si considerava come un
artigiano che esercitava un’arte.
Indifferente appariva la
commistione tra intelligenza e attività produttiva. Le arti liberali
erano organizzate come quelle meccaniche. Le differenze si registreranno
successivamente, nel corso dei secoli diciassettesimo e diciottesimo; ma
sino alla fine dell’ancien régime le regole giuridiche rimasero
pressoché identiche; fu alle soglie della rivoluzione francese che
il problema delle corporazioni venne investito da una critica del privilegio
che accomunava tutti i lavori. Benché neanche in epoca romanistica
la distinzione tra le arti trovi una sua ragionevole definizione, ciò
nondimeno un criterio discriminatorio è ravvisabile nella contestualizzazione
politica. Già nel tardo impero, l’immagine dell’intellettuale quale
prestatore gratuito d’opera verrà comunque sovvertita quando i mutamenti
politici impediranno ai giuristi impegnati nell’attività di libera
consulenza di godere dei vantaggi indiretti derivanti dalla partecipazione
alla vita pubblica. In epoca classica la vita attiva corrispondeva a schiavitù
della necessità; il disprezzo per il lavoro si coniugava con le
esigenze di astensione da tutto ciò che non fosse attività
politica. L’età moderna vedrà il rovesciamento del tradizionale
disvalore del lavoro. Il labor è promosso dalla chiesa. La preghiera
e il lavoro scandivano, per i monaci benedettini, il passare del tempo.
L’esercizio delle arti liberali venne inteso come via alla sapienza a alla
vita eterna. Anzi, il mondo dei dotti sembra separarsi dal mondo di chi
opera, tra scienza e pratica pare consumarsi la frattura che si cristallizzerà
nell’evoluzione aristocratica delle Università, ove si tende a stabilire
un’equivalenza cavalleria-scienza (A. Perulli 1996). È certo in
epoca rinascimentale che il lavoro nel suo insieme riemerge come fattore
creativo e la distinzione tra arti liberali e manuali si va assottigliando,
affermandone la piena parità. Ciò che preme sottolineare
è la coeva razionalizzazione intellettualistica dell’opera della
scienza e della tecnica come «lavoro». Qualsiasi attività,
anche quella intellettuale, doveva dimostrarsi utile alla società.
L’antica refrattarietà all’ipotesi della mercede e al legame contrattuale
cede il passo alla «vergogna» della vita contemplativa, dal
lavoro allo svago, dal negotium all’otium. Dopo un non breve periodo in
cui le libere professioni sono state considerate improduttive, la riabilitazione
avviene attraverso la nozione di necessità e utilità della
professione. La divisione sociale del lavoro induce ad affidarsi ai consulenti
«perché gl’ignoranti clienti non sanno esaminare le loro carte
« (L.A. Muratori 1743).
Le opere e i servizi intellettuali
sono considerati «beni» e «servizi» suscettibili
di valutazione economica, perché chi vive del proprio lavoro dal
lavoro stesso deve trarre il compenso. Vale la pena sottolineare che la
nascita dello stato unitario coincise nel nostro paese con la fase di avvio
del moderno professionalismo (M. Malatesta 1993). Il processo di nazionalizzazione
della borghesia professionale, fortemente voluto dalla politica liberale,
si concretizzò nel superamento del localismo attraverso la sottoposizione
a regole comuni di riconoscimento e disciplina della propria attività
stabilite dalla legge. Questo processo però non fu voluto solo dall’alto,
ma fu anche sollecitato dalla base. Esso servì a creare le basi
di una semantica comune tra le diverse professioni. Tale modello si impose
a tutte le attività professionali, benchè in tempi diversi
e trovò la sua manifestazione nell’ordine, inteso come luogo in
cui si realizzava la duplice istituzionalizzazione delle professioni.
È da osservare che
già nel corso del XIX secolo si può rilevare come alcune
professioni, a conferma di una struttura giuridica di tipo corporativo
che, come visto, si può far risalire al medioevo, hanno un grado
di formalizzazione organizzativa che è incomparabilmente superiore
a quello goduto da molte altre attività (A. M. Banti 1993).
Dopo la rivoluzione francese,
che, fatta eccezione per l’Inghilterra, fece piazza pulita di ogni sistema
corporativo, i ceti professionali, oscillando tra statalismo e autonomia,
premettero sul decision making politico affinché si creasse un’area
istituzionalizzata dell’agire professionale diretta al riconoscimento del
monopolio professionale.
I dati raccolti sulle origini
sociali sembrano indicare una caratterizzazione di tipo uniformemente borghese
di avvocati e medici dell’Italia dell’Ottocento (A. M. Banti 1993). Come
vedremo più avanti, tale caratterizzazione sembra confermata anche
da recenti ricerche sociologiche a testimonianza di una scarsa mobilità
sociale sia intergenerazionale che intercategoriale. Benché siffatta
conclusione sembra smentita dall’esistenza di forte sacche di disoccupazione
intellettuale, con effetti «proletarizzanti», a causa dello
squilibrio tra industrializzazione e scolarizzazione. Nondimeno, sarebbe
bene dimostrare la tipologia della disoccupazione per escludere che questa
sia prevalente nel settore industriale.
IL PIANO SOCIOLOGICO
Per molti decenni le libere
professioni sono state studiate in quanto occupazioni «speciali»,
ossia caratterizzate da alcuni attributi che le distinguerebbero dalle
altre occupazioni (Tousijn 1987). A fine secolo scorso se ne sono occupati,
nell’ambito delle riflessioni sull’evoluzione del capitalismo, Durkheim
in Francia, i Webb e Tawney in Gran Bretagna, Flexner, Brandeis e Veblen
negli Stati Uniti. Essi, sulla base di un’impostazione eccessivamente ideologica,
ne tessevano l’apologia, facendole apparire come un’oasi non ancora toccata
dalla logica individualistica del capitalismo (Tousijn 1987). Il programma
di ricerche organicistico valuta le associazioni professionali come le
sole forme di organizzazione del lavoro capaci di proteggere la società
dallo scatenarsi degli interessi economici e dell’individualismo conseguenti
alla modernizzazione (Sciortino 1991).
L’analisi funzionalista
concepisce le libere professioni come un gruppo di occupazioni orientate
al servizio e che applicano un corpo sistematico di conoscenze a problemi
strettamente connessi con valori centrali per la sopravvivenza e l’equilibrio
della società nel suo insieme. Poiché il nucleo della professione
si colloca nella relazione di ruolo tra cliente e professionista, il focus
della professionalizzazione si identifica nello sviluppo di forme istituzionali
di controllo e garanzia di quella relazione, ciò che le comuni forme
di controllo sociale – il mercato e la gerarchia – non sarebbero in grado
di realizzare (Santoro 1994).
Il programma di ricerche
strutturali ha posto l’accento sulle caratteristiche intrinseche, sugli
attributi delle libere professioni, ruotanti intorno all’esistenza di un
corpus teorico di tipo sistematico-astratto e all’adesione a un ideale
di servizio.
Recentemente alcuni contributi
al filone delle teorie tecnocratiche hanno individuato nella crescita,
assoluta e relativa, delle libere professioni uno dei fenomeni qualificanti
la transizione ad una società postindustriale.
Ora, non intendo affermare
che l’immagine del fenomeno libero-professionale tratteggiata dalle teorie
cui ho accennato non sia veritiera, ma con Tousijn non posso fare a meno
di rilevare come tali approcci trascurino di cogliere il carattere ideologico
del concetto di «libera professione» (Tousijn 1987). La mitologia
professionale attraverso l’esaltazione di alcuni caratteri «positivi»
ha nascosto condizioni storiche, evolutive e strutturali messe in luce
dall’analisi storico-evolutiva vocata ad una più attenta riflessione
sul processo di professionalizzazione. A cominciare dalle istanze di istituzionalizzazione
delle libere professioni intese ad ottenere il riconoscimento dello status
di «professione intellettuale». Si inizia nel 1874 con avvocati
e notai e si prosegue con i ragionieri, i medici, i commercialisti, le
ostetriche, gli infermieri, i giornalisti, i geologi, eccetera, eccetera.
Sicché l’esercizio dell’attività intellettuale si presta
nel tempo ad un duplice statuto: da un lato l’esistenza di una disciplina
giuspubblicistica diretta alla istituzione e organizzazione di un ordinamento
professionale la cui entificazione risponde all’esigenza di curare un interesse
generale; dall’altro il soggetto che opera nel mercato in regime di diritto
privato in cui i rapporti giuridici di cui è parte sono regolamentati
dal codice civile. Interessi pubblici lasciati alle cure degli interessi
privati!
Tale apparente contraddizione
potrebbe nascondere un atteggiamento non proprio soddisfacente: monopolizzazione,
chiusura sociale e controllo del mercato.
L’idea sottostante alla
teoria della monopolizzazione è che le «professioni»
sono gruppi occupazionali organizzati che agiscono con successo sul mercato
e/o nell’arena politica al fine di conseguire monopoli, spesso legalmente
garantiti, del diritto di fornire servizi e, attraverso un uso intensivo
e strategico di credenziali, del diritto di decidere chi può accedere
alle occupazioni che forniscono quei servizi (Santoro 1994).
Sulla base dell’analisi
sin qui condotta, ritengo esplicativo, in senso storico-evolutivo, il concetto
di professionalizzazione concepito dalla ricerca di Tousijn.
Il processo di professionalizzazione
è costituito da una successione logica e temporale di una serie
di fasi: la formazione di una base cognitiva, la nascita di associazioni
professionali locali e nazionali, il sorgere di scuole specialistiche e
il riconoscimento di forme di protezione statale, il tutto interpretabile
come un «progetto professionale» diretto alla conquista del
controllo del mercato professionale e all’innalzamento dello status collettivo
dei membri della professione, benché il grado di realizzazione del
progetto vari grandemente tra una professione e l’altra (Tousijn 1987,
1994).
Abbiamo ricordato la componente
ideologica, la quale non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo
senza il supporto di un elemento strutturale costituito dal rapporto tra
libere professioni e Stato. Esse, secondo Tousijn, possono essere considerate
una forma specifica di corporativismo che sembra agire prevalentemente
dal lato dell’input del sistema politico, ossia come strumento di intermediazione
degli interessi, piuttosto che dal lato dell’output, cioè in sede
di formazione e implementazione delle politiche pubbliche (Tousijn 1987).
IL PIANO GIURIDICO
La dottrina tradizionale
considera l’opera intellettuale come una species del tipo generale «lavoro
autonomo». Anzi, del genus costituisce la punta più avanzata,
che in essa rinviene la sua principale e più importante applicazione
(Perulli 1996).
Nella prestazione d’opera
intellettuale parte della dottrina annette significativa importanza all’aspetto
comportamentale: ossia alla professionalità intesa come sistematicità/continuità
dell’esercizio della professione.
Ma se si distingue l’esercizio
dalla prestazione, il primo, nelle professioni protette, rimesso al piano
pubblicistico dell’iscrizione all’ordine professionale, la seconda, invece,
dedotta nel contratto ex art. 2230, co. 1 c.c., l’opera intellettuale si
riflette nella professione allorché il professionista iscritto all’albo
può dirsi tale persino a prescindere dalla sua posizione di «parte»
in un contratto d’opera (Perulli 1996).
Non è possibile,
quindi, sovrapporre al rapporto contrattuale e alla singola prestazione,
non suscettibile di stabile reiterazione nel tempo, la cornice normativa,
coi suoi riflessi pubblicistici, che disciplina l’attività professionale
in quanto finalizzata all’esercizio di un ufficio privato. Si rinviene
in ciò quanto è già stato osservato. Il doppio regime,
l’ambivalenza delle professioni liberali: da un lato le norme unitarie
del codice civile; dall’altro la pluralità di leggi speciali che
disciplinano l’esercizio delle libere professioni (Meloncelli 1991; Olgiati
1987).
Al fine di qualificare la
fattispecie, pur non addivenendo a conclusioni univoche, la dottrina pare
attestarsi sul concetto di intellettualità, non altrimenti del tutto
convincenti sembrando, pur nelle diverse varianti, le nozioni di sistematicità
(o professionalità), discrezionalità, liberalità o,
seguendo un’indicazione del tutto formalistica, quella teoria che ricondurrebbe
all’iscrizione all’albo o all’elenco l’unico requisito distintivo della
professionalità.
L’elemento qualificante
dell’opera, che comporta in ogni caso un facere, si distinguerebbe dunque,
nella sua natura di creazione, lato sensu intesa, intellettuale (Musolino
1995). Tale definizione, benché onnicomprensiva, rende giustizia
non soltanto alla realtà sociale, ma anche sul piano meramente normativo,
là dove, nella formulazione del disposto dell’art. 2229, co. 1,
c.c., il Legislatore lascia intendere, seppure in via residuale, che l’esercizio
delle attività liberali può esplicarsi nonostante non esista
un ordinamento professionale che disciplina quella specifica attività.
Pertanto nel novero della nozione codicistica di «opera intellettuale»
possono includersi, indifferentemente, sia le professioni c.d. «protette»,
sia le professioni «non protette», giacché è
lasciata alla discrezionalità del Legislatore decidere quali tra
queste sono meritevoli di una speciale disciplina intesa a garantire il
perseguimento di finalità aventi rilievo di interesse collettivo.
I riflessi giuridici di
una tale dicotomia non sono di poco conto: dal problema della personalità
della prestazione con i conseguenti limiti in materia di società
professionali, alla questione delle «tariffe», dell’acceso,
della pubblicità, della responsabilità, delle esclusive,
degli ordini, ecc. Tutti argomenti oggetto dell’indagine condotta dall’Autorità
garante della concorrenza e del mercato che ha fatto segno delle sue valutazioni
parecchi aspetti riguardanti le professioni «protette».
Essa muove dalla considerazione
che l’attuale regolamentazione delle libere professioni non appare più
funzionale alle esigenze di sviluppo delle attività professionali,
in considerazione anche dell’evoluzione del contesto economico e normativo,
in parte riconducibile a fenomeni di carattere sovranazionale (Antitrust
1997).
Accogliendo le perplessità
espresse dall’Antitrust, Perulli invita a ricercare la «natura»
degli interessi in funzione dei quali l’esercizio di certe professioni
viene subordinato alla verifica di determinati requisiti: ricerca volta
a scoprire se vi è in interesse pubblico cospicuo, ovvero se tale
meccanismo preclusivo mascheri piuttosto interessi di gruppi organizzati
(Perulli 1996).
A questo riguardo ci si
è chiesti se le corporazioni medioevali non siano sopravvissute,
in forma moderna, e abbiano persino resistito alla foga iconoclasta della
Rivoluzione Francese: sono rimasti infatti gli stessi processi di training,
apprendistato, selezione, abilitazione che un tempo si seguivano; gli stessi
sistemi lobbistici per l’instaurazione di un rapporto proficuo con le istituzioni
(Alpa 1990).
Alla prestazione d’opera
viene attribuito carattere personale e infungibile. Tale caratterizzazione
è implicitamente inclusa nel precetto contenuto nell’art. 2222 c.c.;
ma il Legislatore non si accontenta perché, con riguardo all’opera
intellettuale, la rende esplicita con l’art. 2232 c.c. Ma anche in questo
caso la realtà sociale sembra spingersi più avanti del contenuto
normativo. Se la norma ha seguito un profilo temporale successivo al farsi
del processo sociale, ora sembra in ritardo, onde ne costituisce un limite
che spesso sfocia nell’illegittimità.
Nel contesto del dibattito
circa la forma giuridica dell’aggregazione conforme alle espressioni usate
negli artt. 1 e 2 (ora abrogati dall’art. 24 della c.d. Legge «Bersani»)
della Legge n. 1815/39, dottrina e giurisprudenza (per tutte Cass. 31 luglio
1987, n. 6636) hanno affermato che, allorché più professionisti
associati per l’esercizio di una professione ai sensi dell’art. 1 L. 1815/39
assumono un incarico congiuntamente (non collegialmente, ove si configurerebbe
il sorgere di tanti rapporti giuridici distinti quanti sono i professionisti
che assumono l’incarico), «si ha un unico rapporto tra il cliente
e i professionisti, di talché questi si presentano al cliente e
per esso operano come un’unica parte contrattuale, hanno diritto ad un
solo compenso e la prestazione ad essi unitariamente chiesta può
essere disimpegnata dall’uno e dall’altro o da tutti congiuntamente».
Sul punto della rilevanza
che, nel tempo, la forma organizzativa va assumendo anche negli studi professionali,
autorevole dottrina ha rivalutato tale aspetto argomentando dalla novità
rappresentata da numerosi fattori che incidono in ogni caso su tutte le
professioni: dall’integrazione delle competenze, attesa la dinamica dei
bisogni che spingono verso la settorializzazione delle conoscenze; al lavoro
di équipe, alla meccanizzazione/informatizzazione delle strutture
professionali, ecc.
Il professionista sembra
schiacciato dall’organizzazione: certo, alla dottrina tradizionale, che
è anche maggioritaria, ripugna la correlazione libero-professionista/imprenditore:
argomentando dall’art. 2229 c.c., circa l’obbligatorietà dell’iscrizione
in «appositi albi o elenchi» riservata alle persone fisiche,
dall’art. 2232 circa la personalità nell’esecuzione della prestazione,
dal 2238 c.c. circa l’esercizio della professione come elemento di un’attività
imprenditoriale il cui oggetto, nella sua globalità, non deve coincidere
con quello tipico dell’opera intellettuale «protetta». Ma,
sottolinea Alpa, vi sono delle categorie che, ancorché organizzate
in ruoli, svolgono l’attività in forma d’impresa: i brokers, gli
agenti e rappresentanti di commercio, i mediatori, gli intermediari di
valori immobiliari, ecc.
Si può obiettare:
è la legge che lo dispone e al Legislatore tutto è permesso.
Tuttavia il Legislatore tutto può fare, tranne che risolvere le
antinomie (Alpa 1990). Perciò la professione intellettuale non è
antinomica a quella di imprenditore; perciò, ancora, l’art. 2232
c.c. non può essere inteso in senso letterale restrittivo. E la
nozione di imprenditore racchiusa dall’art. 2082 sarebbe sufficientemente
ampia da investire anche l’esercizio delle libere professioni (Galgano
1998).
Attraverso una lettura «sociologica»
dell’art. 2238 c.c., dettato in un momento storico in cui il facere del
professionista dominava sull’autorganizzazione, è pensabile che
l’indice di rilevanza economica dell’attività produttiva di un servizio
(che l’opera intellettuale sia un servizio commerciale è ormai assodato
e partecipa dei principi normativi dell’ordinamento sovranazionale dell’
UE, art. 60 del Trattato; cfr. Santini 1988) superi quella soglia oltre
la quale si dà vita ad un’organizzazione complessa di capitale e/o
lavoro e quindi ad un’impresa in senso tecnico. Nessuna incongruenza sarebbe
riscontrabile tra i predicati normativi ex art. 2082 e gli attributi dell’attività
volta alla produzione di opera intellettuale (Perulli 1996).
Altro argomento assai dibattuto
dalla dottrina e ora di grande attualità è quello rappresentato
dalle società tra professionisti.
Prima dell’abrogazione dell’art.
2 della L. n. 1815/39, la giurisprudenza era concorde nell’affermare che
«le società delle quali, a norma dell’art. 2 della L. 1815
è vietata la costituzione, sono soltanto quelle la cui attività
corrisponda alle prestazioni che possono essere fornite da una o più
esercenti le professioni intellettuali «protette» (Cass., 2
marzo 1994, n. 2053), ammettendo le c.d. società di mezzi, destinate
o fornire la base strumentale dell’attività, ovvero il contratto
associativo a rilevanza interna, con rappresentanza reciproca tra i professionisti
associati e solidarietà attiva verso l’esterno.
Un indirizzo dottrinale,
volto a dimostrare la compatibilità tra modello societario e libera
professione, ha tentato un’interpretazione non dogmatica della legge del
’39, espressione per taluno di sentimenti antisemiti (Vaccà 1993).
Secondo quest’insegnamento,
la legge si limiterebbe a fornire delle prescrizioni in riferimento al
nome associativo e ad altri pochi elementi, mentre per il resto si applicherebbero
le norme sulle società (Zaccarelli 1997).
Il dibattito, ancora in
corso, suscitato dall’abrogazione dell’art. 2 della legge n° 1815 non
sta esprimendo chiari e definitivi intenti innovativi rispetto ad una tradizione
oramai vetusta, giacché il «sistema giuridico non ha saputo
uniformarsi, adattarsi, adeguarsi alle nuove esigenze economiche e sociali»
(Alpa 1990).
Al di là delle suggestioni
che si manifestano nella invocata normativa ad hoc per disciplinare le
società tra professionisti onde riempire il vuoto aperto dalla novella
contenuta nella Legge «Bersani», una soluzione, che presupporrebbe
la compatibilità tra l’assetto normativo delineato dal codice civile
e dalla legislazione speciale, è stata fornita da un autorevole
giurista, P. Schlesinger. Il professionista che appartenga ad una compagine
sociale tra quelle disciplinate dal c.c. che espleti un contratto che comporti
l’esercizio di un’attività «protetta» incontra responsabilità
illimitata. Ma ciò non dipende dalla stipulazione del contratto,
bensì dalla sua esecuzione. Pertanto, ove il contratto venga stipulato
da una società è certo che la persona fisica che esegue la
prestazione incontrerà responsabilità illimitata, con l’effetto
di sommare la responsabilità (limitata) della società alla
responsabilità (illimitata) del socio/lavoratore/professionista
(Schlesinger 1998).
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Il piano storico e il piano
sociologico dimostrano che il fenomeno delle professioni liberali si pone
in posizione centrale rispetto alle esigenze, ai bisogni, alle domande
che sorgono dalla società e dall’economia. Esso è in grado
di produrre beni, immateriali, di importanza primaria in rapporto alla
protezione dei diritti e al soddisfacimento di rilevanti interessi collettivi.
Il riconoscimento dello
stato conferma tale centralità attraverso la certificazione delle
attitudini professionali e morali dell’esercente la libera professione.
Ma tale riconoscimento, soprattutto in questi ultimi tempi che vedono parecchi
gruppi occupazionali bussare alle porte del Parlamento per chiedere una
legittimazione, ha comportato l’estendersi di un controllo sociale che
si è tradotto in privilegio ed egoistica concentrazione di reddito.
Giuliano Amato si chiede se è giusto che gli ordini abbiano un controllo
sugli accessi alla professione, se abbiano ancora un senso certe «riserve»
(Amato 1998). Se il divieto di pubblicità non danneggi più
il cittadino-utente che l’iscritto all’ordine: la differenza informativa
rimane incolmabile, mentre il cittadino non ha gli strumenti per scegliere
liberamente.
Le selezioni all’accesso
a volte sembrano proprio delle barriere!
L’Antitrust ha rilevato
che «data la natura degli interessi protetti, il controllo circa
il possesso da parte dell’aspirante professionista dei necessari requisiti
dovrebbe essere effettuato al di fuori di eventuali pressioni corporative
da un organo amministrativo imparziale». Auspicabile sarebbe l’introduzione
di una regolamentazione degli esami di stato che fosse espressione di trasparenza
ed equità, garantendo maggiore obbiettività nella formazione
del giudizio e conoscibilità a priori dei programmi. Prevedersi,
in alternativa al tirocinio presso lo studio del professionista, la frequenza
di corsi di specializzazione.
La legge quadro di riforma,
lungi dall’introdurre una selvaggia deregulation, dovrebbe conservare il
sistema ordinistico nei limiti della tutela di interessi aventi rilevanza
costituzionale e precludere agli ordini la rappresentanza particolare degli
interessi onde evitare la legittimazione di istanze incompatibili con lo
statuto di pubblico interesse incarnato dalle organizzazioni professionali.
Particolare attenzione va
prestata al controllo di qualità, che non deve limitarsi alla certificazione
iniziale una tantum, bensì divenire sistematico e periodico audit
mirato a correggere il deficit organizzativo e culturale e a stimolare
il miglioramento degli standard di qualità. Auspicabile, a tal proposito,
l’introduzione di una normativa tecnica ad hoc sulla falsariga della ISO
9004 ter e una conversione degli Istituti di formazione (Università)
ad una vocazione multimediale: conferenze e lezioni a distanza, utilizzo
di strumenti informatici, come internet o intranet, per facilitare l’aggiornamento
professionale decentrato.
Per concludere, l’auspicio
che il legislatore prosegua nel compito «programmatico» di
dare piena attuazione all’art. 4 della Costituzione: garantire non solo
il diritto al lavoro ma anche la «libertà di lavoro»
(Paladin 1995), ricreando condizioni di giustizia sociale affinché
«individui diseguali per nascita vengano messi in condizione di maggior
favore per eguagliare condizioni di partenza: la nuova eguaglianza è
il risultato del pareggiamento di due diseguaglianze» (Bobbio 1995).
BIBLIOGRAFIA
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