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Impresa & Stato n°44-45
 
 

UN DISEGNO SISTEMATICO PER RIFORMARE LA P.A.

di
Riccardo Terzi
 
Spinte innovative e resistenze nei centralistiche al tentativo di decentramento delle leggi Bassanini, un cammino da proseguire con tenacia 

Sulla portata innovativa delle leggi promosse dal Governo su iniziativa del Ministro Bassanini (le leggi 59 e 127 del 1997) esiste già un’ampia letteratura, la quale converge in un apprezzamento positivo dell’impostazione di fondo e degli obiettivi dichiarati dell’azione di riforma. 
È il primo tentativo organico di riforma dell’Amministrazione Pubblica, secondo un disegno sistemico e non più con il metodo dei provvedimenti parziali e congiunturali, e non è possibile quindi sottovalutare l’importanza di questa impresa politica che si sta tentando di realizzare. E finora c’è stato, tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, un sufficiente spirito di collaborazione, che costituisce, come è evidente, una condizione indispensabile per scongiurare i pericoli di insabbiamento. Finora il processo di riforma ha trovato, nel Parlamento e nelle forze politiche, un sostegno sostanziale, pur in mezzo alle difficoltà di un percorso estremamente accidentato. 
Nel numero precedente di Impresa e Stato sono già stati messi in luce dal Prof. Giorgio Pastori gli indirizzi e i contenuti essenziali delle leggi Bassanini. In particolare è stata sottolineata la contestualità dell’azione di decentramento e dell’azione di modernizzazione, avendo come criterio-guida il rapporto con la società, con le sue domande, con la sua concreta dinamica nei diversi contesti territoriali. Occorre dunque non solo cambiare con il decentramento chi amministra, ma anche cambiare il modo, il come si amministra. Senza questa contestualità di decentramento e di innovazione organizzativa, rischiamo di trasferire dal centro alla periferia una macchina burocratizzata e inefficiente, di ottenere quindi solo una proliferazione dell’inefficienza. E questo è probabilmente il rischio più insidioso, in quanto è intrinsecamente connaturato alle regole tradizionali di funzionamento dell’amministrazione e alle strutture culturali che in essa si sono consolidate.  

Le resistenze centralistiche 
Ma il primo impatto dell’azione di riforma è con la resistenza conservatrice degli apparati centrali, che si sentono minacciati nel loro ruolo, nella loro funzione tradizionale di comando gerarchico e nei loro meccanismi di centralizzazione delle decisioni. Lo scontro ha già assunto una notevole asprezza, dando luogo a risultati differenziati, anche in rapporto alla diversa sensibilità dei singoli Ministri. È una partita ancora aperta, e sarà decisivo il lavoro dei prossimi mesi, entro la scadenza del marzo 1999, per poter correggere gli aspetti insoddisfacenti e per risolvere i nodi non ancora chiariti. 
Nell’impostazione della riforma Bassanini si considera l’intero comparto delle autonomie, dalle Regioni alle autonomie locali e funzionali, come un unico sistema integrato, che deve trovare al proprio interno le articolazioni più efficienti. Il permanere di conflitti campanilistici e corporativi all’interno di questo sistema costituisce un ostacolo serio, e su queste divisioni possono manovrare le forze centralistiche, secondo l’antico principio del "divide et impera". È quindi essenziale una alleanza forte delle autonomie territoriali, e questo è un elemento politico ancora da costruire. 
Vi è inoltre il rischio di operazioni di aggiramento, con la costituzione di "agenzie tecniche", o di autorità indipendenti, le quali finiscono per riproporre, con un cambiamento solo nominale e apparente, la vecchia logica centralistica, sottraendo tutte le funzioni strategicamente più rilevanti al comparto delle autonomie. È evidente che senza una radicale ristrutturazione del "centro", con la soppressione di tutte le funzioni non necessarie, con la creazione di una struttura ministeriale del tutto innovativa nel suo impianto e nel suo stile di lavoro, il disegno di riforma finirebbe per esaurirsi rapidamente, perché un centro forte può neutralizzare la riforma e riprendersi in breve tempo le sue funzioni di controllo e di comando. 
Credo che in questa fase, ancora così incerta, può avere una influenza rilevante l’atteggiamento delle forze sociali, delle confederazioni sindacali e delle associazioni di impresa. Occorre, da parte di tutti, scegliere con chiarezza la propria collocazione strategica all’interno del processo di riforma, e a questo punto non bastano più le generiche dichiarazioni di federalismo, che ormai si sprecano e fanno parte della retorica ufficiale, ma occorrono atti e comportamenti conseguenti. Il sistema delle relazioni sindacali è stato modellato sulla dimensione dello stato centralizzato, e la tendenza inerziale a mantenere lo status quo è ancora assai forte nei gruppi dirigenti nazionali delle diverse parti sociali. Si può creare una alleanza pericolosa con le forze più conservatrici dell’apparato statale. 
È chiaro che il federalismo non può essere solo una operazione "istituzionale", un trasferimento di competenza dal centro alla periferia dello stato, ma richiede, per essere un elemento vitale, capace di realizzare un nuovo rapporto tra società e istituzioni, la creazione di un nuovo contesto di relazioni sociali, ancorate nel territorio, e richiede l’emergere di classi dirigenti locali, capaci di praticare esperienze di autogoverno. 

Funzione riformatrice delle CdC 
È da prevedere una stagione di conflitto, non solo nell’ambito delle istituzioni pubbliche, ma anche nell’ambito della società civile, per decidere dei futuri assetti di potere. D’altra parte, nessun cambiamento avviene senza conflitto, e la logica del quieto vivere è sempre stata una logica di conservazione. In questo contesto, le Camere di commercio, proprio in quanto radicate nel territorio e punto di incontro degli interessi locali, possono svolgere una importante funzione riformatrice, e per questa medesima ragione è importante il dialogo che si è avviato tra il sistema camerale e le organizzazioni sindacali, per realizzare nelle Camere un momento significativo dell’autogoverno locale, della concertazione delle politiche di sviluppo e di modernizzazione. 
Ed è coerente, in questo senso, la valorizzazione delle "autonomie funzionali" contenuta nelle leggi Bassanini, proprio in quanto si tratta di attivare nuovi soggetti, nuovi attori istituzionali, superando le rigidità unilaterali sia delle importazioni statalistiche sia di quelle privatistiche. Il federalismo è questo: un percorso di ricerca verso nuove forme di autogoverno, nuove modalità di interrelazione tra istituzioni pubbliche e soggetti sociali collettivi. È una scommessa sull’autogoverno, sicuramente rischiosa, ma anche feconda di possibili risultati. 
Continua ad agire, nella cultura politica corrente, un pregiudizio centralistico, in base al quale tutto ciò che è importante e strategico non può essere arrischiato in un processo di decentramento. Secondo questa concezione, la suddivisione di compiti tra lo stato e il sistema delle autonomie è una suddivisione gerarchica che distingue le diverse materie per il loro rilievo nella vita nazionale. Si spiegano così le contraddizioni tuttora aperte per quanto riguarda i beni culturali, o l’ambiente, o l’istruzione. Lo stato può abbandonare questioni così decisive per l’identità del paese? Non viene messa a rischio la stessa unità nazionale? 
Il principio di sussidiarietà, che è il criterio-guida della riforma, assegna le diverse funzioni ai diversi livelli territoriali in base ad una considerazione di coerenza tra la funzione e l’ambito territoriale in cui viene esercitata. Allo stato centrale restano solo le funzioni "indivisibili", le quali per loro natura non possono essere esercitate in un contesto regionale o locale. E in un sistema federale l’unità della nazione è data dall’intreccio e dalla cooperazione tra i diversi poteri: Regioni e autonomie locali sono nel loro territorio i rappresentanti e i garanti dell’unità nazionale. 
Senza questo cambiamento di "cultura politica" non è possibile parlare di federalismo, e ci saranno sempre mille ragioni per mettere in discussione l’affidabilità delle istituzioni locali, per invocare le ragioni della prudenza contro le ragioni dell’innovazione istituzionale. È allora chiaro che senza una cornice costituzionale che assuma coerentemente un impianto federalista il processo avviato con le leggi Bassanini non avrebbe la forza sufficiente per segnare davvero una svolta nella storia delle nostre istituzioni, e a questo punto saranno le decisioni del Parlamento in materia di riforma costituzionale a condizionare l’esito finale di tutto il processo. 

Un federalismo ambiguo 
Nel progetto varato dalla Bicamerale c’è un federalismo dichiarato, ma non supportato da un insieme coerente di norme e di assetti istituzionali. Non si va oltre una linea di "decentramento", con una attenzione privilegiata verso la rete municipale, e lasciando i governi regionali in una condizione di ambigua indeterminatezza. Ora, ci sono stati nel dibattito parlamentare, anche per impulso dell’iniziativa politica di Regioni e Comuni, degli indubbi passi avanti, che fanno sperare in un esito finale più convincente. In attesa di poter compiere una valutazione più complessiva e conclusiva, vorrei segnalare tre aspetti che mi sembrano essenziali e dirimenti. 
Il primo problema è la "federalizzazione" del parlamento, con l’introduzione, accanto alla camera "politica", rappresentativa dei cittadini, di una seconda camera federale, rappresentativa dei territori federati. Senza questa riforma tutta l’attività legislativa sarebbe del tutto fuori dal controllo del comparto delle autonomie, e finirebbe per determinare un processo progressivo di ricentralizzazione. La soluzione più coerente ed efficace è sicuramente quella del Bundesrat tedesco, costituito dai rappresentanti dei governi regionali. Ci si orienta invece verso un senato federale interamente elettivo, con elezione contestuale a quella dei consigli regionali. Può essere una soluzione? Solo ad una condizione: che siano rimosse tutte le norme vigenti di incompatibilità tra il mandato parlamentare e le funzioni di sindaco, di presidente di provincia e di consigliere regionale, così da poter avere, anche per via elettiva, una rappresentanza reale degli enti territoriali e dei loro leader significativi. In caso contrario, il senato non può che riprodurre, come oggi, una rappresentanza politica, strutturata dal sistema dei partiti nazionali. Sarebbe importante anche assegnare al sistema delle autonomie (consigli regionali, provinciali e comunali) il potere di designazione delle candidature. E naturalmente un senato federale così concepito dovrebbe lavorare con tempi e modalità compatibili con gli altri ruoli istituzionali, su materie delimitate e con sessione di lavoro cadenzate secondo un preciso calendario. 
Il secondo problema è la possibilità di adottare un modello di differenziazione, nei modi e nei tempi di realizzazione del trasferimento delle competenze, tenendo conto dell’estrema varietà dei contesti regionali. Questa flessibilità del modello istituzionale è, almeno nella prima fase, un elemento decisivo, per dinamizzare l’intero sistema e cogliere, là dove ci sono, tutte le possibilità di sperimentazione, senza il vincolo di una soluzione che debba essere uniforme per tutto il territorio nazionale. L’esperienza spagnola può essere, in questo senso, un punto di riferimento interessante. In caso contrario, ogni soluzione viene livellata verso il basso, e vengono frustrate le esigenze di autogoverno nei punti di più forte maturazione della coscienza autonomistica. 
In prospettiva, quindi, non dovrebbero più esserci regioni "speciali" e regioni "ordinarie", ma un processo che investe tutto il sistema regionale, con temi diversi, con soluzioni diverse, e comunque orientato verso il massimo possibile di autonomia e di responsabilizzazione, in un rapporto nuovo e dinamico tra il centro e la periferia. 
Il terzo problema è la certezza delle risorse e la piena autonomia nel loro uso e nella loro destinazione, fermi restando i diritti fondamentali di cittadinanza sanciti dalla Costituzione. Che l’autonomia politica sia inscindibile da quella finanziaria è cosa del tutto ovvia. Ed è proprio su questo terreno che si è incagliato finora il progetto autonomistico, per il sopravvivere di una spessissima rete di vincoli, di limitazioni, di controlli, che hanno spesso vanificato le potenzialità delle Regioni e dei Comuni. Il federalismo fiscale deve essere costituzionalmente garantito, e non può dipendere dalle contingenze politiche e dalla variabilità delle maggioranze parlamentari. 
C’è ancora la possibilità di raggiungere, su questi e su altri nodi tuttora aperti, una intesa politica nel parlamento. E occorre un’intesa politica larga, che coinvolga tutte le forze parlamentari, perché un cammino così impegnativo, un processo di riforma che dovrà reggere negli anni e dovrà essere perseguito con coerenza e tenacia, deve poter contare sulla adesione convinta di tutte le forze politiche, per non essere rimesso in discussione di fronte al primo ostacolo, e per non divenire il terreno di polemiche e di strumentalizzazioni di partito.