Impresa
& Stato n°44-45
REPRIMERE LA CONCORENNZA
SLEALE
di
Gustavo
Ghidini e Maria Carla Minieri
Dall' articolo 2601
del codice civile ai compiti attribuiti dalla L. 580. Come cambia il ruolo
delle Camere di Commercio nella tutela collettiva del mercato.
La
legge 29 dicembre 1993 n. 580 ha riordinato le Camere di Commercio, rafforzandone
notevolmente, come qui di seguito si dirà, il ruolo di enti regolatori
del mercato concorrenziale.
L’art. 1, I comma, ribadisce
innanzitutto che le Camere sono enti autonomi di diritto pubblico che svolgono,
nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di
interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo
nell’ambito delle economie locali.
Il successivo art. 2, che
delinea il quadro delle nuove attribuzioni delle Camere, prevede che esse
svolgano funzioni di sostegno e di promozione degli interessi generali
delle imprese nonché funzioni specifiche nelle materie amministrative
ed economiche relative al sistema delle imprese.
Si prevede poi che, per
il raggiungimento dei propri scopi, le Camere di Commercio promuovano,
realizzino e gestiscano strutture e infrastrutture di interesse economico
generale direttamente oppure mediante la partecipazione, con altri soggetti
pubblici o privati, ad organismi anche associativi, ad enti, a consorzi
e a società; si dice inoltre che le Camere possono costituire aziende
speciali operanti secondo le norme del diritto privato.
Nell’ambito della definizione
dei poteri spettanti alle Camere di Commercio, la legge n. 580/93 conferisce
poi loro la possibilità di:
a) promuovere la costituzione
di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie
fra imprese, consumatori e utenti;
b) predisporre e promuovere
contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela
degli interessi dei consumatori e degli utenti;
c) promuovere forme di controllo
sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti.
In questo contesto, riveste
notevole importanza la facoltà, per le nuove Camere di Commercio,
di costituirsi parte civile nei giudizi relativi ai delitti contro l’economia
pubblica, l’industria e il commercio e, soprattutto, la facoltà,
prevista dall’art. 2, V comma, di promuovere l’azione per la repressione
della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2601, codice civile.
Tale ultima attribuzione,
che costituisce l’oggetto di questo articolo, rappresenta un’innovazione
di spiccato rilievo in quanto conferisce alle Camere di Commercio un nuovo
e decisivo ruolo in relazione alla funzione di regolazione del mercato
e alla promozione delle condizioni del libero mercato concorrenziale.
Al fine di comprendere appieno
la portata di tale nuova attribuzione e di stabilirne il significato nel
quadro sistematico delle norme del codice civile, occorre svolgere talune
considerazioni preliminari sull’ambito di applicazione dell’art. 2601 c.c.,
norma alla quale la legge n. 580/93 ha espressamente ricollegato la speciale
legittimazione conferita alle Camere di Commercio.
Tale analisi appare preliminare
ad ogni successiva considerazione in quanto la corretta impostazione delle
problematiche scaturienti dall’art. 2601 costituisce l’imprescindibile
presupposto interpretativo dell’art. 2, V comma, L. n. 580/93.
L’art. 2601 c.c. già
prevede, quale forma di tutela collettiva del mercato concorrenziale, che:
"Quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una
categoria professionale, l’azione per la repressione della concorrenza
sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali
e dagli enti che rappresentano la categoria."
IL CONTESTO DELL’ART
2601
La norma, che rappresenta
il più importante riflesso, sul piano normativo, del principio per
cui comportamenti di concorrenza sleale sono ipotizzabili anche nei confronti
di una categoria di imprenditori (ad es. réclame menzognera), deve
essere innanzitutto collocata nel contesto storico dal quale è scaturita:
deve ritenersi infatti che la codificazione del 1942, nell’ottica di un
rafforzamento dell’ordinamento corporativo di origine fascista, abbia voluto
attribuire alle associazioni professionali, a quell’epoca aventi soggettività
e poteri di natura pubblicistica, la funzione di strumento di controllo
e di sorveglianza da parte dello Stato all’interno del sistema produttivo.
L’associazione, titolare
di un interesse proprio, correlato al conseguimento di finalità
"superiori", autonomo e distinto, e financo confliggente con quello dei
singoli imprenditori, utilizzava dunque la legittimazione alla promozione
dell’azione di concorrenza sleale per far valere, nell’interesse della
collettività, una responsabilità che, in quanto diretta nei
confronti dello stesso associato, assumeva per lo più carattere
disciplinare.
Necessaria conseguenza di
tale contesto interpretativo era che l’art. 2601 c.c. intervenisse altresì
sulla stessa qualificazione di illiceità degli atti di concorrenza:
mentre infatti l’art. 2598, n. 3, qualificava illecito il comportamento
contrario ai principi della correttezza professionale in quanto idoneo
a danneggiare l’altrui azienda, l’art. 2601 sostituiva a tali requisiti
sostanziali quello della "idoneità a pregiudicare gli interessi
della categoria".
L’art. 2601, espressione
dunque tipica della concezione dirigistica e autoritaria della presenza
dello Stato nel sistema produttivo, si considera oggi sopravvissuto alla
caduta dell’ordinamento corporativo e quindi alla scomparsa di associazioni
legalmente rappresentative dell’intera categoria, ma viene più correttamente
qualificato quale strumento di difesa complementare degli interessi strettamente
individuali degli imprenditori riuniti in associazioni.
Coerentemente con tale lettura,
l’opinione preferibile pare essere quella che ricollega la legittimazione
delle associazioni professionali di categoria, divenute mere associazioni
di diritto privato che agiscono nell’interesse esclusivo dei singoli iscritti,
all’istituto della rappresentanza, ovvero della sostituzione processuale.
Orbene, la descritta linea
interpretativa, sebbene da molti condivisa, non appare ancora pienamente
compatibile con l’art. 2601 c.c.
Se infatti la norma, la
cui ratio, come si è detto, era quella di creare una fattispecie
diversa e alternativa rispetto all’art. 2598, consentiva di fatto alle
associazioni di svolgere i propri compiti dirigistici, non si vede come
oggi si possa superare il dato letterale e giungere ad accantonare tale
specifica funzione.
Appare invece maggiormente
conforme ai principi costituzionali (alla luce dei quali deve necessariamente
interpretarsi qualsiasi forma di regolazione che incida, limitandola, sulla
libertà di iniziativa economica) ritenere che l’art. 2601 c.c. estenda
la tutela concorrenziale nel quadro di un’azionabilità plurima della
pretesa del singolo, attribuendo alle associazioni di categoria un’azione
complementare, il cui presupposto legittimante va ricercato nell’art. 41,
III comma, della Costituzione.
L’art. 41 Cost. pone, come
limite all’esercizio del diritto di impresa, la conformità dell’azione
al concetto di "utilità sociale"; tale definizione è stata
dalla giurisprudenza assunta a base dell’elaborazione della teoria dell’interesse
collettivo che, proprio in contrapposizione con l’ideologia corporativa,
ha attribuito autonoma rilevanza e tutela ai c.d. interessi diffusi.
In tale ottica si può
dunque dire che l’art. 2601, codice civile, tutela "l’interesse di categoria",
nel senso di considerare l’interesse del singolo quale interesse anche
della categoria.
Più correttamente
si può affermare che l’unica forma di qualificazione della tutela
ex art. 2601 c.c. da ritenersi tollerabile con l’ordinamento costituzionale,
va rapportato all’art. 41, III comma, Cost., norma alla quale si ricollega,
pur non in un’unanimità di posizioni, la problematica della concorrenza.
Orbene, una volta individuato
l’ambito interpretativo dell’art. 2601, la portata e il significato dell’art.
2, V comma , legge n. 580/93, appaiono di immediata percezione. Ricollegando
ancora l’art. 1, I comma, legge n. 580/93, all’art. 2601, codice civile,
richiamato dall’art. 2, V comma, L. n. 580/93, si può osservare,
infatti, che il fine istituzionale delle Camere di Commercio, in quanto
enti autonomi di diritto pubblico, è individuato espressamente dalla
legge nello svolgimento di "funzioni di interesse generale per il sistema
delle imprese".
Di conseguenza, l’azione
di concorrenza sleale potrà essere esercitata dalla Camera solo
nel caso in cui la condotta illecita sia di ostacolo al perseguimento dei
suoi fini istituzionali, e specificamente quando tale condotta arrechi
pregiudizio al sistema generale delle imprese e del mercato.
Un volta che l’art. 2, V
comma, L. n. 580/93, riconosce alle Camere di Commercio la promuovibilità
dello stesso tipo di azione previsto dall’art. 2601, ne consegue che le
stesse possono essere, anche, associazioni professionali o di categoria
nel senso indicato dal citato articolo del codice civile.
Come si è detto,
l’art. 2, L .n. 580/93, non parla di interessi di categoria o professionali,
come faceva l’art. 2601 c.c., che si rifaceva all’ordinamento corporativo,
ma ha formula più ampia e riguardante l’intero sistema produttivo
imprenditoriale.
Da tale presupposto deriva
dunque la legittimazione delle Camere di Commercio e tale fondamento può
essere a sua volta ricollegato, secondo un’interpretazione costituzionalmente
corretta, agli ambiti interpretativo-applicativi dell’art. 41, III comma,
Cost.
Dunque, poiché la
formula individuatrice del fine istituzionale delle Camere di Commercio
usata dall’art. 1, I comma, L. n. 580/93, è indubbiamente più
ampia di quanto non possa ravvisarsi nella mera tutela di interessi "di
categoria", ne consegue che, nei confronti di atti di concorrenza sleale,
le Camere sono dotate ora di un’ampia e autonoma legittimazione (la quale
deve pur sempre e comunque tendere ad un controllo di compatibilità
dell’attività di impresa con l’art. 41, III comma, Cost.).
Trattasi quindi di un nuovo,
notevole ampliamento e rafforzamento della tutela degli stessi interessi
di categoria e degli interessi diffusi di natura collettiva, i quali possono
in tal modo classificarsi "sociali" proprio nel senso di cui all’art. 41,
III comma, Cost.
In questo senso si deve
ritenere che, mentre l’art. 2601 presenta uno spiccato carattere di complementarità
rispetto alla tutela del singolo, il combinato disposto degli art. 1, I
comma, e 2, V comma, L. n. 580/93, e 2601, c.c., attribuisce un carattere,
certamente innovatore, di ben diversa autonomia e ampiezza alla corrispondente
azione contro gli atti di concorrenza sleale.
Diversamente argomentando,
prescindendo cioè dal collegamento con i principi costituzionali,
si correrebbe il rischio di ricondurre la speciale legittimazione conferita
alle Camere di Commercio all’ambito dei poteri tipici dell’ordinamento
corporativo e di far rivivere una vera e propria potestà disciplinare,
in ipotesi esercitabile nei confronti delle singole imprese.
LA DISCIPLINA
REPRESSIVA
La disciplina repressiva
della concorrenza sleale, imprescindibile strumento di regolazione del
mercato, può dunque, in seguito alle innovazioni introdotte con
la legge n. 580/93, ritenersi notevolmente rafforzata soprattutto ove si
consideri che, date le difficoltà interpretative connesse alla formulazione
dell’art. 2601 c.c., la norma ha fino ad oggi avuto scarsa applicazione.
La stessa incompletezza
del disposto di cui all’art. 2, V comma, L. n. 580/93, porta d’altronde
con sé taluni dubbi interpretativi che, già sorti in sede
di interpretazione dell’art. 2601 c.c., possono sicuramente riferirsi anche
al nuovo istituto.
Sotto tale profilo occorre,
infatti, ricordare che, sebbene la norma contempli testualmente la legittimazione
solo delle associazioni nel lato attivo, la giurisprudenza l’ha riconosciuta
anche in quello passivo in tutti quei casi in cui, nell’interesse degli
aderenti, l’associazione incida, con mezzi vietati, sul libero gioco concorrenziale.
Diversi contrasti interpretativi,
certamente riconducibile ora anche all’art. 2, L. n. 580/93, si sono altresì
creati con riferimento alla legittimazione delle associazioni alla proposizione
della domanda di risarcimento.
E sebbene sia evidente che
il danno non possa mai riguardare l’ente in sé, bensì solo
i singoli aderenti, non può non ravvisarsi il rischio, ora più
che mai accentuato, di una ingiustificata moltiplicazione di pretese nei
confronti dell’autore dell’illecito.
Orbene, alla luce delle
innovazioni introdotte dall’art. 2, comma V, legge n. 580/93, è
stato realizzato da chi scrive, su incarico della C.C.I.A.A. di Milano,
un progetto editoriale volto ad analizzare e a raccogliere i principi giurisprudenziali
in materia di concorrenza sleale.
Il lavoro si propone di
fornire agli imprenditori che operano sul mercato una guida che consenta
di discernere i comportamenti illeciti da quelli leciti e di contribuire
in tal modo alla tutela della correttezza del mercato concorrenziale.
È stato altresì
elaborato un modello di procedimento che, a tutela degli interessi pubblici
e privati coinvolti, garantisca la trasparenza e l’imparzialità
dell’operato della Camera di Commercio nei casi in cui, avvalendosi della
legittimazione ora conferitale dall’art. 2, V comma, L. n. 580/93, decida
di promuovere l’azione di concorrenza sleale.
Il modulo procedimentale
si inquadra infatti negli strumenti di partecipazione ai procedimenti amministrativi
previsti in via generale dalla legge 7.8.90 n. 241 (artt. 7 e ss.), e si
ricollega altresì alle garanzie partecipative di soggetti portatori
di interessi pubblici e privati assicurate in via di principio, nell’area
di tutela della concorrenza, dall’art. 10 e seguenti della legge 10.10.90
n. 287 e dal relativo regolamento di attuazione approvato con D.p.r. 10.9.91
n. 461.
Mediante la previsione di
tale modulo procedimentale, appare importante rilevare che l’interesse
collettivo facente capo ai consumatori, che erano e restano esclusi dall’azione
contro la concorrenza sleale, sia come singoli che come categorie associativamente
organizzate, riceve ora una legittimazione espressa e quindi una effettiva
tutela.
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