Impresa
& Stato n°44-45
LE CAMERE PARTI CIVILI
NEI PROCESSI PER REATI ECONOMICI
di
Renato
Palmieri
L' articolo 2.5 della
legge 580: i diritti e gli interessi di produttori e consumatori di cui
le Camere di Commercio devono guarire la tutela.
La
parte civile è un soggetto quasi sempre antipatico. S’introduce
di soppiatto nel processo penale mentre vi si discute di elevati equilibri
sociali (sacrificare o no la libertà personale di qualcuno, che
si assume abbia leso con un’azione criminosa l’interesse pubblico alla
non disgregazione del corpo sociale), pretendendo di farvi valere diverse
e un po’ grette questioni di denaro. Pretende, poi, di ricevere un trattamento
simile a quello delle altre parti processuali (l’imputato e il Pubblico
Ministero). Vuole dire la sua. E quando ha intascato i quattrini che persegue
saluta tutti ed esce dal processo.
Per questi motivi il Legislatore
del 1988 (l’autore, cioè, del nuovo codice di procedura penale)
ha ritenuto di manifestare netta avversione per questo pur classico soggetto
processuale, relegandolo in un ruolo ridotto (ad esempio, esso nulla può
dire né ottenere in caso di patteggiamento, soluzione ormai naturale
per una gran quantità di processi, altrimenti non fattibili per
mancanza di tempo e di denaro). Quanto alla prassi giudiziaria, non è
andata meglio. Nella ribollente stagione di Mani pulite le parti civili
presenti nei processi a rappresentare gli Enti di cui gli imputati erano
stati amministratori infedeli sono state spesso viste non come preziose
collaboratrici per la ricostruzione documentale della verità, ma
come un ostacolo agli accomodamenti patteggiatorii e, al limite, come una
sorta di "ladri della scena". Succede.
Ma sul punto bisogna dire
che il legislatore è stato, soprattutto, contraddittorio.
Il nuovo codice di procedura
penale, infatti, ha strettamente vincolato la facoltà di costituirsi
parte civile nei processi penali alla qualità di danneggiato dal
reato. Non a quella, si badi bene, di "persona offesa" (portatrice, cioè,
di quell’interesse "tipico" per difendere il quale la legge incrimina un
certo reato), bensì proprio a quella di soggetto qualsiasi che dal
reato deriva un qualsiasi danno risarcibile, anche diverso dalla lesione
dell’interesse tipicamente offeso dall’illecito e protetto dalla norma
incriminatrice. Proprio per ottenere la rifusione di questo danno è
consentito al danneggiato (e non solo alla persona offesa) di costituirsi
parte civile nel processo penale. Si tenga presente che danneggiato è,
sempre e soltanto, colui che dal reato ha visto ledere non un suo qualunque
interesse ancorché legittimo, bensì un vero e proprio "diritto
soggettivo" (e cioè - per intendersi - un interesse strutturato
dall’ordinamento in modo particolarmente adatto alla sua più estesa
ed intensa protezione).
Per la verità, questo
principio vigeva già sotto l’impero del codice di procedura precedente.
Ma nel frattempo - complice l’emergere di una forte e condivisa avversione
verso certi reati offensivi di "interessi diffusi", diversi e meno protetti
dei diritti soggettivi (i reati ambientali, ad esempio, o quelli contro
la sicurezza del lavoro) - si era per qualche lustro affermata una prassi
giurisprudenziale favorevole, per ragioni pratiche o politiche, a che gli
interessi stessi fossero rappresentati nel processo penale da soggetti
che in qualche modo ne fossero "esponenziali" (ad esempio, e a seconda
dei casi, le associazioni ambientalistiche o i sindacati), malgrado non
ne fossero essi stessi direttamente lesi sul piano dei loro diritti soggettivi.
Parallelamente, si era affermata (e tuttora si afferma) l’esistenza di
"diritti soggettivi pubblici" (tipo quello che si riconosce ad ogni Ente
territoriale in relazione al rispetto delle norme inerenti alla gestione
del territorio): operanti, cioè, in ambito pubblicistico, fuori
dal terreno strettamente privatistico sul quale nei secoli era sorta e
si era strutturata la categoria dei diritti soggettivi tradizionali.
A tutto questo il nuovo
codice di procedura penale, preoccupato dal proliferare di associazioni,
comitati e gruppi di ogni genere troppo interessati ad entrare, anche rumorosamente,
nel processo penale, ha posto un deciso fermo sancendo il ritorno ad un
legame molto stretto e rigoroso fra la facoltà di costituirsi parte
civile e la qualità di soggetto danneggiato dal reato (e quindi
titolare dei diritti soggettivi, di natura privatistica o pubblicistica,
lesi, sia pure indirettamente, dal reato). Di più, ha introdotto
un nuovo istituto processuale ad uso specifico degli Enti rappresentativi
di interessi diffusi: l’intervento nel processo penale, posizione in qualche
modo simile a quella di una parte civile ma ulteriormente, e fortemente,
attenuata e infragilita. Infine, il legislatore dell’88 ha ribadito questo
nuovo sistema con una disposizione d’attuazione inequivoca (l’art. 212
disp. att.) secondo cui ogni norma, che anche fuori del codice di procedura
avesse in precedenza riconosciuto (magari solo in seguito ad una permissiva
interpretazione giurisprudenziale) a soggetti non "danneggiati" la facoltà
di costituirsi parte civile, doveva di lì in poi intendersi come
legittimante non più a ciò bensì al solo "intervento"
nel processo, nel senso ora detto. Tutto chiaro.
Se non che in seguito nell’ordinamento
compare una nuova norma che sembra ripristinare, in parte ma in modo netto,
lo schema affermatosi negli ultimi decenni di vigenza del vecchio codice
di procedura: ed è l’art. 2.5 della legge regolatrice delle Camere
di Commercio che stabilisce, in capo a queste ultime, la facoltà
di costituirsi parte civile nei procedimenti per reati contro l’economia
pubblica, l’industria e il commercio. Mutazione comunque dirompente: perché
non solo sembra comportare una vistosa inversione di tendenza (posto che,
almeno a prima vista, non pare che le Camere di Commercio possano intendersi
come soggetti "danneggiati" dai reati in questione), ma difficilmente eviterà
qualche problema di costituzionalità all’art. 212 disp. att. (sotto
il profilo del pari trattamento: art. 3 Cost.) rispetto a tutte quelle
situazioni, già precedentemente regolate, che questa norma aveva
depresso ad un ruolo processuale minore. Né, d’altra parte, è
pensabile che l’art. 212 possieda una forza ultrattiva (propria solo delle
norme di rango costituzionale) tale da infirmare la portata, ben ferma
invece, dell’art. 2.5 delle L. 580/93: rispetto a quello, quest’ultimo
è norma sopravveniente e su di esso prevale, almeno per quanto riguarda
la posizione delle Camere di Commercio.
Di vero ribaltamento del
sistema, tuttavia, si può parlare solo in quanto si pensi che dai
reati contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, le Camere
non vedano leso un proprio autentico diritto soggettivo. Perché,
se invece così fosse, l’art. 5.2 della L. 580/93 non vulnererebbe
per nulla il sistema impostato dal nuovo codice di procedura ma vi si inserirebbe
- almeno formalmente, anche se non in linea con l’ispirazione sostanziale
originaria - a pieno titolo. E dico "formalmente" in quanto non si può
comunque affermare che il Legislatore del 1988, quando distinse fra soggetti
danneggiati e soggetti esponenziali di interessi diffusi, intendesse collocare
le Camere di Commercio fra i primi. Una certa lacerazione nell’ordito di
fondo del sistema processuale - è bene dirlo - sembra dunque destinata
in ogni caso a restare.
C’è da chiedersi,
allora, quale stacco si è formato nel sistema valutativo del Legislatore
fra l’88 e il ‘93. Escludendo l’errore banale, che la teoria delle fonti
normative per principio e per metodo non accetta.
L’ IDEA DEL LEGISLATORE
Credo si debba accogliere,
e sviluppare, l’idea profonda contenuta nell’innovazione legislativa. Partendo
da lontano.
L’art. 2.5, in realtà,
non arriva sul vuoto e dal vuoto. Nasce invece sulla scorta di talune esigenze
insopprimibili, di cui proprio nel ‘93 si è proposta a difensore
un’importante sentenza della Corte di Cassazione, rimasta per ora isolata
ma estremamente significativa. Questa sentenza ha ritenuto che qualora
determinati Enti, per loro statuto o per legge, abbiano assunto come proprio
(e cioè come loro ragion d’essere) non un interesse riconducibile
alla categoria di quelli che si chiamano interessi diffusi (appartenenti
cioè, per definizione, a soggetti non determinati e non determinabili),
bensì interessi risalenti a collettività determinate e circoscritte,
ciò attribuisca loro un vero e proprio "diritto soggettivo" al rispetto
di quegli interessi (tale dunque che la sua violazione costituisca danno
risarcibile). Tali Enti si trovano, in tal caso, nella posizione di soggetti
danneggiati, e possono costituirsi parte civile per il ristoro del danno
subito.
L’esigenza profonda di cui
questa sentenza è portatrice sta nella permanente necessità-opportunità
che i poteri tipici della parte civile (cioè dell’accusa privata)
vengano giocati nel processo penale anche da Enti che, pur non gestendo
interessi propri, incarnino tuttavia un sistema istituzionale di tutela,
per statuto o per legge, di interessi appartenenti a collettività
determinate: a gruppi, cioè, da un lato sufficientemente e stabilmente
identificabili e, dall’altro, portatori di interessi per ciò stesso
meno volatili di quelli chiamati "interessi diffusi". Quegli Enti, allora,
vengono ad assumere, di fronte al reato che ne lede gli interessi oggetto
di tutela privilegiata, la posizione del "danneggiato". Perché da
quel reato essi vedono compresso il proprio "diritto soggettivo" (di natura
spesso pubblicistica) a perseguire e realizzare quella tutela. Diritto
estrapolato dalla loro stessa costituzione statutaria e legale: dalla loro
ragion d’essere, giuridica e sociale, al servizio degli interessi legittimi
di un gruppo umano riconoscibile nel gioco dialettico dell’economia e della
società civile. Su questo concetto del tutto nuovo (appena embrionalmente
accennato nella stessa sentenza della Corte) va detto qualcosa.
La ragione per cui la sentenza
si riferisce ai soli interessi riconducibili a collettività determinate
ha un senso preciso e decisivo. Se avesse parlato - come spesso avviene
in situazioni simili a quella ivi trattata (interessi ambientali di un
comitato tutore di un circoscritto territorio) - solo di interessi "diffusi",
attribuendo loro una qualche valenza rispetto alla facoltà di costituirsi
parte civile, essa avrebbe - tra l’altro - di fatto abrogato quella parte
del codice di procedura (gli art. 91, 92, 93, 94) che prevede, come si
è detto, l’intervento nel processo (e non la costituzione di parte
civile) per gli Enti tutori, appunto, di tale tipo di interessi. Se ogni
interesse collettivo diverso dai diritti soggettivi coincidesse sempre
col concetto di "interesse diffuso", e gli interessi diffusi fossero peraltro
sempre incanalabili nel modello trattato nella sentenza, non avremmo più
la figura dell’Ente esponenziale "interveniente": perché avremmo,
al contrario, sempre Enti esponenziali muniti del potere di costituirsi
parte civile. E questo, soprattutto questo, non è accettabile nello
schema delineato dal nuovo codice di procedura.
La sentenza in questione
tende allora a risolvere il problema del dar voce sufficientemente ampia
nel processo penale a certi interessi collettivi, evitando però
di contrapporsi frontalmente al sistema processuale vigente: il che viene
ottenuto distinguendo gli interessi collettivi abilitati alla costituzione
di parte civile rispetto agli interessi diffusi e restringendo l’area dei
primi a quella in cui gli interessi collettivi fanno capo a gruppi "determinati".
A collettivi, cioè, facilmente identificabili in base a stabili
e apprezzabili connotati sociologici.
Qualcosa bolle, insomma,
sotto la sentenza. E vi bolle lo stesso pensiero che sottende alle ragioni
per le quali il legislatore - non per errore ma per un’intuizione tutta
da valorizzare - si è pronunciato con l’art. 2.5. In realtà,
una cosa sono gli "interessi diffusi" (e di essi si occupano quegli Enti
esponenziali di cui al già richiamato art. 91 del codice, che per
legge abbiano "finalità di tutela" - questa è la formula
di legge - di interessi collettivi non meglio identificati), interessi
che possono appartenere a molte indeterminate persone e in modo tendenzialmente
casuale, ondivago, passeggero. Queste persone costituiscono sì,
anch’esse e in lato senso, una collettività, ma tramite un’appartenenza
temporanea, non stabile, estranea a dinamiche sociali istituzionalizzate
e di lungo periodo. Altra cosa sono, invece, gli interessi tipicamente
riportabili ad ambiti sociali consolidati, stabilmente e riconoscibilmente
presenti nella dialettica sociale e cioè, appunto, a collettività
determinate: interessi la cui rappresentanza si aggrega attorno a specifici
Enti, onerati della loro stabile tutela in modo istituzionale (per statuto
o, a maggior ragione, per legge), e che conferiscono ad essi un diritto
soggettivo, proprio degli Enti stessi, a perseguirne comunque (e dunque
fungendo anche da accusa privata in certi processi penali) la più
ampia salvaguardia.
La stabilità è
probabilmente il concetto chiave per cogliere la natura degli interessi
collettivi rispetto ai quali l’ordinamento continui a riconoscere opportuna
una loro presenza motrice nel processo penale sotto forma di accusa privata.
Stabilità di presenza nel tessuto sociale; stabilità di appartenenza
di quegli interessi a gruppi che proprio in conseguenza di ciò vengono
individuati come collettività stabili, composte di soggetti identificabili
e caratterizzate da funzioni (collettive, appunto) socialmente rilevanti
e meritevoli di accentuata tutela.
Discorso inevitabilmente
incerto, questo, perché allo stato nascente: ma fra i fenomeni di
cui si è detto una differenza sostanziale e forte c’è e va
evidenziata e capita se vogliamo - tanto per cominciare - mantenere la
coerenza del sistema processuale e della dialettica tra i diversi ruoli
che lo animano. Ma, soprattutto, se vogliamo abbozzare un disegno di più
largo respiro volto a riqualificare l’istanza punitiva "privata" (intendendosi
per "pubblica" quella propria del Pubblico ministero) all’interno di quell’autentico
dramma che è il processo penale cui non giova l’eccesso di astrazione
illuministica che vorrebbe la sparizione totale, al limite, dell’accusa
privata per tutto riservare alle scelte, spesso oscillanti fra il burocratico
e il politico, delle Procure della Repubblica. E se vogliamo, sullo sfondo
ma in prospettiva ancor più generale, promuovere ed enfatizzare
un certo assetto, decentrato quanto efficace, dei legami che si formano
nella dinamica sociale fra interessi e istituzioni destinate a rappresentarli
o anche soltanto (come nel caso delle Camere di Commercio) ad averne la
diuturna tutela.
Non tutti, forse, ma molti
degli interessi di cui per legge la Camera di Commercio è resa tutrice
(perché proprio di tutela si tratta) appartengono a collettività
determinate. Tali sono, a mio avviso, le comunità di produttori
non meno che alcune di quelle di consumatori (almeno rispetto ad alcuni
consumi abituali). Se così è, ci troviamo nell’alveo della
autorevole sentenza che ha elaborato (o, forse, per ora solo proposto)
il relativo concetto; e quindi in presenza di interessi rispetto ai quali
il diritto-dovere di tutela fonda un diritto soggettivo del soggetto tutore,
ponendolo in una condizione riconducibile, a reato compiuto, alla nozione
di soggetto danneggiato e allo schema di cui all’art. 74 c.p.p. Tale è
la veste assunta dalla Camera di Commercio ogni qual volta si verifichino
reati lesivi degli interessi in questione, e questa veste è del
tutto probabile abbia inteso riconoscere il dettato - altrimenti anomalo
- dell’art. 2.5.
I REATI CONTRO
LE CdC
Due parole soltanto, ora,
per dire rispetto a quali reati ciò avvenga.
Anche qui la legge ci crea
un problema. Minore di quello precedente, ma pur sempre un problema. Vi
si dice che la facoltà della Camera di costituirsi parte civile
attiene a processi per reati contro l’economia pubblica, l’industria e
il commercio. Queste stesse parole si rinvengono nella rubrica di un preciso
titolo del codice penale, l’8°, nel quale si tratta, per l’appunto,
dei "reati contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio".
Per tradizione legislativa,
però, quando si vuol affermare qualcosa rispetto a un certo gruppo
di reati in norme diverse da quelle che direttamente li incriminano, si
usano due metodi alternativi: o quello di riferirsi a un concetto categoriale
(e questo è il caso che si rinviene nel testo dell’art. 2.5); o
quello di riferirsi a una specifica parte del codice penale rinviando ad
essa con la citazione del solo numero edittale, ad esempio: "per i reati
di cui al titolo 8°". Ora, quando si usa un concetto categoriale, ancorché
si adoperi letteralmente la stessa formula con la quale un certo testo
legislativo identifica un ben determinato compendio di reati, di solito
non ci si vuole riferire strettamente a tale compendio ma, al contrario,
a tutti i reati che possono ricondursi al concetto categoriale stesso.
E così, si pone la seria questione se la disposizione dell’art.
2.5 rinvii ai soli reati di cui al titolo 8° del codice penale, oppure,
invece, a tutti i reati in qualche misura lesivi di industria, commercio
ed economia pubblica.
La serietà del discorso
già emerge da qualche rapido scorcio. Basti un esempio: nel titolo
8° del codice penale si incrimina - oltre alle frodi in commercio,
al boicottaggio, alle forme di sciopero non consentite e a diverse altre
interessanti fattispecie - l’aggiotaggio comune. L’aggiotaggio è
dunque uno dei reati cui immediatamente si applica l’art. 2.5 perché
tale figura appartiene in senso stretto alla lista codicistica dei reati
contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio. Ma non c’è
nessuna ragione perché i differenti tipi di "aggiotaggio speciale",
che si rinvengono in altre parti dell’ordinamento, debbano restare fuori
del raggio d’azione processuale delle Camere di Commercio. L’aggiotaggio
societario mostra, così come quello di borsa, identica ispirazione
e addirittura parziali sovrapposizioni di materia con quello di cui all’art.
501 c.p.
La tutela contro la concorrenza
sleale, cui pure si riferisce l’art. 2.5, pone analoghi problemi. Peraltro
è fondamentale osservare che non si potrebbe mai circoscrivere correttamente
l’ambito in questione senza tener presente che la facoltà processuale
delle Camere discende direttamente dalla natura degli interessi (istituzionali
e di collettività determinate) da esse per legge tutelati. Anche
per questo è ben più naturale pensare che la dizione "reati
contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio" contenga un rinvio
categoriale anziché meramente formale (e cioè ai soli reati
descritti nell’8° titolo del codice penale).
Infine. Secondo quell’art.
91 c.p.p. di cui si è parlato prima, gli Enti esponenziali di interessi
diffusi - cui è concesso non di costituirsi parte civile, ma di
operare solo un "intervento" nel processo penale (vale a dire una presenza
nella causa senza che vi si possano presentare conclusioni, senza discutere
nell’arringa finale, senza che vi si possa fare l’esame e il controesame
dei testi o degli imputati) - sono pur sempre definiti come quelli che
per legge hanno la tutela di tali interessi. Se dunque dovessimo concludere
che al di fuori della ristretta cerchia di cui al titolo 8° del codice
penale le Camere non possano costituirsi parte civile, a termini della
nota sentenza, esse - certamente Enti esponenziali degli interessi diffusi
colpiti da una ben più vasta area di illeciti penali - rispetto
a questi ultimi e al relativo processo almeno il diritto all’intervento,
che già è qualcosa, dovrebbero avercelo.
La materia è calda,
e a seconda di come la si gestisce ci si può trovare a far troppo,
a non fare nulla, oppure a fare molte utili cose. Dietro questo bollore,
anche di concetti, stanno una grande incertezza e una forte spinta innovativa:
tutte le volte che si cerca di innovare - ridando per esempio forza processuale
a quegli Enti che esprimono la capacità dei produttori di autoregolarsi
- le spinte e le controspinte sono tante, ed è facile, direi inevitabile,
che per un certo lasso di tempo anche le leggi rispecchino questa sotterranea
contraddittorietà. La prassi, e la cultura che si applica alla prassi,
devono poi adoperarsi per risolvere queste contraddizioni. Il nuovo - e
di solito il nuovo migliore - nasce così.
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