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Impresa & Stato n°44-45 
 
 

SUSSIDIARIETA' E AUTONOMIE FUNZIONALI

di
Antonio D'Atena
 
Le due chiavi di volta del progetto della Bicamerale: un ritorno alle origini e la ripresa di un cammino precedentemente interrotto.  

All’inizio il dibattito sulle riforme istituzionali, che si protrae ormai da tre legislature, si concentrava fondamentalmente sui tradizionali oggetti dell’ingegneria costituzionale: la forma di governo e la forma di Stato (intesa, quest’ultima, con esclusivo riferimento all’articolazione territoriale del potere). Il progetto licenziato dalla Bicamerale il 4 novembre scorso, invece, allarga la prospettiva ai rapporti tra la statualità (complessivamente considerata) e la società civile. Esso, inoltre, si confronta con le esigenze di articolazione funzionale del potere poste all’ordine del giorno dall’evoluzione da cui, negli ultimi anni, è stato interessato il nostro quadro istituzionale.  
Una delle chiavi di volta dell’impianto risultante dal progetto è rappresentata dal principio di sussidiarietà, il quale non viene inteso in senso soltanto verticale (con riferimento ai rapporti tra enti territoriali), ma anche in senso orizzontale: avendo, cioè, riguardo alle relazioni tra la sfera pubblica e la sfera privata, da un lato, e a quelle tra gli enti pubblici territoriali e l’arcipelago delle autonomie funzionali, dall’altro.  
In particolare, l’art. 56, comma 1, prevede che l’attribuzione di funzioni agli enti territoriali avvenga "nel rispetto delle attività… che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali", e aggiunge che, ai fini della distribuzione delle competenze tra i diversi livelli di governo, deve farsi uso "dei principi di sussidiarietà e di differenziazione". L’ultima parte della medesima disposizione precisa, infine, che "la legge garantisce le autonomie funzionali".  
Ma il progetto fa uso anche di una seconda chiave, la quale interferisce parzialmente con la prima. Ci si riferisce al riconoscimento dell’essenziale funzione di ambiti istituzionali la cui legittimazione non si fonda sul suffragio universale (e, quindi, sulla mediazione partitica). Si tratta, oltre che delle autonomie funzionali di cui si è appena detto, di sedi tecniche e neutrali, quali la Banca d’Italia e le Autorità di garanzia, che gli artt. 110 e 109 dotano di copertura costituzionale.  

Una visione in controtendenza  
Le novità appena passate in rassegna lasciano trasparire una visione del pluralismo istituzionale e sociale in netta controtendenza rispetto ad un passato non tanto lontano.  
Per rendersi conto di ciò, è sufficiente ricordare, da un lato, l’abnorme dilatazione della mano pubblica che si era venuta progressivamente stratificando nel nostro paese, d’altro lato la penalizzazione delle sedi istituzionali non legate alla mediazione partitica, la quale aveva trovato le sue manifestazioni estreme nel decreto legislativo che, nel 1977, aveva realizzato il c.d. completamento dell’ordinamento regionale. Basti pensare che, per effetto di tale atto, non poche competenze per l’innanzi esercitate dalle Camere di commercio sono state trasferite alle Regioni.  
È ormai un dato acquisito che tali indirizzi affondavano le proprie radici in una vistosa anomalia del caso italiano. Il quale, per effetto di un sistema elettorale esasperatamente proporzionale e della conventio ad excludendum (che tagliava fuori dai Governi nazionali consistenti forze di opposizione), trovava il proprio contrassegno specifico nell’assenza del correttivo dell’alternanza politica. Il che aveva pesantemente condizionato lo sviluppo stesso delle istituzioni, surrogando l’alternanza con la lottizzazione delle sedi pubbliche. Con la conseguenza che il pluralismo partitico aveva finito per configurarsi come l’articolazione pressoché esclusiva della società e delle istituzioni da essa espresse.  
Non è contestabile - come lo scrivente ha avuto occasione di sottolineare in queste pagine (Impresa & Stato, luglio 1996) - che, superate le condizioni sulle quali era venuta costruendosi l’anomalia di cui si è appena detto, e, soprattutto, avviata la transizione ad una democrazia dell’alternanza, il mantenimento di tali indirizzi determinerebbe un netto peggioramento della situazione precedente, aprendo la strada alla sostituzione della lottizzazione delle sedi pubbliche con la loro occupazione ad opera delle forze di maggioranza. E, quindi, eliminando quel tanto di pluralismo che - a suo modo - la lottizzazione era in grado di assicurare.  
In conseguenza di ciò, non può non salutarsi con favore il fatto che il documento costituzionale da cui il cambiamento dovrebbe essere sanzionato, per un verso, valorizzi costituzionalmente il "privato", per altro verso prefiguri un disegno istituzionale in cui al sistema delle istituzioni della democrazia (legate al circuito della rappresentanza politica) si affianchino sedi istituzionali dotate di distinti codici genetici (e, quindi, di diverse vocazioni funzionali). Tali sedi - dalla Banca d’Italia alle Autorità di garanzia, dalle Università degli studi alle Camere di commercio - non vanno considerate istituzioni di serie B, ma entità la cui diversità trova la più profonda ragion d’essere nella natura delle funzioni loro assegnate: funzioni che sarebbe esiziale ricondurre alla logica della mediazione partitica.  

Novità già anticipate  
Detto questo, va rilevato che l’introduzione delle novità sopra ricordate non è, per intero, rinviata alla conclusione del processo di riforma, su cui, peraltro, gravano non trascurabili incertezze. Tali novità hanno, infatti, trovato una significativa anticipazione nella legislazione più recente: e, in particolare, nella prima legge Bassanini (la legge n. 59/1997). Esse, quindi, sono, almeno in parte, già presenti nel nostro diritto positivo.  
A tale legge non solo si deve l’introduzione, nel nostro ordinamento legislativo, della lettura anche orizzontale del principio di sussidiarietà, ma anche l’espresso riconoscimento del ruolo delle autonomie funzionali. Particolarmente significative, in proposito, sono le disposizioni contenute nell’art.1, comma 4, lett. d), e nell’art. 4, comma 3, lett. a). La prima disposizione esclude espressamente, dal processo di riallocazione delle funzioni alle Regioni e agli enti locali, "i compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e dalle università degli studi". La seconda, annoverato il principio di sussidiarietà tra quelli cui deve attenersi il legislatore delegato (al quale la legge demanda la concreta riallocazione delle funzioni), chiarisce che il principio predetto comporta l’attribuzione delle responsabilità pubbliche "alla autorità... più vicina ai cittadini", precisando che tale prossimità va intesa  non solo in senso territoriale ma anche in senso funzionale. Per completare il quadro è infine da sottolineare che la legge promuove "l’assolvimento di funzioni di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità" (art.4, comma 3, lett. a).  

Un ritorno alle origini  
In questa sede, non è possibile approfondire il discorso. Non possono, comunque, passarsi sotto silenzio due aspetti del massimo rilievo.  
Il primo è rappresentato dal rapporto tra le innovazioni sopra ricordate e le attese della società civile. Non deve, infatti, dimenticarsi che uno dei maggiori motori del processo di riforma è costituito proprio dal mutato atteggiamento della società rispetto alle istituzioni: dalla crescente insofferenza dei cittadini nei confronti di una statualità invadente, in cui le articolazioni del potere pubblico siano espressione di un pluralismo soltanto apparente.  
Il secondo aspetto da sottolineare è la continuità tra il disegno che le innovazioni brevemente passate in rassegna lasciano trasparire e alcune aperture presenti nella Costituzione del 1947. La quale non solo contiene tracce del principio di sussidiarietà, ma prefigura un assetto pluralistico molto più ricco e differenziato di quello affermatosi per effetto della lettura partitica.  
Per questa parte, quindi, sia la legge Bassanini che il progetto della Bicamerale presentano il carattere di un ritorno alle origini: della ripresa di un cammino precocemente interrotto.