Impresa
&Stato n°43
LA DINAMICA DELL'ECONOMIA
DI MILANO NEGLI ANNI '80
I dati di "Milano
Produttiva" rivelano un apparato entrato in "crisi di crescita", una città
che, pur costituendo l'area forte del paese, ha affievolito la sua funzione
di traino.
di
Sandro Lecca
Secondo
le diagnosi del Rapporto annuale Milano Produttiva - curato dall'Ufficio
studi della Camera di Commercio - l'apparato produttivo milanese sembra
essere entrato in una fase di "crisi di crescita", nel senso che i risultati
congiunturali da esso conseguiti nel corso di questi ultimi anni non appaiono
particolarmente brillanti e superiori, quanto ad entità, a quelli
osservabili non solo nelle regioni del nuovo "miracolo economico" - quelle
del Nord-Est - ma anche nel resto del Paese. In altre parole, Milano -
pur continuando indiscutibilmente a costituire l'area economica più
forte e avanzata d'Italia in termini di dotazione quantitativa e qualitativa
dei fattori - sembra in qualche misura aver affievolito la sua funzione
di cosiddetta "area locomotiva", secondo un'espressione ricorrente sino
alla fine degli anni '80 e oggi decaduta.
Nella fase di ripresa iniziata
dopo la recessione produttiva del 1992-1993, l'andamento degli indicatori
di tendenza assume, nella provincia di Milano, valori sostanzialmente allineati
a quelli riscontrabili sul piano regionale o nazionale, se non di entità
inferiore. È il caso, per esempio, della relativa perdita di competitività
internazionale subita dalle produzioni manifatturiere milanesi, il cui
export diminuisce, nel 1966, del 2,4% (contro il +0,5% lombardo e il +1,5%
nazionale); oppure del minor tasso di crescita della popolazione delle
imprese (+1,5% a Milano, +2,9% in Lombardia, +6,4% in Italia).
Il problema è che
Milano ha assunto una struttura economica e sociale talmente complessa
e diversificata da rendere la sua evoluzione dinamica reale in qualche
modo meno legata alle oscillazioni congiunturali del ciclo economico. Occorre
quindi rivolgere l'attenzione ai cambiamenti strutturali, che più
compiutamente denotano i passaggi di fase degli assetti produttivi e organizzativi
e quindi delle stesse prospettive future. È quello che faremo nella
breve analisi che segue, osservando - attraverso l'utilizzo di dati desunti
dall'archivio Aspo - i principali mutamenti intervenuti nell'area milanese
in un periodo temporale sufficientemente lungo (1981-1994) da poterne cogliere
quelle che potremmo sin d'ora definire come le "fenomenologie della transizione".
UN TESSUTO PRODUTTIVO
CON IMPRESE SEMPRE PIÙ PICCOLE
Tra il 1981 e il 1994 il
sistema produttivo milanese è stato segnato da profondi cambiamenti
strutturali. Esso risulta oggi dominato da un reticolo di unità
tecniche di produzione e lavoro di dimensioni sempre più ridotte.
Contemporaneamente si assiste alla vistosa contrazione, se non a un vero
e proprio declino, delle imprese più grandi.
Tale processo di scomposizione
della struttura produttiva è dovuto all'agire simultaneo di due
tendente opposte: un aumento delle unità locali (+25,6%), che si
combina con la diminuzione degli addetti (-6,5%, contro il -4,7% dell'intera
Lombardia). Ne deriva la riduzione della dimensione media aziendale, che
passa dai 6,6 addetti del 1981 ai 4,9 addetti del 1994, un dato di poco
superiore alla media lombarda (4,5 contro il 5,5 del 1981).
In questo quadro cresce,
inevitabilmente, il peso delle piccole e piccolissime unità produttive
(quelle da 1 a 9 addetti), che da sole rappresentano, al 1994, quasi il
93% del totale delle unità locali (90,1% nel 1981) e assorbono il
42% circa degli addetti (32% nel 1981) La classe delle microimprese - aventi
una dimensione media molto contenuta (2,2 addetti) - è l'unica a
registrare un incremento degli occupati (+20,5%, superiore al +14% lombardo).
Di segno diametralmente
opposto è invece l'andamento delle unità di maggiore dimensione
(con 100 addetti e più), che tra il 1981 e il 1994 perdono, in valori
assoluti, oltre 155 mila addetti (-30,3%) e riducono notevolmente il loro
peso sull'occupazione totale (dal 35% al 26%). Responsabile principale
di questa dinamica negativa è il segmento delle grandi unità
locali (500 addetti e più), il cui numero risulta praticamente dimezzato
(da 200 unità del 1981 alle 119 del 1994), analogamente a quanto
succede per gli addetti (passati da 255 mila a 128 mila, -50% circa), venendo
così a ridursi drasticamente la loro incidenza sul totale degli
occupati (dal 17,4% al 9,3%). Nonostante tutto ciò, in provincia
di Milano continua a concentrarsi il 64% di tutte le grandi unità
produttive lombarde (percentuale che sale al 69% in termini di addetti).
Anche le unità locali
di dimensione intermedia (da 10 a 99 addetti) registrano una contrazione,
seppure più contenuta, degli addetti (-8%). Esse continuano peraltro
ad assorbire una quota consistente e praticamente immutata degli addetti
totali (intorno al 32%) e a rivestire quindi un ruolo di primo piano nell'economia
milanese, nonché in quella dell'intera Lombardia (dove detengono
incidenze analoghe).
La crescita degli addetti
delle piccole unità produttive intervenuta nel periodo 1981-1994
(+98 mila occupati) non è stata quindi in grado di compensare le
perdite subite dalle unità di grandi e medie dimensioni (-194 mila
addetti nel complesso), essendo di entità analoga al saldo negativo
totale (-96 mila addetti).
È negli anni più
recenti che la funzione compensativa delle piccole imprese, tradizionalmente
assolta nel passato, sembra venir meno. Tra il 1992 e il 1994, infatti,
l'andamento degli addetti di questa classe dimensionale presenta, per la
prima volta dal 1981, una variazione negativa (-5,4%) che è addirittura
superiore a quella delle unità locali di maggiore dimensione (-2,6%),
provenienti peraltro da un lungo periodo di intenso e continuo dimagrimento.
Questa inedita crisi occupazionale
delle piccole unità può essere imputata, almeno in parte,
alla recessione produttiva che nel 1992-1993 ha duramente colpito anche
l'economia milanese. Tuttavia, quasi contemporaneamente, il numero delle
piccole unità locali registra, in soli due anni, ossia tra il 1992
e il 1994, un aumento di oltre nove punti percentuali, ben superiore al
+3,8% del precedente biennio e corrispondente a un tasso medio annuo di
crescita (+2,7%) quasi doppio rispetto a quello (+1,5%) verificatosi nel
periodo (1981-1990) di massima espansione degli addetti delle unità
produttive di minore dimensione. Insomma, sembra essersi interrotta, con
gli inizi degli anni '90, la relazione positiva e "virtuosa" tra aumento
delle piccole imprese e aumento degli addetti in esse occupati.
Questi ultimi dati non solo
destano preoccupazione sulle reali capacità di tenuta occupazionale
delle imprese minori nel futuro, ma devono anche farci riflettere criticamente
sull'idea, abbastanza corrente, che la creazione di nuove imprese possa
di per sé condurre ad un aumento netto del numero degli occupati.
Si tratta di un "mito" che non trova più riscontro reale nelle tendente
in atto. Le 72 mila nuove unità locali (di dimensione piccola nel
93% dei casi) nate nella provincia di Milano tra il 1992-1994 hanno creato
un'occupazione aggiuntiva di quasi 140 mila addetti, ma contemporaneamente
le quasi 54 mila unità locali cessate (sempre per il 93% di piccola
dimensione) hanno distrutto ben 223 mila "posti di lavoro" (per un saldo
negativo di 83 mila addetti). Il problema vero, quindi, sembra essere non
tanto la formazione di nuove imprese - che certamente, in ogni caso e in
qualche modo, creano occupazione - quanto la crescita dimensionale delle
imprese già esistenti, ossia il miglioramento delle loro capacità
di sopravvivere e durare nel tempo, condizioni senza le quali appare oggi
difficile pensare di poter affrontare efficacemente il grave problema della
persistente crisi occupazionale, che interessa ormai tutte le tipologie
d'impresa e non soltanto quelle di maggiori dimensioni.
Ci si può chiedere,
a questo punto della nostra analisi, se la riduzione della dimensione delle
unità locali e la correlata e crescente "polverizzazione" dell'apparato
produttivo possa costituire un elemento di debolezza e di instabilità
del sistema economico.
A parte ogni considerazione
sullo sviluppo del modello della "fabbrica corta", snella, piatta o flessibile
che di dir si voglia, indotto dai processi di innovazione tecnologica e
organizzativa (dal just in time all'outsourcing) e dalle nuove regole del
gioco competitivo (per cui si cresce solo se si "smagrisce"), vi è
un dato di cambiamento strutturale che indica chiaramente come la scomposizione
del tessuto economico in un pulviscolo di piccole o micro unità
produttive si accompagni alla sua maggiore "strutturazione" e non alla
sua maggiore "dissoluzione" o fragilità Si tratta della forte diffusione
assunta dalle forme societarie d'impresa - e in particolare dalle società
di capitale (S.p.A. e S.r.l.) - che testimonia l'elevato grado di solidità
organizzativa e di robustezza economico-finanziaria raggiunto dal tessuto
produttivo milanese.
Tra il 1981 e il 1994 si
riduce nettamente il peso delle unità a base famigliare rappresentate
dalle ditte individuali (che passano dal 64,7% al 49,4%), mentre aumenta
in misura notevole l'incidenza, già alta nel 1981, delle società
di capitale (dal 14,3% al 26,6%, un dato, quest'ultimo, ben superiore al
19,6% della media lombarda) e cresce leggermente la quota delle società
di persone (dal 19,2% al 21,9%). Analoghe tendenze si osservano in termini
di addetti, che ormai risultano concentrati per il 62% nelle società
di capitale (contro un 10% delle ditte individuali, più che dimezzato
rispetto al 21,3% del 1981).
Vi è stato quindi
un forte passaggio - a Milano avvenuto prima e in modo più esteso
che nel resto d'Italia - dall'impresa "fatta in casa" o "fatta da solo"
all'impresa "fatta con altri", ossia - se si vuole - dall'"impresa famiglia"
all'"impresa organizzazione". In questo radicale mutamento delle strutture
giuridiche - dove la "forma" o soggetto impresa si autonomizza rispetto
alla "figura" o persona dell'imprenditore ed emerge con una propria soggettività
- si può leggere, in filigrana, il progressivo declino del tradizionale
modello imprenditoriale centrato sulla figura "onnipotente" del cosiddetto
"brambilla", che assumeva in sé il governo di tutte le funzioni
aziendali secondo la logica dell'"impresa sono io". Modello un po' prometeico,
che le nuove generazioni di giovani imprenditori e "giovani manager" stanno
mettendo in crisi.
Ed è probabilmente
proprio a causa di questa maggiore complessità organizzativa che
Milano non presenta più, con gli anni '90, quegli elevati tassi
di natalità imprenditoriale (abbinati peraltro ad altrettanto elevati
tassi di mortalità precoce) che erano stati invece una costante
degli anni '80, caratterizzati dal ciclo espansivo delle ditte individuali.
Un ciclo che non sembra essersi esaurito nel resto d'Italia, dove le ditte
individuali continuano a rappresentare il 68% di tutte le imprese attive
e risultano ancora in crescita.
In sostanza, al capitalismo
spontaneo e turbolento delle piccolissime ditte individuali, ormai residuale
in termini di addetti, viene a sostituirsi il capitalismo maggiormente
"costruito" e formalizzato delle società o meglio delle "piccole
società di capitale", ossia una forma organizzativa più articolata
e stabile, più robusta sul piano finanziario, più manageriale
e aperta, in definitiva, più adatta ad affrontare in modo adeguato
e consapevole gli scenari complessi di mercati sempre più mutevoli
e globalizzati.
È in questo tessuto
delle forme più avanzate di organizzazione produttiva che opera
il segmento vitale della media impresa in senso proprio, ossia quella identificabile
- in modo peraltro del tutto convenzionale e "statistico" - nella dimensione
da 100 a 499 addetti. Una media impresa decisamente orientata alla competizione,
all'innovazione tecnico-organizzativa, all'eccellenza professionale, alla
qualità, alla conoscenza, alle connessioni di rete, tutti caratteri
questi che le consentono spesso di detenere una riconosciuta posizione
di leadership internazionale nel proprio settore o in una sua "nicchia"
specialistica, nonché di assolvere a una funzione di guida nei confronti
delle economie locali o nei cicli integrati delle filiere produttive. Una
media impresa, infine, che con le sue quasi 1200 unità locali e
con i suoi 230 mila addetti (l'80% in più degli addetti alla grande
impresa e il 17% degli addetti totali) è ben presente nel tessuto
produttivo milanese, occupandovi un ruolo anche quantitativamente rilevante.
Non è poi forse un caso che questa tipologia produttiva registri
- nel biennio 1992-1994, influenzato dalla più volte richiamata
congiuntura negativa del 1992-1993 - una contrazione degli occupati (-1,9%)
più contenuta rispetto a quella delle unità di dimensione
piccola fino ai 9 addetti (-5,4%), medio-piccola da 10 a 99 addetti (-8,4%)
e grande con 500 addetti e oltre (-3,9%).
UN SISTEMA PRODUTTIVO
TERRITORIALE PIÙ POLICENTRICO
Altrettanto profondi sono
i mutamenti intervenuti nella composizione delle attività economiche,
che appaiono sempre più contrassegnate dal fenomeno della "terziarizzazione",
a cui si accompagna la vistosa riduzione del peso occupato dal settore
industriale.
Già nel 1981, del
resto, il tessuto produttivo milanese risultava ampiamente terziarizzato,
con il 65,7% delle unità locali operanti nel settore dei servizi,
incidenza che sale al 68,2% nel 1994. L'industria, dal canto suo, assorbiva
il 34,2% del totale delle unità produttive, che tredici anni dopo
si riduce al 31,6%. La dinamica delle unità locali - che crescono,
comunque, anche nei comparti in contrazione - non evidenzia, almeno per
il periodo qui considerato e a livello di un'analisi molto aggregata come
la nostra, grandi spostamenti nel rapporto tra terziarizzazione e deindustrializzazione,
che invece assumono un segno più forte e visibile in termini di
dinamica degli addetti.
Nel 1992 si assiste ad un
"sorpasso": quello del terziario sull'industria. In quell'anno gli addetti
al variegato ed esteso settore dei servizi - l'insieme di commercio, turismo,
trasporti, credito, servizi alle imprese e servizi alle persone - superano,
per la prima volta dal 1981, gli addetti all'industria: 51% sul totale
delle attività contro il 48,9%. La tendenza prosegue anche negli
anni successivi, con l'occupazione terziaria che sale (nel 1994) al 55%
(42% nel 1981) e l'occupazione industriale che scende al 45% (quasi 58%
nel 1881), allargandosi quindi ulteriormente la "forbice" tra i due settori.
L'incidenza degli addetti
all'industria, per quanto in forte contrazione, presenta ancora oggi un
valore relativamente elevato (a cui corrisponde un 32% circa di unità
locali, non molto lontano dal 34% del 1981) e tale comunque da ridimensionare
l'idea di una realtà produttiva milanese radicalmente "deindustrializzata".
A questo proposito occorre peraltro tener presente che i dati qui presi
in esame, desunti dall'Archivio Aspo delle Camere di Commercio lombarde,
riguardano soltanto il settore dell'economia privata, con esclusione di
quello dell'economia pubblica. Se si fa riferimento alla rilevazione campionaria
delle forze di lavoro dell'Istat, che comprende anche gli occupati nel
settore dei servizi pubblici, il "tasso" di industrializzazione dell'occupazione
si riduce, sempre nel 1994, al 40,3%, mentre quello di terziarizzazione
raggiunge il 57,9%. Si tratta peraltro di differenze contenute. A Milano
(una delle province maggiormente industrializzate d'Italia) lo spazio occupato
delle produzioni e dai lavori industriali appare, ancora oggi, tutt'altro
che residuale.
Dal 1981 al 1994, ossia
in tredici anni, l'industria in senso lato perde, in provincia di Milano,
il 27% degli addetti, corrispondente, in valore assoluto, a ben 230 mila
unità (-244 mila se si escludono le costruzioni, unico comparto
industriale in crescita). La dimensione media delle unità locali,
che nel periodo aumentano del 16%, subisce perciò un drastico calo
(da 11 a 7 addetti), a significare gli intensi processi di downsizing o
di "smagrimento" adottati dalle industrie per far fronte alle nuove logiche
competitive, che si fondano sempre più sulla messa in opera di reticoli
o di "sciami" di piccole unità produttive disperse nel territorio.
E mentre l'occupazione industriale
cala in modo drammatico, quella terziaria cresce, ma non in misura sufficiente
da compensare le perdite della prima: +132 mila addetti (+21,3%), ossia
quasi cento mila in meno di quelli che sarebbero serviti per pareggiare
i conti. Anche le unità locali dei servizi non sfuggono alla regola
generale che impone loro la contrazione delle dimensioni aziendali (3,9
addetti in media contro i 4,2 del 1981).
Il biennio 1992-1994 si
pone ancora una volta - lo si era già visto a proposito della crisi
occupazionale delle piccole imprese - come un periodo di svolta. In questi
due anni il settore dei servizi subisce una diminuzione degli addetti,
che appare di entità contenuta (-1,2%), ma assume un significato
ben più preoccupante se la si raffronta con la crescita particolarmente
intensa (+7,6%, ossia +3,8% per anno) del biennio 1990-1992 o con quella,
a ritmo più rallentato, dello stesso periodo 1981-1990 (+14,3%,
corrispondente a una variazione media annua del +1,6%). Il fatto è
ancora più grave in quanto si associa alla crisi occupazionale di
dimensioni devastanti che colpisce, sempre tra il 1992 e il 1994, il settore
dell'industria: 111 mila addetti in meno in soli due anni (quasi la metà
delle perdite subite nei tredici anni del "ciclo della deindustrializzazione"
1981-1994), un dato in cui si riflettono le conseguenze negative della
recessione produttiva del 1992-1993.
Il terziario milanese è
sempre più un terziario di qualità. In esso cresce infatti,
fortemente, la componente dei servizi all'impresa o "terziario avanzato",
che assorbe ormai quasi il 13% degli addetti totali (5,3% nel 1981). Un'espansione
più contratta registra invece il comparto del commercio, in cui
si concentra il 23% degli occupati (20% nel 1981) e che tra il 1992 e il
1994 presenta una dinamica negativa (-2,1%). Si espande altresì
la città finanziaria (+27%) e turistica (+12%), mentre si contrae
leggermente la città dei trasporti (-0,4%) e quella dei servizi
alle persone (-7%).
Una prospettiva di analisi
di medio-lungo periodo - come quella qui adottata - fa quindi emergere
nettamente l'operare di una "deriva lunga", quella terziaria, che con tutta
probabilità è destinata a proseguire anche nel prossimo futuro,
sebbene a ritmi più rallentati, come le dinamiche relative agli
anni più recenti sembrano indicare.
Ma non si tratta di una
terziarizzazione accompagnata dal declino delle attività industriali
- caratterizzate, a Milano, da una accentuata diversificazione settoriale,
organizzativa e dimensionale e da una forte proiezione internazionale -
che svolgono e continueranno a svolgere un ruolo determinante e insostituibile
nella struttura produttiva milanese. Semmai è ipotizzabile un ulteriore
rafforzamento delle sinergie tra sistema dei servizi e sistema industriale,
dovuto al processo di esternalizzazione di funzioni terziarie ancora assolte
all'interno delle imprese manifatturiere, processo che, lungi dall'essersi
esaurito, può trovare nuovi stimoli e convenienze in un quadro congiunturale
divenuto più positivo e stabile. Analoghe dinamiche di "outsourcing"
dovrebbero peraltro riguardare le stesse attività di terziario.
Il ciclo espansivo dei servizi
potrebbe inoltre contare su nuove opportunità di accelerazione,
legandosi al presumibile sviluppo di tutta una serie di funzioni urbane
strategiche (telecomunicazioni, aeroporti, spazi espositivi e congressuali,
formazione, ricerca), che viene ormai assunto - almeno nella consapevolezza
diffusa - come condizione determinante del recupero di competitività
del sistema Milano.
Sembrano delinearsi, in
sostanza, i presupposti per una sorta di "fase due" della terziarizzazione
milanese, ossia del passaggio dal "terziario per il fare" al "terziario
per l'organizzare", rivolto quindi allo sviluppo e alla integrazione di
funzioni più propriamente direzionali e sistemiche, che sono poi
le funzioni a elevato contenuto di tecnologie conoscitive, comunicazionali
e relazionali intorno a cui si ridisegna oggi e assume nuova centralità
il ruolo delle aree metropolitane avanzate.
UN SISTEMA PRODUTTIVO
TERRITORIALE PIÙ POLICENTRICO
Le intense trasformazioni
intervenute nella struttura produttiva non potevano non portare ad altrettanto
significativi e complessi processi di ridefinizione delle morfologie territoriali.
La localizzazione delle
unità produttive non avviene più secondo la logica verticale
della concentrazione, ma piuttosto secondo quella orizzontale della disseminazione.
Emerge quella che è stata definita la "fabbrica diffusa", un po'
come se il territorio, non più marcato da rigide partizioni geografiche,
passasse da un'organizzazione per aree o zone ad una per punti - o forse
meglio "per flussi", se si considerano anche le interdipendenze connesse
alla globalizzazione - assumendo quindi un assetto di tipo reticolare.
Tra il 1981 e il 1994 si
ridefiniscono ulteriormente - secondo un processo già iniziato negli
anni '70 - i rapporti tra "città centrale" e il resto del territorio
metropolitano milanese. Mentre Milano città "smagrisce", perdendo
il 13% degli addetti, gli altri comuni dell'area riescono, nel loro complesso,
a mantenere sostanzialmente immutato il livello dell'occupazione, che subisce
un leggerissimo calo (-0,1%). Diminuisce così il peso del "centro"
(dal 49,1% al 45,6% sul totale provincia), mentre aumenta, di conseguenza,
quello della "periferia" (dal 50,9% al 54,4%). Una analoga ridistribuzione
può essere osservata in termini di unità locali, che crescono
molto di più nei comuni esterni (+32% contro il +19% del centro
metropolitano).
Prende così forma
una "maglia" urbana fitta e nello stesso tempo più discontinua,
in cui si sviluppano nuovi sottosistemi territoriali, nuove identità
produttive periferiche. Questa sorta di "distretto diffuso" cresce e si
ramifica soprattutto lungo la "direttrice est" delle circoscrizioni di
Melzo (+17%), Cassano d'Adda (+23%), Vimercate (+8,5%) e nella "corona
sud" di Corsico (+17%), Rozzano (+22%), San Donato (+9,5%), mentre si contrae
nelle aree a più forte e antico insediamento industriale, sia di
cintura (come Rho, -10,4%) che esterne (come Legnano, -11%).
Ancora più rilevanti
appaiono i "rimescolamenti" territoriali in termini di settori di attività
economica. Le industrie abbandonano Milano, la città interna, il
cui peso sulla provincia si riduce, in termini di addetti, al 31,7% (37,6%
nel 1981), per disseminarsi nella città diffusa esterna, che ora
assorbe il 68,3% degli occupati industriali (62,4% nel 1981) e il 65% delle
unità produttive (62% nel 1981). La perdita occupazionale è
assai elevata sia a Milano (-123 mila unità in valori assoluti,
ossia il -38,4%) sia nel resto dei comuni, dove assume una dimensione relativamente
più contenuta (-107 mila addetti, ossia -20,2%) a causa dell'andamento
fortemente positivo delle costruzioni (+35,5% contro il +0,7% del capoluogo).
Ma il mutamento più
interessante risiede nella crescita decentrata del settore terziario (commercio
e servizi), i cui addetti aumentano di oltre il 48% nella città
esterna, contro il +7% circa del capoluogo. Quest'ultimo vede così
diminuire la propria incidenza sul totale dell'intera provincia (dal 64,9%
del 1981 al 57,1% del 1994). Questo fenomeno di terziarizzazione allargata,
che si estende cioè a tutta l'area metropolitana, è chiaramente
connesso al decentramento delle attività industriali e alla dispersione
residenziale della popolazione (tra il 1981 e il 1994 il comune di Milano
perde 283 mila abitanti, che crescono invece di 170 mila unità nel
resto della provincia).
La ridistribuzione delle
attività industriali e terziarie ridisegna quindi le fisionomie
della città centrale e di quella di "corona" rendendole in qualche
modo più simili. Se Milano appare ormai un grande agglomerato terziario
- settore in cui si concentra il 76% di tutte le unità produttive
cittadine e il 68,5% degli addetti - la città esterna conserva ancora
i caratteri diffusi, seppure declinanti, di area industriale (il 56,7%
degli addetti figura qui occupato nell'industria, contro il ben più
elevato 71% del 1981), che si intrecciano a quelli sempre più estesi
di area terziaria (il cui peso passa dal 29% al 43,1%).
L'espansione dell'economia
terziaria si regge peraltro su contributi e andamenti differenziati provenienti
dai diversi ed eterogenei comparti che ne fanno parte. A iniziare dal commercio,
che si contrae al centro (-12% degli addetti) e si diffonde nel territorio
periurbano (+29%) dei nuovi shopping malls, in cui si snodano i vagabondaggi
commerciali dei sempre più erratici consumatori metropolitani. Ed
è proprio in questi "non luoghi" - privi di piazze e di centro -
delle strade commerciali, degli assi viari, degli aeroporti, degli assemblaggi,
delle forniture, dei laboratori, dei nuovi centri del tempo libero, in
una parola del "fuori porta" che la forma città sta veramente cambiando
e reinventandosi. Periferie vitali, dunque, più di quanto sia quella
sorta di "iperluogo" che è piazza del Duomo.
Ma anche la città
"in" dei servizi alle imprese o del cosiddetto "terziario avanzato" (società
di consulenza, informatica, ecc.) assume muove morfologie. Qui si stempera
in misura più che apprezzabile il forte monocentrismo di Milano
città, che vede ridurre il proprio peso sull'intera area metropolitana
(dal 76% al 63%). E nel periodo 1981-1994 la crescita percentuale degli
addetti ai servizi "avanzati" è, nel complesso degli altri comuni,
quasi tripla rispetto a quella del capoluogo.
Analoghi processi di diffusione
decentralizzata si osservano infine anche per gli altri comparti dei servizi,
in particolare per quello delle attività di trasporto e comunicazione,
che a Milano presenta una dinamica di segno negativo (-17%, contro il +32%
dei restanti comuni). Soltanto la funzione finanziaria rimane ancora -
anche se in minor misura rispetto al passato - fortemente concentrata nella
"city" (78,6% contro l'85% del 1981).
Difficile dire se e in quale
misura questa ridistribuzione diffusa delle attività produttive
- non solo di merci, ma anche di servizi - conduca ad un allentamento delle
dipendenze gerarchiche tra centro e periferia e alla messa in forma di
un territorio realmente governato da relazioni orizzontali e policentriche.
Le statistiche sulle variazioni
areali degli "stocks" - come quelle qui utilizzate, mentre servirebbero
"geostatistiche" sulle variazioni dei flussi relazionali, di fatto inesistenti
- non consentono di cogliere questo aspetto. Esse ci dicono, comunque,
una cosa incontrovertibile: che la città periurbana, la città
delle periferie, appare oggi più dinamica della città centrale.
È qui, nella città
esterna - soprattutto in quella dell'est-nord est e del sud-sud ovest -
che sembra quindi prendere forma una nuova trama di microsistemi territoriali,
di tessuti e scambi produttivi, non più unicamente ordinati dal
centro e con esso in rapporto esclusivo. Per diversi di questi sub-localismi,
anzi, come risulta da alcune ricerche effettuate all'inizio degli anni
'90, il centro non rappresenta il partner principale con cui si scambiano
relazioni, il che lascia intuire l'emergere di milieux urbani autonomi,
dotati di proprie funzioni e generatori di rapporti d'integrazione orizzontale
basati sulla ricerca di complementarietà.
Ma a questo territorio concreto,
polimorfo e "distrettualizzato" si sovrappone oggi, sempre più,
il territorio "altro", quello immateriale e senza confini, astratto e invisibile,
costruito sulle reti lunghe e a geografia variabile dei circuiti telematici
globali in cui transitano - da punto a punto, da nodo a nodo - i flussi
dei saperi, dei linguaggi, delle decisioni, delle alleanze. È qui,
in questo territorio "virtuale" e dilatato delle connessioni, che il locale
si fa globale e viceversa. Ed è a questa geografia muta di flussi
senza dati che occorrerebbe iniziare a dare una "statistica".
CONCLUSIONI
Alla Milano anni '90 in
crisi di crescita - dalle performances congiunturali rallentate - corrisponde
un'area metropolitana in transizione, che sta approdando, con i profondi
cambiamenti innescatesi già negli anni '70, a nuove conformazioni
produttive e territoriali. Tre sembrano essere i principali mutamenti di
ordine strutturale che connotano questo passaggio ancora in atto e che
la nostra analisi, per quanto fortemente aggregata, ha permesso di cogliere
con una certa chiarezza.
Si tratta, in primo luogo,
del rilevante processo di snellimento delle unità produttive, che
riducono notevolmente le loro dimensioni fisiche e si disperdono nel territorio.
È il cosiddetto "capitalismo molecolare", da cui tuttavia prende
forma un tessuto produttivo non frammentato e debole, ma semmai più
strutturato e forte attraverso lo sviluppo di quello che abbiamo chiamato
il "capitalismo delle piccole società di capitale".
Si potrebbe discutere, ma
non è questa la sede, se piccolo è sempre "bello", perché
più flessibile e reattivo, o se invece - almeno per quelle funzioni
che per essere affrontare efficacemente sembrano richiedere maggiori economie
di scala (dalla ricerca al marketing) - possa costituire un serio limite
alla crescita e all'innovazione dell'impresa. In ogni caso è lo
stesso concetto di dimensione ad apparire in declino, dal momento che risultano
sempre più sfumati i confini tra la piccola, la media e la grande
impresa, mentre si sviluppano diffusi rapporti a rete.
Il secondo grande mutamento
risiede nella terziarizzazione sempre più spinta e qualitativamente
elevata dell'apparato produttivo. Si può parlare, a questo proposito,
dell'emergere, nell'area milanese, di una nuova "formazione economico-sociale",
che non trova analogo riscontro in altre parti del Paese e i cui aspetti
qualitativi, al di là delle statistiche, sono ancora tutti, in buona
parte, da esplorare. E il futuro di Milano si giocherà soprattutto
qui, nel sistema e nelle nuove filiere dei servizi avanzati, nelle tecnologie
e nell'economia delle relazioni e dei saperi diffusi.
La terza trasformazione,
infine, riguarda il territorio, che cambia faccia e funzione, con il passaggio
dalla dicotomia verticale centro-periferia alla disseminazione orizzontale
e acentrica delle unità produttive, attraverso cui prendono forma
- proprio perché scaturenti dall'"energia" del campo metropolitano
- nuovi sottosistemi e milieux urbani, tendenzialmente autonomi e autoreferenziali.
E questa differenziazione policentrica, frutto di un processo spontaneo,
pone le basi per una nuova organizzazione del territorio fondata sulla
connessione a rete delle funzioni e delle diverse identità.
Tutte queste morfologie
della transizione, produttive come territoriali, si sono create sulla base
di spinte provenienti essenzialmente dal basso. L'area metropolitana è
divenuta di fatto una "città di città" o un "sistema di sistemi".
Quello che ora occorre costruire è il connettore, il dispositivo
della messa in circuito delle parti, pena la dissipazione e il rifluire.
Questo connettore sono le politiche.
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