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Impresa & Stato n°44-45

La globalizzazione fra ideologia e realta'

a cura di Gianni Sibilla

Alcuni protagonisti della vita economica nazionale, riuniti in una tavola rotonda da MicroMega e Camera di Commercio, affrontano un tema concreto ma spesso mitizzato. 

Lo scorso 10 marzo a Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, la Camera di Commercio e MicroMega hanno organizzato una tavola rotonda dal titolo "Marché, Monnaie, Globalité? La globalizzazione fra ideologia e realtà" a cui hanno partecipato Luigi Abete (Presidente  A.BE.T.E. SpA), Paolo Flores D’Arcais (direttore di MicroMega), Pietro Marzotto (vicepresidente di  Confindustria), Corrado Passera (amministratore delegato delle Poste Italiane SpA), Pierfranco Pellizzetti (studioso di Organizzazioni Complesse), Carlo Sangalli (presidente della Camera di Commercio di Milano) e, in qualità di moderatore, Federico Rampini (inviato ed editorialista di Repubblica).
Questo incontro ha preso spunto dalla pubblicazione sul primo numero del ’98 della rivista diretta da Paolo Flores D’Arcais di due interventi sul tema: uno di Carlo De Benedetti e uno, più critico, di Pierfranco Pellizzetti, intitolato appunto "Marché, Monnaie, Globalité".
Impresa & Stato presenta oggi un resoconto di quell’incontro in cui si è affrontato un aspetto di grande rilievo per la società moderna.
La globalizzazione è infatti un fenomeno sempre più importante e coinvolge direttamente la vita delle imprese e delle istituzioni del mercato, come, appunto, la Camera di Commercio.
Per questa ragione ringraziamo nuovamente MicroMega per averci aiutato a svolgere una riflessione e un approfondimento con autorevoli protagonisti della realtà economica nazionale.

Carlo Sangalli: La CdC, una casa con finestre verso il mondo
La prima e reale sfida che le imprese italiane debbono affrontare è quella del cambiamento culturale; un cambiamento che interessa non solo l’organizzazione delle aziende, ma l’intero panorama istituzionale, associativo e politico che rappresenta l’ambiente naturale nel quale le imprese vivono e si sviluppano.
Per queste concrete ragioni la globalizzazione deve perdere quell’alone ideologico che pare a volte caratterizzarla, così da diventare un’occasione reale di crescita. Nell’esperienza della Camera di Commercio si ha spesso l’impressione, per la verità, che la globalizzazione sia un modo di essere delle aziende: un nome nuovo per qualcosa che è già conosciuta da tempo. Da sempre le imprese hanno percorso la vita di intensi e consolidati rapporti con le realtà produttive e commerciali internazionali. La dimensione verso l’esterno ha rappresentato uno dei fattori principali della tenuta e della crescita del nostro sistema economico. Quello che è cambiato, a mio parere, è piuttosto l’intensità del fenomeno e la sua rilevanza sempre più diffusa. La globalizzazione allora non interessa più solo le grandi imprese o le piccole e medie imprese più dinamiche o ambiziose. Tende invece a caratterizzare un numero sempre maggiore di attività economiche, tanto che oggi nessuno può immaginare di vivere in un mercato chiuso nei confini nazionali. 
Il fenomeno della globalizzazione tende poi ad espandersi agli altri ambiti di vita delle imprese e dei cittadini: al sistema dei servizi, per esempio, così come alle telecomunicazioni e alla finanza. 
Ma ciò non significa che sia stato troncato il cordone che lega l’impresa, soprattutto quella piccola e media, alla dimensione locale e al territorio in cui è insediata. La sfida culturale, allora, è proprio quella di costruire rapporti tra soggetti locali, imprese, istituzioni, e Associazioni che non si esauriscano nella dimensione locale, ma che si aprano sempre più verso l’esterno. Ed è in questa prospettiva che si sta muovendo la Camera di Commercio: essere un’autorevole e dinamica istituzione delle imprese, del mercato. Per fare questo dobbiamo rafforzare il radicamento sul territorio, sapendo però che per le imprese questa è solo una delle diverse dimensioni della loro attività.
La Camera di Commercio di Milano cerca in questo senso di essere autonomia funzionale, di essere cioè un ente locale moderno al servizio dell’interesse generale del sistema delle imprese milanesi. E le imprese milanesi hanno le proprie radici nella provincia, ma poi lavorano, vivono e si sviluppano fuori dal territorio. 
La Camera che noi vorremmo realizzare è una casa che ha grandi finestre che guardano verso l’Europa e verso il mondo. Ebbene, proprio il rafforzamento di questo ruolo porta il nostro ente ad avere una sempre maggiore attenzione verso l’internazionalizzazione e la globalizzazione. Non solo quindi per essere accanto alle imprese, ma per potere avere lo stesso loro linguaggio, perché la comunicazione tra cittadini e istituzioni è il primo requisito della democrazia, anche di quella economica. Solo facilitando la partecipazione democratica delle imprese, dei cittadini alla vita delle loro istituzioni è possibile procedere ad una reale, concreta riforma. 
Rafforzare i canali di accesso alle istituzioni significa soprattutto trasformare la Pubblica Amministrazione, renderla moderna, di livello internazionale, in grado di essere un sostegno reale per le imprese nelle loro sfide, soprattutto nel confronto con le imprese dei paesi concorrenti. 
Ecco perché, a mio avviso, un’istituzione non può affrontare il discorso della globalizzazione solo sul piano della promozione e del sostegno alle imprese che vogliono investire e commercializzare all’estero. Le istituzioni devono impegnarsi nell’essere innovative, efficienti e rappresentare un primo reale supporto alle imprese. Poi possono contribuire in un contesto di sussidiarietà al sostegno delle iniziative di internazionalizzazione.
Da questo punto di vista la Camera di Commercio di Milano ha deciso di inserire nella propria agenda politica alcuni punti fermi: accanto allo sforzo di innovazione della Pubblica Amministrazione, il contributo alla realizzazione di infrastrutture e il sostegno all’internazionalizzazione.
Siamo cioè convinti che in una competizione mondiale, più per aree che per nazioni, il ruolo di Milano deve tornare ad essere quello di locomotiva del paese. Una Milano che apre la strada al servizio della comunità nazionale. La responsabilità delle istituzioni milanesi e lombarde è certo rilevante perché si trovano ad operare in una realtà economico-produttiva consolidata e fortemente dinamica: in Italia, su 600 imprese che investono all’estero, più di 200 sono lombarde. Accanto alle poche grandi imprese, la maggioranza è formata da soggetti piccoli e medi che all’estero realizzano infrastrutture, entrano direttamente nel mercato con le proprie realizzazioni, con il proprio ingegno e la propria capacità imprenditoriale. 
Nel Nord-Est il 20% delle imprese esportatrici sono artigiane; nel Nord-Ovest, compresa l’ampia area della Lombardia, il 32% delle imprese che hanno meno di venti dipendenti esporta regolarmente. Nel biennio 94-96 è notevolmente cresciuto il peso delle piccole e medie imprese multinazionali con meno di 500 addetti: oggi rappresentano oltre il 75% del totale delle multinazionali italiane.
Di tale processo l’industria milanese, con le sue 68 imprese multinazionali investitrici, corrispondenti al 47% del dato lombardo, supera da sola grandi regioni come Piemonte e Liguria insieme. La provincia di Milano inoltre detiene ben il 35% del totale dei brevetti europei richiesti dalle industrie multinazionali italiane per il periodo 1978-1996; una quota in gran parte concentrata nei settori ad alta intensità tecnologica a testimonianza del rapporto tra innovazione e internazionalizzazione. 
I dati, anche quelli più recenti, non danno comunque il quadro completo del fenomeno. La priorità del momento è quella di migliorare il rapporto tra istituzioni locali e imprese: un rapporto che va interpretato favorendo il cambiamento di mentalità nelle imprese locali e aiutandole nel loro progetto di crescita verso l’esterno, verso la globalizzazione.

Federico Rampini: Le due facce della globalizzazione
La parola "globalizzazione" è un po’ abusata, forse è venuta anche a noia, ma rappresenta bene dei fenomeni vissuti ormai quotidianamente, con un’incidenza molto concreta. Quella più visibile sicuramente è la globalizzazione dei mercati finanziari. Diversi mesi fa iniziava con la svalutazione del Bat thailandese, moneta di cui molti ignoravano addirittura l’esistenza o il nome, una crisi finanziaria che dal Sud-Est asiatico si sarebbe propagata molto rapidamente nel mondo intero, provocando conseguenze anche per i risparmiatori italiani con il suo impatto sulla Borsa di Milano. Ci sono stati momenti in cui si è temuto che dall’Asia cominciasse un grande crac mondiale, poi superati. Ma l’interconnessione dei mercati finanziari internazionali è stata evidentissima. 
Del resto, il lungo rialzo della Borsa di Milano è frutto anche della straordinaria crescita dell’economia americana e dei mercati azionari americani. Tutto ciò ha ormai una rilevanza molto forte sulle famiglie italiane: la fuga dai BOT, dai titoli di Stato, si traduce nel fatto che quotidianamente migliaia, decine di migliaia di risparmiatori italiani, entrano nella loro banca, vanno al Borsino, all’Ufficio Titoli e si sentono proporre fondi comuni specializzati in obbligazioni dell’area Marco, fondi comuni specializzati in azioni americane e così via. 
È evidente che ciascuno di noi ormai tende ad avere un portafoglio di risparmiatore globale e questo è uno degli aspetti più evidenti. A breve, con la nascita della moneta unica europea, saremo dentro un grandissimo mercato finanziario dove veramente non ci sarà più nessuna barriera.
All’estremo opposto ci sono fenomeni come quello che in America è ormai diventato il simbolo negativo della globalizzazione, il caso Nike. In America è montata una campagna organizzata da movimenti di opinione e per i diritti civili per il fatto che si è scoperto che gran parte delle scarpe fabbricate da Nike, della cui produzione l’azienda è leader mondiale, sono prodotte in fabbriche in Cina e in India, con uso di mano d’opera infantile ai limiti dello schiavismo. Questa è l’altra faccia della globalizzazione.
Su questi temi MicroMega, nel primo numero del ’98, ha ospitato due interventi: quello di Carlo De Benedetti, che è piuttosto un elogio della globalizzazione, e quello di Pierfranco Pellizzetti, intitolato Marché, Monnaie, Globalité, che parafrasa la rivoluzione francese e che è invece l’intervento più critico sulla globalizzazione. Da qui partono gli interventi dei partecipanti a questa tavola rotonda.

Paolo Flores D’Arcais: Domande in attesa di risposte adeguate
Ci sono alcune domande da porre, assolutamente ingenue e non da addetto ai lavori. Il cittadino comune, quello che sa poco di economia, viene ormai bombardato costantemente da questo termine "globalizzazione", presentato generalmente in termini più che apologetici, come qualcosa che ormai rappresenta l’orizzonte ineludibile della nostra esistenza, il nostro futuro.
Ci sono una serie di obiezioni che nascono dall’interno del mondo degli affari e del mondo dei manager; ma ci sono anche le domande a cui in genere non solo non si dà risposta, ma che si ritiene che non sia neanche necessario considerare, perché troppo ingenue. Nella testa di tantissime persone si agitano questi interrogativi, anche perché le decisioni economiche cominciano ad avere sempre più influenza sulla vita quotidiana di tutti, e in modo molto più forte che in passato. Basti vedere le vicende recenti dell’Euro e di quello che hanno significato nel dominare e condizionare parti importanti della vicenda politica in ciascun paese.
La prima di queste domande riguarda il modo in cui viene sentita l’idea di globalizzazione in genere dal non esperto. In termini molti semplici: il nostro paese ormai è il mondo, il nostro mercato ormai è il mondo, siamo nel villaggio globale e così via. Questa idea in fondo non è nuova, solo che si presenta in termini molto diversi dal passato. L’idea del cosmopolitismo è all’origine del mondo moderno, solo che andava insieme all’idea del progresso civile e addirittura dell’espandersi della tolleranza. 
Voltaire, in un passo molto famoso delle sue lettere dall’Inghilterra, sostiene che le varie persone che onorano il loro Dio in forme diversissime, dal cattolico al presbiteriano, all’ebreo, al musulmano, ecc., sanno che queste differenze hanno alle spalle sanguinosissime guerre di religione. Poi si recano tutti insieme a onorare alla Borsa il nuovo Dio, e lì contano alcune regole in cui tutti si ritrovano e che tutti affratellano.
Le domande ingenue riguardo alla globalizzazione sono proprio sulla possibile divaricazione e contrasto fra cosmopolitismo e progresso civile. Insomma: globalizzazione significa che le stesse tecniche, lo stesso tipo di mercato, le stesse regole possono valere ovunque, che spingendo semplicemente un bottone di un computer si possono trasferire in tempo reale capitali enormi un tempo inimmaginabili? 
Ma tuttavia forse vi è l’altro lato della medaglia in cui altre cose non si globalizzano affatto, come le condizioni di lavoro con i loro diritti, con le loro garanzie e con le loro sicurezze, anche fisiche, che sono state conquistate nell’industria occidentale. Non si globalizzano affatto le condizioni minime di welfare che vengono considerate assolutamente indiscutibili nel mondo occidentale anche da parte dei governi più conservatori. Non si globalizzano affatto le condizioni di sfondo socio-politico, che riguardano quindi non solo il lavoro, ma la vita civile.
Mentre si globalizzano anche le possibilità di crimini economici, non si globalizzano affatto le possibilità di perseguirli. Per fare un esempio di cronaca, in Italia recentemente si è parlato delle difficoltà delle rogatorie all’estero, dei paradisi fiscali, ecc. 
D’altro canto, hanno fatto scalpore le denunce di alcuni gruppi, soprattutto in America, che hanno messo sotto accusa alcune industrie in sostanza per due questioni: lavoro minorile a livello di schiavismo e utilizzazione di detenuti politici, soprattutto in Cina. 
Tuttavia questi sono i casi-limite. La normalità è sicuramente che si producono merci in condizioni di globalità, che possono circolare ovunque insieme ai capitali finanziari. Tuttavia, nella maggior parte ormai dei paesi dove si producono queste merci, le condizioni di lavoro quotidiano sono tali da fare impallidire i libri azzurri del primo Ottocento, in cui si descrivevano le condizioni operaie a Manchester dovute al governo inglese dell’epoca
È solo una questione di tempo? Questo scarto è ottimisticamente destinato a ridursi sempre più? Quindi, attraverso la globalizzazione dei mercati e della vita finanziaria si globalizzeranno anche le condizioni di vita di lavoro e civili dell’Occidente?
Oppure le due cose sono assolutamente separate e, da questo punto di vista nulla si può fare? Bisogna allora che prendiamo comunque la globalizzazione dei mercati in quanto tale con una sorta di lucido cinismo, considerando moralismo la pretesa di globalizzare anche le condizioni dei diritti di lavoro e civili?
O addirittura proprio questo scarto è condizione per il funzionamento della globalizzazione a livello mercantile e finanziario?
Se queste questioni non troveranno risposte adeguate potranno, in qualsiasi condizione di crisi, alimentare una sorta di neo-luddismo contro la globalizzazione: un rifiuto di questa fase della vita economica e tecnica di cui in certi settori del mondo culturale già si sentono delle avvisaglie. 

Corrado Passera: Globalizzazione, competitività e coesione sociale
La globalizzazione è una corposa e dirompente realtà, nei confronti della quale è perfettamente inutile schierarsi a favore o contro. Dobbiamo interrogarci sulle sue implicazioni - positive e negative - per paesi come l’Italia e per macroregioni come l’Europa. E dobbiamo mettere in atto le iniziative che ci consentano di coglierne le opportunità, invece di esserne travolti.
C’è anche un’ideologia della globalizzazione, secondo la quale ci avviamo verso un modello unico di società, dove tutto deve adeguarsi a tre feticci: mercato, profitto e moneta. Questa affermazione non ha senso: per aver successo nel mercato globale bisogna prima di tutto essere capaci di distinguersi, facendo leva sulla combinazione dei propri specifici fattori competitivi e innovando costantemente. 
"Fare impresa" nel mercato globale diventa sempre più difficile: la concorrenza è sempre più aspra; crescere costantemente la forza del consumatore; la velocità con cui cambiano le esigenze dei clienti mette sotto pressione le aziende, che devono rispondere altrettanto rapidamente, rivoluzionando e migliorando prodotti e organizzazioni; assistiamo al passaggio da settori merceologici ben definiti e geograficamente delimitati al continuo ridisegno dei settori, dei sistemi di business e dei mercati. I principali beneficiari di questa trasformazione sono soprattutto i consumatori, ma ne ha vantaggio anche la società nel suo complesso, perché da questa dinamica prendono slancio la crescita e lo sviluppo. 
Sarà sempre più difficile anche fare politica. Lo Stato nazionale vede diminuire gli ambiti della sua sovranità, mentre aumenta il potere degli organismi internazionali. Contestualmente, diminuisce la possibilità di incidere sui propri "sistemi" interni, dalla fiscalità alla formazione dei redditi, all’allocazione degli investimenti, perché i mercati finanziari giudicano, reagiscono, talvolta addirittura impediscono il "libero esprimersi" della volontà politica statuale. Ciò non vuol dire che si restringe il ruolo della politica. Significa che anche la politica deve modificarsi e deve focalizzarsi sulla costruzione di sistemi-paese capaci di reggere la concorrenza di altri sistemi-paese. 
Oggi l’Italia è assente da quasi tutti i settori strategici di grande sviluppo nel futuro; è terreno di conquista nei settori tradizionali; il nostro tasso di attività è fra i minori in Europa, mentre il tasso di disoccupazione è fra i più alti; abbiamo poche aziende di statura continentale e globale. Di quale politica economica abbiamo dunque bisogno?
Il successo nel lungo periodo di un paese, la sua capacità di creare ricchezza e lavoro, non dipende da un solo elemento. Prendere di mira solo il costo del lavoro, per esempio, risolve poco. Il successo duraturo deriva dalla presenza contemporanea di competitività e coesione sociale. 
La competitività di un paese è sempre più funzione di elementi come infrastrutture, competenze, innovazione, flessibilità, stabilità e credibilità delle istituzioni, leggi e regole, fiscalità su investimenti, profitti, capitale e lavoro. È sulla base di questi fattori che le imprese decidono dove localizzare gli investimenti, creando così occupazione. Se l’Italia non si muoverà in questa direzione, non solo non attirerà investimenti, ma assisterà a una crescente delocalizzazione dei suoi impianti. 
Per essere competitivi, è necessario essere concorrenziali al proprio interno. Sono ancora troppi i settori "protetti", da liberalizzare e aprire al mercato. Così si darà spazio a nuovi operatori e il paese riceverà veri benefici dalle nuove privatizzazioni, che altrimenti darebbero origine a pericolose posizioni dominanti o addirittura a monopoli privati.
Infine, va rivista la politica degli incentivi alle attività produttive. Lo Stato non può più effettuare trasferimenti "a pioggia". L’intervento pubblico deve dirigersi dove è davvero strategico: nelle infrastrutture, nella ricerca, nella qualificazione delle persone, nella corretta amministrazione. 
Anche la coesione sociale ha un’importanza enorme. È un valore di cui il nostro paese dispone in misura maggiore di altri. Ed è anch’essa frutto di numerosi fattori, culturali e sociali: partecipazione democratica e civile, sistema dei valori, solidità della famiglia, capacità di ridurre l’emarginazione, e altri ancora. Istruzione, sanità, previdenza, assistenza - ciò che chiamiamo Welfare State - ne sono componenti fondamentali. Spesso facciamo l’errore di considerare tutti questi elementi come naturali, invece che conquiste della nostra civiltà. E come tali, da tutelare: c’è infatti il rischio che sull’altare della globalizzazione larga parte di esse vada perduta. Bisogna innovare anche in questo campo, perché spendiamo male e i cittadini ricevono servizi inadeguati. Dobbiamo invece investire di più nel cosiddetto Welfare delle opportunità e nell’employability. 
Dalla globalizzazione l’Italia, per la sua storia e per la sua struttura sociale ed economica, ha teoricamente più da guadagnare che da perdere. Perderemo questa opportunità solo se non sapremo rafforzare contemporaneamente competitività e coesione sociale. 

Luigi Abete:  Verso la globalizzazione, regionalizzazione e integrazione economica
La mancanza di consequenzialità dei rapporti di causa-effetto tra gli eventi è un misunderstanding classico della cultura italiana, perché si confonde la precondizione con la politica economica. Si tratta in effetti di due fasi distinte. In questi anni si è fatta un’attività importante di risanamento perché questa era la precondizione per fare una politica economica in termini di sviluppo e in termini di allocazione libera delle risorse. In mancanza di questa condizione di base, la scelta di allocare le risorse era una scelta impossibile, un’utopia o un inganno.
Il problema vero è che nel passato c’era chi voleva passare alla fase due saltando la fase uno. Oggi l’approccio alla fase due è troppo generico, perché non ci si pone il problema di quali politiche fare per promuovere lo sviluppo: se lavorare su contesti di politica economica e di politica fiscale che incentivino un intervento orientato a determinati servizi, ovvero se bisogna lavorare su politiche più generali e, quindi, inevitabilmente più generiche, "a pioggia". Oggi la fase due viene interpretata e affrontata in termini di questo tipo: "ci sono tremila miliardi che sono venuti in sopravvenienza attiva rispetto al progetto di vendita della Telecom; dove li mettiamo? Chi li gestisce?". Questa non è una scelta di politica economica, è una scelta, più o meno condivisibile, di potere. Bisogna essere meno pessimisti sul fatto che ci debba essere un pensiero unico. Non c’è il pensiero, se vogliamo usare questo termine, e perciò si confondono iniziative che sono del tutto estemporanee e legate a fattori contingenti.
Ciò detto, possiamo affermare che abbiamo oggi un sistema economico e sociale che va verso la globalizzazione, ma non siamo ancora in un processo che si può definire di globalizzazione. Siamo in un processo di regionalizzazione allargata, promosso dalla moneta unica europea che ha prodotto effetti sinergici con altre aree economiche con processi altalenanti. In questo senso l’Europa è stata la prima a capire che questo processo si sarebbe messo in atto e lo ha materializzato negli accordi e poi nelle politiche di Maastricht. Si tratta di un processo di regionalizzazione nell’ambito di processi di integrazione economica aperti tra di loro e che quindi introducono elementi di globalizzazione.
La globalizzazione è la fase successiva del processo che nasce da questo fenomeno di regionalizzazione delle economie, che ha portato, comunque, elementi positivi. Non ci si può dimenticare, infatti, che questa fase, per quanto convulsa e per quanto contraddittoria in alcune sue manifestazioni, ha allargato le potenzialità di sviluppo ad aree che ne erano estranee, anche se ciò comporta alcuni rischi.
Una delle regole su cui si muove il processo di liberalizzazione dei mercati, e che legittima da un punto di vista morale questo fenomeno, riguarda il fatto che, nel lungo termine, questo processo introduce fattori all’interno dei paesi che non rispettano regole capaci di mettere in moto reazioni di riduzione del gap. Questi fenomeni, però, devono essere in qualche modo indirizzati.
A questo fine, certamente, non bastano le regole. Le regole sono una delle gambe su cui si reggono i processi di coesistenza di una società civile. Le altre due gambe sono i progetti e i comportamenti. Un tavolo deve avere almeno tre gambe, se ne manca una il tavolo non si regge. E le tre gambe devono essere equilibrate, quindi anche le regole non possono essere sempre le stesse. Le regole vanno adeguate al processi; le regole servono per accompagnare il processo. Questo vale per i paesi occidentali, vale per i processi difficili, come può valere per situazioni che sono culturalmente ed economicamente del tutto diverse. Il problema è quello di individuare a livello di comunità internazionale come accompagnare i processi di liberalizzazione in modo tale che esplichino al massimo i loro effetti positivi.
Bisogna, infine, ricordare che in questo processo di globalizzazione tendenziale ci sono alcuni fatti nuovi importanti che fanno emergere valori prima sottovalutati. Si pensi, per esempio, all’impresa come comunità di interessi; paradossalmente la competizione più lunga valorizza le identità comuni anziché mettere in evidenza le differenze specifiche. La consapevolezza, poi, che la competizione obbliga tutti, il pubblico e il privato, a esser più efficienti genera una responsabilità diffusa, prima inesistente. E infine, con il superamenti di una visione statica della società, la destra e la sinistra sono due concetti che non esistono più: anche noi continuiamo ad usare queste parole perché non ne abbiamo ancora trovate altre più idonee al nuovo contesto di cambiamento. Oggi la globalizzazione apre tematiche del tutto diverse, per cui i punti di centralità nel governo della società si spostano e diventano di difficile valutazione.
Quali saranno allora le vere discriminanti nel lungo termine? Resteranno le tre grandi civiltà, quella occidentale, quella orientale e quella islamica. Questo sarà, alla fine del percorso della globalizzazione, il vero problema che noi oggi vediamo solo sul piano micro: quanti sono gli emarginati in Italia, quanta gente fuori dalla società? Se fra dieci o venti anni queste tre grandi culture non troveranno un modo per ricolloquiare tra di loro, esse saranno tre paratie stagne che correranno il rischio di complicare i processi di vita comune e civile molto di più di quello che noi oggi immaginiamo.

Pierfranco Pellizzetti:  Aprire una riflessione critica, senza toni "da stadio"
Si può costruire un approccio critico nei confronti della globalizzazione e non parlarne in una logica da tifosi allo stadio? Per mettere le mie carte in tavola parto dalla parafrasi di una pagina scritta dall’intellettuale che ha marcato i tre quinti di questo secolo con più forza; si tratta di John Keynes, il quale nel ’25 faceva una conferenza dall’emblematico titolo "Perché sono liberale" in cui diceva: se dovessi stare da qualche parte io starei dalla parte della borghesia colta. Parafrasando Keynes, parlo stando dalla parte dei produttori. Una volta dichiarata la mia "parte", devo precisare altresì che dal mio punto di vista i produttori in materia di globalizzazione non hanno capito qual è il loro interesse rettamente inteso. 
Nella globalizzazione ci sono degli aspetti di discontinuità e degli aspetti di continuità. Certamente un aspetto di discontinuità è la compressione della dimensione spazio-temporale che è avvenuta in questi anni a seguito di alcune importanti rivoluzioni: quella dei trasporti riduce le distanze fisiche e quella informatica riduce le distanze comunicazionali. Ma poi ci sono forti elementi di continuità, perché Braudel ci spiega che già dal XIV secolo l’occidente cerca di costruire uno spazio sistema mondo. Si potrebbe dire che a questo punto l’operazione si è conclusa e ha coperto l’orbe terracqueo, ma la globalizzazione non è soltanto questo. 
La globalizzazione è anche un’operazione ideologica che utilizza certi materiali, che produce un sottoprodotto che è stato chiamato con nome e cognome, il pensiero unico, ma che soprattutto è la copertura ideologica della crescente finanziarizzazione dell’economia. La domanda da fare ai produttori e agli imprenditori è questa: in che misura il loro interesse rettamente inteso coincide con gli interessi della finanza? Quanto la logica degli imprenditori che ragionano sul medio-lungo periodo è sovrapponibile alla logica a breve, brevissimo della finanza? 
È stato detto che la finanziarizzazione non determina tanto la compressione dei ceti medi, quanto la compressione dell’intera area centrale della società. È stato calcolato che negli ultimi venti anni, l’area centrale della società a livello mondiale è passata da un miliardo a oltre due miliardi di persone. Forti segnali ci dicono che questo fenomeno è in piena evoluzione contraria. Questo segnala l’interruzione del patto su cui si sono costituiti gli equilibri di questa seconda metà del secolo, cioè la promessa mantenuta di aumenti della capacità inclusiva del sistema.
Un’altra riflessione riguarda il problema del rapporto tra meccanismo economico e modello sociale. Adam Smith nel 1776, in quel talmud dei valori del mercato che è La ricchezza delle nazioni, sostiene che senza una base sottostante al mercato, che fuoriesce dalla sua logica, ma che soprattutto promuove valori di solidarietà e di socialità, il mercato stesso non funziona. 
Queste rotture delle legature sociali portate avanti da un lato dalla compressione dell’area mediana della società e dall’altro dal prevalere degli interessi finanziari, in che misura sono interesse rettamente inteso degli imprenditori? Certamente può essere interesse della comunità cosmopolita della finanza, degli analisti simbolici, degli intermediari strategici; ma non credo che questo sia interesse rettamente inteso dei produttori in generale. 
Il vero problema è che stanno saltando tutte le legature sociali, cioè sempre meno si fa società, sempre di più si stinge nella comunità. È un fenomeno regressivo. Il problema di fare società e costituire legature è un problema di tutto il mondo che ruota attorno alla produzione. 
In passato due erano gli ambiti in cui si costituivano legature sociali: da una parte la politica, dall’altra il lavoro. Queste dimensioni in cui si fa società sono entrambe avvitate su se stesse. Questo dipende dal passaggio dalla modernizzazione semplice a quella complessa ; un fatto che pone una serie di sfide, facendo prevalere il relazionale sul meccanico e facendo crescere la riflessività sociale, per cui i vecchi modelli cibernetici input-output non tengono più. Le possibilità del superamento della crisi dei modelli organizzativi nel lavoro e nella politica hanno due vie di uscita. La prima consiste nel recuperare tutti i portati positivi della nuova modernizzazione complessa e quindi nell’aumentare il tasso di democrazia. Bisogna coinvolgere il lavoratore creando quelli che nella politica si definiscono i nuovi spazi di partecipazione, aprire nuovi canali democratici di coinvolgimento informale nella decisione pubblica. L’altra via è quella di eliminare il problema organizzativo azzerando l’organizzazione ed eliminando il problema del lavoro rendendolo just in time, rendendo la politica autoreferenziale. La mia impressione è che stia prevalendo la seconda ipotesi a tutti i livelli, con grossi problemi involutivi. 
In questo scenario in cui il lavoro e la politica stentano a riprodurre leganti sociali c’è una dimensione che dà segni di controtendenza: lo sviluppo dell’associazionismo. Per esempio, tutte le sedi della rete camerale stanno diventando luoghi dove si sta ridisegnando la rappresentanza ; il mio rammarico è semmai la scarsa attitudine strategica nel primo soggetto dell’associazionismo economico, la Confindustria. 
Una riflessione sempre di più critica e sempre meno da stadio ci farebbe capire che la triade che ha fornito il titolo a questa discussione, cioè Marché, Monnaie, Globalité, non ha certo la valenza positiva di quella ben più antica e ben più veneranda della Liberté, égalité, Fraternité, cioè le stelle polari della rivoluzione borghese.

Silvio Scaglia: Cambiare il rapporto tra capitale e impresa
Che la globalizzazione dei mercati sia un fenomeno ormai in corso e che comporti una serie di grandi cambiamenti, sono fatti che bisogna accettare. E quando si vive un momento di cambiamento di tale portata è indispensabile ragionare in maniera radicale e porsi riferimenti molto precisi, anche correndo il rischio di essere scambiati per semplicisti. La globalizzazione è un fenomeno che nasce dal mondo finanziario e che proprio da quest’ultimo riceve oggi il maggior impulso. Ebbene, grazie a questo momento di trasformazione, oggi possiamo vedere un’enorme opportunità: cambiare radicalmente il rapporto tra capitale e impresa. 
In Italia il capitale è sempre stato considerato storicamente uno strumento di controllo di un’azienda. In un mercato globale ci si rende conto, giorno per giorno, che i soldi non sono tutti uguali: ci sono capitali che cercano il controllo delle aziende, e ci sono altri capitali che cercano rischi calcolati e ritorni attraenti, dimostrando meno interesse per il controllo delle società. Mentre nel mondo sono presenti in misura maggiore capitali di questo secondo tipo, il nostro paese ha vissuto una situazione diversa: a causa del forte indebitamento pubblico una grande percentuale del capitale si è indirizzata verso i titoli di Stato.
Oggi, approfittando del momento di trapasso verso la globalizzazione si può cambiare questa situazione, utilizzando i capitali che abbiamo definito del secondo tipo - cioè quelli che non sono interessati al controllo di un’azienda, ma alla rendita che il mercato può offrire - per alimentare lo sviluppo italiano immettendo considerevoli cifre sul mercato. Questo tranquillizzerebbe quelle voci preoccupate che temono che la globalizzazione dei mercati finanziari comporti il rischio di una fuga all’estero del risparmio italiano. Cresce la paura che si investa all’estero, finendo per alimentare lo sviluppo in altri paesi senza creare opportunità di lavoro nel nostro. Ma questo può non essere vero e, al contrario di quanto temuto, può essere il nostro paese ad attrarre i capitali dal resto del mondo. Il finanziamento di Omnitel potrebbe diventare l’esempio da seguire e il primo caso di un piano sistematico di finanziamento delle imprese per il nostro paese.
Ma si può anche guardare, per esempio, alle privatizzazioni in un modo nuovo. Si può immaginare la prossima privatizzazione collocata sui mercati finanziari mondiali; e guardare con più fiducia all’operazione perché, se regolamentata da norme precise e condivise, darà buoni frutti: i mercati stessi potranno rispondere con convinzione e addirittura attribuire più valore alle aziende da privatizzare, oppure possono partecipare ad iniziative imprenditoriali, come è avvenuto in questi ultimi anni nel caso di Omnitel. 
Per attrarre capitali che cercano ritorni sicuri e rischi controllati occorrono le regole. Regole che poi, fondamentalmente, si riassumono nella certezza della trasparenza. Perché chi vuole investire vuole avere una percezione chiara dei rischi che è necessario correre e delle opportunità che si possono cogliere. Dove trasparenza spesso vuol dire responsabilità diverse nella gestione dell’azienda: i manager distinti dagli imprenditori. I manager hanno maggiori doveri di rispetto della trasparenza, gestendo capitali che vengono impegnati da altri, dagli imprenditori.
E le regole sono necessarie anche allo sviluppo di una reale concorrenza tra manager. Concorrenza fra manager e concorrenza fra imprese come meccanismo che facilita il mercato, che lo lascia libero di agire. E che lascia liberi gli azionisti di dare il proprio voto di fiducia o di sfiducia nei confronti di una squadra di management, vendendo o comprando le azioni di una società. E quindi assicurando poi le risorse che servono a questa società.
L’operare a breve termine tipico di certa finanza, che tra l’altro viene così spesso demonizzato, può essere superato. Quanto più è lungo il periodo di fiducia che i mercati finanziari accordano a un’azienda, tanto più cresce la capacità della squadra di manager di essere trasparente negli impegni che prende e di essere credibile nella sua capacità di rispettarli. E, nello stesso tempo, chi è più credibile può più facilmente assumersi impegni a lungo termine. Quanto più si consente agli investitori finanziari di abbandonare un progetto, quando necessario, limitando i danni e vendendo le proprie azioni, tanto più si offrono opportunità ad altri investitori di valorizzare l’azienda e sostenere a loro volta progetti a lungo termine.
Parlando di trasparenza del management, si parla intrinsecamente di trasparenza delle regole di corporate governance. Ma c’è un altro importante tipo di trasparenza: quella dell’ambiente regolatore. È importante che le regole del paese in cui si investe siano certe. In Italia, per parlare di un settore che conosco bene, si è sofferto moltissimo dell’ambiguità normativa e dei ritardi di adeguamento legislativo in un mercato realmente competitivo come le telecomunicazioni.
Queste difficoltà pesano soprattutto sugli investitori internazionali che hanno scelto di investire in Italia oggi; difficoltà che rischiano di pesare sullo sviluppo non solo delle aziende, ma di tutto il paese.
Per finire, solo una nota sulle dimensioni delle opportunità che abbiamo di fronte: le quattro maggiori banche mondiali oggi gestiscono assets per cifre comparabili al prodotto interno lordo italiano. Omnitel è nata e si è sviluppata grazie a un investimento iniziale che, tra debito e capitale, si aggira intorno ai 4 mila miliardi di lire. Si è così creata un’azienda che direttamente e indirettamente oggi dà lavoro a 10 mila persone e sta crescendo continuamente. Nei prossimi anni possiamo con un certo ottimismo ipotizzare di attrarre in Italia capitali nell’ordine di cento volte tanto. Tutto questo, se riusciamo a evolvere la nostra cultura nella giusta direzione: non serve combattere la globalizzazione perché comunque il paese ne verrebbe investito, ma è necessaria una trasformazione culturale che consenta di cogliere tutte le opportunità che la globalizzazione dei mercati ci offre.

Pietro Marzotto: La sfida della regolazione
La globalizzazione è un fenomeno che interessa l’intero pianeta e tutte le sue popolazioni. Essa può giovare a riequilibrare verso l’alto i divari tra ricchi e poveri. Ma i processi di globalizzazione non sono scevri da rischi, come del resto dimostra la recente crisi in alcuni Paesi asiatici. Ciò che deve essere pure chiaro è che ai processi di globalizzazione non ci si può sottrarre: piaccia o no, la globalizzazione, a seguito degli straordinari progressi fatti nel mondo della comunicazione in senso lato, è divenuta un ineluttabile fenomeno naturale che non si può evitare. Una nazione, o anche un gruppo di nazioni, che volesse sottrarsi ai processi di globalizzazione sarebbero destinati, in un sistema chiuso, a impoverirsi inevitabilmente.
Mi pare che Pellizzetti abbia posto in modo giusto una problematica: come in tutti i grandi cambiamenti, come in tutte le grandi fasi turbolente, ci sono dei nodi da sciogliere. 
De Benedetti nel suo saggio su MicroMega parla delle sfide poste dalla globalizzazione; tra queste include, e mi pare la più importante, quella della regolazione. Ovvero di come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le autorità sovranazionali, sapranno dare delle regole. Perché il mercato è uno strumento straordinario, non rinunciabile, però il mercato va regolato. E regolare il "mercato globale" pone problemi nuovi. 
Si chiedeva Pellizzetti in quale misura l’interesse dell’impresa coincide con quello della finanza. Ci sono tante imprese finanziarie il cui interesse risiede solo nella finanza. Per le imprese prevalentemente manifatturiere la finanza è invece strumentale alle attività progettuali, produttive e commerciali. 
Pellizzetti nel suo articolo afferma che dovremmo preoccuparci molto della situazione degli Stati Uniti e intende dire che alla fine noi stiamo meglio, perché negli Stati Uniti c’è stato l’impoverimento di intere categorie. A me pare invece che è meglio avere degli occupati a livello di reddito più basso che dei disoccupati. Questo riguarda l’Italia e gli italiani: quando si dice che al Sud abbiamo il 24% di disoccupazione, per fortuna è un dato gonfiato perché c’è il lavoro sommerso. Intendiamoci, non che io consideri il sommerso una cosa buona. Però come cittadino, se devo dire la verità, preferisco avere un milione di lavoratori sommersi piuttosto che un milione di disoccupati in più. E anche per loro penso che sia meglio. 
Ben diversa è la situazione del lavoro nero del Nord, che è quello dei prepensionati, di coloro che simulano di essere part-time e invece lavorano a tempo pieno, degli straordinari fuori busta.
Lo Stato dovrebbe intervenire con un’energica azione per sopprimere queste illegalità, che sottraggono gettito contributivo e fiscale, creano concorrenza sleale, contribuiscono a mantenere su livelli terribilmente elevati la pressione fiscale e contributiva sui cittadini e sulle imprese oneste.
Ma nel Sud, dove peraltro si concentra la grande massa del lavoro nero, occorre capire, per usare gli opportuni strumenti di intervento, quanta parte di questi posti di lavoro irregolari verrebbe meno ove si verificasse una "emersione".
Può sembrare che tutto questo non c’entri niente con la globalizzazione, ma non è così. Poiché in un mercato globale, se esistono tra diverse aree alti divari nella produttività dei fattori, non può esserci lo stesso livello di salario e di welfare state.
Allora, noi Europei dovremo porci il quesito se possiamo competere nel villaggio globale con gli Stati Uniti e con il Giappone, essendo le nostre produzioni gravate da una pressione fiscale e contributiva assai più elevata della loro.
Abbiamo vantaggi di produttività dei fattori che giustificano tale situazione? No di certo, tutti gli indicatori lo dimostrano! 
Non possiamo dunque sostenere una spesa pubblica dell’ordine del 48% sul P.I.L. e una pressione fiscale del 45% e confrontarci con grandi Paesi moderni, con modelli industrialmente avanzati, forti nella ricerca tecnologica e nell’innovazione di processi e prodotti, all’interno dei quali la pressione fiscale e contributiva è dell’ordine del 32-34% sul P.I.L.
Ecco quindi che in un mercato globale il primo problema europeo diventa quello di una revisione del welfare state. 
Passera ha detto: noi abbiamo una forte coesione sociale, che è figlia del welfare state. Ma dobbiamo intenderci su questa espressione.
Consentire ai cittadini di 55 anni di andare in pensione è welfare state? Oppure fornire servizi pubblici, sia pure poco efficienti - penso alle ferrovie, alle poste, ecc. -, a prezzi fortemente inferiori ai costi o ai corrispondenti prezzi degli altri Paesi europei, è fare stato sociale? No.
Io credo che per progredire e competere nel mercato globale noi dobbiamo immettere sempre più competizione nel nostro mercato, anche nelle componenti che finora non sono state esposte alla concorrenza.
Forte moderazione salariale, ma aumento del potere d’acquisto determinato dai benefici effetti della competizione, scuola e formazione efficienti, stimoli all’innovazione, uscita dello Stato dall’economia, competizione, competizione, competizione... Queste sono le regole per progredire in un mercato globale.