Impresa
& Stato n°46
L’AVVOCATURA NELLE SOCIETÀ
MODERNE
di
Emilio
Nicola Buccico
L’espandersi dei
nuovi diritti pone il problema di una classe forense preparata, capace
di dare risposte precise alle domande dei cittadini.
Libere
professioni: quale futuro? Tra richiami alle corporazioni e all’immanenza
del mercato, ormai da diversi mesi si va intensificando un dibattito drogato
da mistificazioni e, spesso, equivoci.
Il disegno di legge delega
approvato il 3 luglio dal Consiglio dei Ministri ha fatto crescere il livello
del confronto.
Appare ora utile sgombrare
il campo dai luoghi comuni e dagli estremismi, tumefatti soprattuto da
quanti - già avversari e demonizzatori del mercato - si riscoprono
ogni giorno di più rimasticatori sospetti di Adamo Smith.
Occorre, quindi, mettere
i paletti e inalveare correttamente i termini dialettici della discussione.
Le libere professioni, diciamolo
subito, non sono morte né intendono morire: la loro collocazione
nell’attuale società è essenziale.
Una società - mediatizzata
come quella nella quale viviamo e aperta, se non spesso pronta, al confronto
con l’Europa e il mondo - ha bisogno di ceti professionali in grado di
garantire prestazioni di qualità e di distinguersi per comportamenti
ispirati a principi etici e deontologici non defettibili.
Proprio le società
moderne, capaci di far emergere - in relazione alla qualità, diversità,
intensità dei rapporti e dei traffici - nuove figure professionali
e di ricercare, anche in maniera interstiziale, risposte ai bisogni e alle
domande dei cittadini, avvertono il bisogno di ceti professionali adeguati:
si pensi per un solo momento alla classe forense che pure nel corso di
questo «secolo breve» ha subito trasformazioni notevoli e spesso
genetiche, tanto da divenire, da notabilato e ceto referente, corpo sociale
di massa.
I nuovi diritti, quelli
dei consumatori fra i primi, la tutela della privacy, le nuove frontiere
della genetica, tanto per sottolineare le transizioni e le evoluzioni della
società, hanno, e pongono continuamente, il problema della conoscenza
e della tutela.
Crescono le esigenze e si
rinnovano i saperi: e così - espansi i diritti - è la società
nel suo complesso a pretendere una classe professionale - nel nostro caso
una avvocatura - capace di dare risposte corrette e precise e sempre più,
fisiologicamente, nell’area della prevenzione che in quella patologica
dei conflitti.
IL CETO FORENSE
Tale necessità è
stata avvertita proprio all’interno del ceto forense e le trasformazioni
sono iniziate assai prima che si ponessero in discussione, con l’indagine
dell’Autorità Garante prima e la legge quadro poi, ruoli e finalità
dei ceti e degli Ordini, che spesso hanno subito una impropria identificazione
e collocazione.
Sugli Ordini si è
andata così consumando una operazione equivoca attraverso un processo
di restringimento e immedesimazione con realtà in effetti inesistenti:
le corporazioni, i recinti daziari, le protezioni nemiche della concorrenza,
i vincoli ai confronti di qualità.
La trasformazione degli
Ordini, da enti burocratici di certificazione di iscritti ad organismi
garanti della qualità delle prestazioni e della correttezza deontologica,
risponde a necessità avvertita diffusamente dai ceti professionali
e in particolare da quello forense.
I processi di trasformazione
hanno preceduto l’Antitrust e il Governo nella presentazione della legge
quadro, oggi - nel dibattito - ferma soprattutto al palo delle società.
Anche qui, tra luci e ombre,
occorre far chiarezza.
Tra i principi enunciati
nella legge quadro - anche quale frutto della azione sollecitatoria delle
categorie - vanno condivisi la distinzione delle professioni intellettuali
dalla attività di impresa, la ridefinizione del potere disciplinare
secondo gli schemi della terzietà e della autonomia (e in tale direzione
la giurisdizione del Consiglio Nazionale Forense è illuminante lungo
l’arco di oltre mezzo secolo), la tutela dell’utenza attraverso l’introduzione
dell’assicurazione obbligatoria, l’obbligo di emanare codoci deontologici,
la necessità di una formazione costante e permanente del professionista
e di un accesso serio con un tirocinio reale. Il dibattito parlamentare
consentirà il rafforzamento di tali posizioni.
UN CODICE ALL’AVANGUARDIA
E praticamente in questa
direzione l’avvocatura è già in Europa, perché tra
i grandi ceti professionali e tra quelli protetti da una giusta riserva
costituzionale con riferimento alla tutela dei diritti dei cittadini, sin
dall’aprile 1997 ha varato un codice deontologico di avanguardia, aggiornato
da una commissione permanente, che ha introdotto vincendo tabù e
aprendo in maniera corretta all’Europa la legittimità della pubblicità
informativa per il giusto orientamento dell’utenza e l’onorario di risultato,
così inaugurando il laico dibattito sulle tariffe che vanno viste
e riviste nell’ottica della tutela del cliente.
Il dissenso nasce, comunque,
sulle tariffe, per le quali sono previsti minimi non derogabili soltanto
per le prestazioni obbligatorie, e che invece non dovrebbero nella soglia
minima mai essere derogate e non per impedire la dinamica della concorrenza
(l’avvocatura con i suoi centocinquemila iscritti e con gli Albi aperti
è, da sempre, una eccezionale scuola di libera concorrenza) ma per
tutelare la prestazione professionale nei confronti dell’utente e, in particolare,
di quello più debole.
Ma lo snodo che vede contrapporsi
i professionisti che si riconoscono negli ordini contemplati dalla proposta
governativa in esame, comunque segnata da bersanite acuta, e da tutti coloro
che si ritengono assimilati nell’indistinto terziario avanzato delle associazioni
imprenditoriali, è costituito dalla struttura delle società
professionali.
IL SOCIO NON PROFESSIONISTA
Qui si gioca una importante
partita: i professionisti - e naturalmente in prima linea gli avvocati
- sono contrari alla presenza di soci non professionisti, portatori di
puro capitale.
Non vi è contrarietà
al capitale introdotto dal socio professionista: nessuno ne può
negare, nell’epoca delle rivoluzioni tecnologiche e delle concentrazioni
professionali, l’importanza.
Il socio estraneo non professionista
introduce invece elementi di contraddizione, può determinare aree
parassitarie, può inquinare la libera concorrenza influendo sulla
committenza, snatura completamente la qualità della prestazione.
Il mondo dei liberi professionisti
- che ne conta oltre un milione e mezzo - abituati non per definizione
ma per genesi e cultura a vivere nell’area della libertà e nella
tutela delle libertà - sta ritrovando, con l’Europa che incombe,
forza e strategie unitarie nella condivisione di principi che, pur nella
doverosa trasformazione degli Ordini, ci renda pari in Europa e nel mondo.
È stato questo un
primo grande effetto politico che va perseguito e realizzato, certamente
non attraverso una omogeneizzazione forfettaria ma rivalutando comuni valori
di riferimento e valorizzando gli itinerari conformi alla specificità
delle singole professioni.
In questo contesto l’avvocatura
non può che porsi - nella società e nel processo - come interlocutore
essenziale per rendere effettiva la giurisdizione, e per dare così
senso e contenuto a quella età dei diritti che è così
caratteristica dei nostri tempi, nei giorni della transizione verso il
terzo millennio.
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