Impresa & Stato n°42
L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI
Competitivita' attraverso la formazione
Operare sul mercato globale significa anche fare un investimento a lungo temine per rendere le risorse umane esperte in ambito interculturale.
di
CARLOS TALAMAS e GIORGIO BASSANI
Q
uale formazione è necessaria per l'internazionalizzazione
delle risorse umane? Quale supporto è possibile dare alle
piccole imprese nel loro processo di apertura ai mercati stranieri?
Come è possibile facilitare il percorso che sta portando
le imprese italiane dall'export all'internazionalizzazione?
Formaper si sta confrontando - negli ultimi anni
- con queste domande, con queste riflessioni nate da precise esigenze
delle PMI lombarde e sta sperimentando e consolidando proposte
formative che possano efficacemente accompagnare imprenditori
e imprese in questa nuova e inderogabile sfida.
Perché formare l'impresa vuol dire formare
l'imprenditore ma vuole anche dire mettergli a disposizione risorse
che possano inserirsi nel contesto organizzativo e operarvi efficacemente
immettendovi nuovo know how e competenze.
Dal punto di vista della formazione degli imprenditori,
Formaper organizza, ormai da anni, corsi brevi mirati alla creazione
di competenze relative all'export e all'internazionalizzazione:
sono corsi brevi che introducono ai temi dei finanziamenti per
l'internazionalizzazione, dei trasporti internazionali, del marketing
e della contabilità internazionale. L'utenza si va sempre
più specializzando e sono ormai previsti corsi diversificati
a seconda delle esperienze e delle esigenze "internazionali"
dei singoli imprenditori.
Ma è evidente che questi corsi, ancorché
importanti, non possono risultare sufficienti: le piccole imprese
che vogliano affrontare con successo il processo di internazionalizzazione,
necessitano ormai di risorse umane che sappiano muoversi con familiarità
ed efficacia in contesti complessi, dal punto di vista economico,
sociale e culturale.
Vediamo, innanzi tutto, quali sono i requisiti da
ricercare in risorse umane adatte al contesto internazionale:
a prescindere dalle competenze tecniche, ovviamente irrinunciabili,
ciò che riteniamo assolutamente fondamentali sono le competenze
software, ovvero quelle capacità necessarie all'adattamento
e al lavoro in contesti culturalmente diversi. Sono capacità
che non possono che scaturire dalle proprie competenze pregresse,
dalle competenze già espresse in patria, ma sulle quali
devono innestarsi aspetti di propensione personale alle relazioni
internazionali, capacità di valutazione psicologica, competenze
comunicative, capacità di adattamento culturale.
GLI STAGE ALL'ESTERO
E' anche alla luce di queste necessità formative
che nasce nel 1993 il programma di stage internazionali con l'idea
di ospitare in Italia e inviare all'estero giovani laureati che
possano così sperimentare una realtà lavorativa
internazionale e interculturale seppur nel contesto "protetto"
del tirocinio.
Il programma ha origine con lo scopo di aprire alle
imprese italiane contatti con mercati emergenti: i primi paesi
coinvolti sono stati i paesi dell'Europa centro-orientale :
Repubblica Ceca e Ungheria dapprima, Romania, Polonia, Russia,
Ucraina e altri ancora nelle edizioni seguenti. Ospitando giovani
manager di quei paesi, le imprese italiane possono aprirsi delle
finestre su mercati in espansione, tramite la conoscenza di risorse
umane qualificate che hanno operato - seppur brevemente - nella
loro organizzazione e tramite la conoscenza - seppur indiretta
- di una cultura diversa dove potrebbero trovarsi ad operare nel
futuro. E' ovvio che i contatti tra aziende e stagiaire spesso
si concludono alla fine dello stage stesso ma ciò che rimane
all'azienda è una sorta di "imprinting" internazionale,
l'essersi messa alla prova come organizzazione in un contesto
interculturale, l'aver dato ai propri membri la possibilità
di relazionarsi con risorse provenienti da una diversa cultura,
nel senso proprio e nel senso organizzativo, in ambito lavorativo.
Diversi sono ovviamente il contesto e i risultati
previsti dagli stage internazionali per giovani laureati italiani:
nelle due edizioni effettuate finora, i partecipanti hanno svolto
stage di tre-sei mesi, prevalentemente all'interno di CCIE. Sono
stati effettuati stage nell'area del Mediterraneo (Turchia, Marocco
ed Egitto), in Europa (Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Ucraina
e Russia, nonché in alcune istituzioni a Bruxelles), negli
Stati Uniti (Chicago, Houston e Miami) e in America Latina (Argentina,
Brasile, Cile, Messico, Perù e Uruguay). Gli stage hanno
permesso ai partecipanti di seguire dei progetti internazionali
(Alinvest, Mercopartenariat, Meda, Chamber Partnership Phare,
ex. 212, Tacis, Nafta e altri), effettuare ricerche per i report
semestrali delle CCIE e su argomenti specifici, avere contatti
con gli altri organismi che operano a livello internazionale (ambasciate,
ICE, camere bilaterali, ecc.).
Bisogna sottolineare che si tratta, comunque, di
un investimento di lungo periodo, un investimento volto a formare
- in modo internazionale, risorse che solo in futuro potranno
offrire il loro apporto al processo di internazionalizzazione
delle imprese italiane.
Ed è proprio per questo che è importante
che sia la Camera di Commercio ad affrontare l'organizzazione
di un tale investimento, nell'ottica di supportare le imprese
anche fornendo loro risorse formate ed efficaci.
Ma in che senso lo stage forma i giovani laureati?
Qual è il valore aggiunto che uno stage internazionale
lascia in dote ai partecipanti?
COMPETENZE INTERNAZIONALI
Entrando nel dettaglio di quanto anticipavamo nelle
frasi iniziali, crediamo che sia importante sottolineare le competenze
acquisibili in un'esperienza di lavoro internazionale.
Infatti, lasciando ad altri interlocutori la formazione
sulle competenze tecniche, scopo degli stage vuol essere quello
di intervenire e seguire la creazione delle competenze culturali
e personali che garantiscono la capacità di muoversi efficacemente
in contesti interculturali.
Infatti se da un punto di vista professionale la
trasferta internazionale viene sempre più ritenuta una
tappa obbligata all'interno di un positivo percorso di carriera,
dall'altro va sottolineato come spesso le dinamiche ad essa collegata
vengano colpevolmente trascurate da aziende e organizzazioni.
All'estero le responsabilità del lavoratore
diventano spesso maggiori, in proporzione al suo potere decisionale,
e - spesso - è più elevato il suo status sociale.
Dal punto di vista finanziario, una trasferta all'estero significa
solitamente salari e benefit più alti per il lavoratore
e, conseguentemente, maggiori oneri per l'azienda: secondo i
dati di Gauthey e al. (1988) un rientro anticipato può
costare all'azienda da tre a quattro volte la retribuzione lorda
annuale del dipendente rientrato. Malgrado ciò diverse
ricerche hanno dimostrato che una percentuale variabile tra il
dieci e il trenta per cento sul totale delle trasferte all'estero
finiscono con un rientro anticipato (Tung, 1987). Secondo una
ricerca di Moran, Stall e Boyer (1989), nel 1980, solo un'azienda
su tre, negli Stati Uniti, prevedeva corsi di preparazione per
i dipendenti selezionati per una trasferta all'estero; nel 1986
la proporzione si era esattamente invertita e solo un'azienda
su tre non si preoccupava di preparare i propri trasfertisti.
Per quanto in Europa non esistano ricerche così estese,
è possibile pensare che la percentuale di rientri anticipati
sia sostanzialmente simile. Diverso è il caso della preparazione
dei dipendenti da inviare all'estero: ci sono così paesi
che hanno sviluppate attività di consulenza interculturale
(Olanda e Inghilterra su tutti), paesi nei quali i corsi stanno
iniziando a diffondersi (Francia e Spagna) e altri, come nel caso
dell'Italia, nei quali la preparazione interculturale dei dipendenti
rimane un fatto di assoluta novità e scarsamente utilizzato.
L'unico studio comparato di cui siamo a conoscenza è stato
effettuato nel 1986 da Rosalie Tung ed è relativo a un'analisi
delle percentuali di rientri anticipati dei dipendenti mandati
all'estero da Francia, Germania, Giappone e Stati Uniti. Nello
studio della Tung la percentuale fatta registrare da francesi
e statunitensi è quella già citata (10-30%), tedeschi
e giapponesi riescono ad attestarsi su un numero inferiore di
rientri, probabilmente anche grazie a politiche di gestione del
personale effettuate pensando al medio e lungo periodo.
Ma è possibile misurare il grado di evoluzione
della sensibilità interculturale di una persona? Il modello
di Milton Bennett (1986, 1993) studia l'evoluzione della sensibilità
interculturale, in termini di sviluppo personale, partendo dal
presupposto che l'attitudine ai rapporti interculturali non è
innata nell'uomo. Nel modello in questione vengono identificati,
su un continuum, i vari gradi di sofisticazione con cui gli individui
riconoscono e valutano le differenze culturali, da un estremo
di totale negazione (etnocentrismo) all'estremo opposto di massimo
riconoscimento (etnorelativismo). Proprio le differenze culturali
sono il concetto chiave dell'intero modello e questo modello vuole
quindi analizzare come vengono comprese e identificate e vuole
studiare le strategie che ne impediscono la comprensione, utilizzando
un approccio fenomenologico, ovvero descrivendo l'esperienza soggettiva
dell'individuo a contatto con una cultura diversa. Nell'ambito
del suo modello, Bennett definisce la sensibilità interculturale
come "il modo in cui le persone costruiscono le differenze
culturali e le diverse esperienze che accompagnano questa costruzione"
(Bennett, 1993). Quindi lo sviluppo, nel modello, è costituito
da "una costruzione della realtà che sia sempre più
capace di adattare/adattarsi alla differenza culturale"
(Bennett, 1993). E la centralità della differenza nel campo
della comunicazione interculturale è un assunto su cui
esiste un ampio consenso dimostrato, tra l'altro, dalle posizioni
di Hall (1973), Stewart (1972) e Singer (1975). La differenza
culturale può essere percepita a diversi livelli: a uno
stadio iniziale, la differenza viene semplicemente ignorata e
lo sviluppo è semplicemente rappresentato dal riconoscimento
dell'importanza della variabile culturale quale possibile spiegazione
di comportamenti diversi ; a un livello successivo, la propria
cultura viene recepita come una delle tante esistenti o possibili
nel mondo, si tratta di capire se la visione del mondo che uno
sta costruendo è influenzata da variabili culturali che
la rendono diversa, unica. In questo caso, uno sviluppo possibile
è rappresentato dall'incontro e sperimentazione di culture
diverse, dal vivere esperienze interculturali che diano la sensazione
di appartenere a più culture. A uno stadio finale, la sensibilità
nasce dal percepire e sperimentare la costruzione di un'identità
culturale individuale, dal riconoscersi in quanto prodotti culturali
e produttori di identità culturali; la sensibilità
interculturale diviene, in questo caso, un processo dinamico che
permette la scelta e l'integrazione di valori e attributi appartenenti
a modelli culturali diversi. Molto è stato scritto su ciò
che avviene nel momento in cui si entra in una nuova cultura e
sulle fasi che si attraversano nel tentativo di adattarsi ad essa.
Il primo impatto con una nuova cultura lascia spesso, molto spesso,
un notevole senso d'ansia e di solitudine, la consapevolezza della
mancanza di segni e simboli familiari, la paura causata da un
contesto assolutamente nuovo. Questa sensazione è stata
definita shock culturale da K. Oberg (1960) e questo termine è
diventato da allora di uso comune nel campo interculturale. Le
persone (stagiaire o dipendenti) che vivono una trasferta internazionale
passano solitamente una serie di fasi abbastanza codificate e
prevedibili. Le quattro fasi fondamentali sono, nell'interpretazione
più comune : la preparazione alla partenza, il soggiorno
all'estero, la preparazione al rientro e il rientro nella cultura
d'origine. Una volta che è stata selezionata e dopo avere
accettato l'incarico, la persona deve prepararsi alla partenza,
da un punto di vista pratico (visti, trasloco, ecc.) e da un punto
di vista culturale (lingua, usi, costumi, ecc.). All'arrivo nella
nuova cultura dovrà abituarsi alla nuova situazione e adattarsi
ai nuovi contesti culturali, sociali, climatici e via dicendo.
Prima del rientro, di nuovo, l'expat (l'expatriate, ovvero la
persona stata all'estero) si trova a dover affrontare i preparativi
per una nuova partenza; una volta rientrato nel paese d'origine
si tratta di riadattarsi alla propria cultura e all'organizzazione
d'appartenenza. Come fa notare Nancy Adler (1991), la trasferta
internazionale include in verità due forti momenti interculturali:
l'ingresso in una nuova cultura e il ritorno a casa. Spesso il
secondo, tanto difficile e non meno importante del primo, è
sottovalutato, quando non addirittura ignorato, dalle aziende
o dalle organizzazioni e questo spiega almeno in parte l'alto
numero di expat che lasciano le organizzazioni o esprimono un
malcelato malessere dopo il loro rientro in patria. Queste sono
alcune caratteristiche che accomunano tutte le trasferte internazionali.
Le trasferte sono sicuramente esperienze complesse, cariche di
problemi e di stress: questi motivi bastano da soli a giustificare
il bisogno di preparazione, di supporto, di orientamento. Il successo
di una trasferta dipende in modo molto stretto dalla consapevolezza
che l'individuo ha acquisito della propria identità culturale:
infatti una scarsa consapevolezza rende difficile, se non impossibile,
comprendere l'impatto che la variabile culturale può avere
sulle relazioni interpersonali e quindi può inficiare fortemente
l'efficacia delle relazioni e della comunicazione nell'ambito
della nuova cultura. L'esperienza internazionale inoltre modifica
le persone: le cambia in termini di attitudini e comportamenti
e fa aumentare le loro conoscenze e le loro capacità.
Questa affermazione risulta essere di particolare importanza nella
fase del rientro a casa, in quanto è spesso difficile per
l'organizzazione, per i familiari e gli amici riconoscere che
l'individuo appena tornato a casa non è più la persona
e il professionista che usava essere prima di partire. Infine
ci preme sottolineare che le trasferte internazionali, così
come qualsiasi altro tipo di cambiamento, rappresentano comunque
dei forti momenti di apprendimento: apprendimento personale, culturale
e professionale, che deve essere favorito, facilitato e, infine,
valorizzato dai singoli partecipanti così come dalle organizzazioni
che li inviano all'estero.
L'AZIONE DI FORMAPER
E' proprio alla luce di questi motivi e di questi
riferimenti teorici che il programma Formaper è fortemente
strutturato nelle fasi di selezione, preparazione, assistenza
e valutazione delle esperienze di stage all'estero. Nella fase
di selezione vengono effettuati test psicoattitudinali e colloqui
motivazionali volti a sondare le capacità di adattamento
e di elasticità mentale dei candidati; la fase di preparazione
si basa su un corso di preparazione con particolare attenzione
ai temi della trasferta e della comunicazione interculturale nonché
sulla definizione - il più accurata possibile - dei programmi
individuali di stage e degli aspetti logistici legati alla trasferta.
Durante gli stage, l'assistenza avviene prevalentemente a distanza
(tramite e-mail, telefono e fax) con i partecipanti che debbono
rispettare un sistema di reporting basato su un inception report
da farsi poco dopo l'arrivo nel paese ospitante, report bisettimanali
e una relazione finale da consegnarsi dopo il rientro. Inoltre
gli stagiaire vengono affiancati da un tutor interno all'organizzazione
ospitante. Il follow up seguente al rientro si basa invece su
una riunione di valutazione effettuata dopo la conclusione degli
stage nonché su una certa assistenza -ove possibile - per
quanto riguarda lo sviluppo delle carriere professionali tramite
l'inserimento nel data base dei curriculum vitae degli esperti
internazionali per i progetti Formaper, la creazione di una rete
con aziende operanti nelle aree di effettuazioni degli stage.
Per concludere, si tratta di un investimento decisamente
rilevante da parte della struttura camerale che, seppur nelle
sue prime edizioni, pare dare risultati confortanti, quantomeno
dal punto di vista della qualità dei lavori effettuati
dai partecipanti durante gli stage e che, crediamo, contribuirà
- soprattutto se sarà possibile incrementare il numero
delle organizzazioni e delle aziende coinvolte - a creare risorse
sempre più formate ed esperte in ambito internazionale
e in grado di operare con efficacia in contesti complessi e in
situazioni cariche di stress. Risorse che, a loro volta, potranno
contribuire a migliorare la competitività e l'efficacia
delle imprese italiane che vogliano e debbano operare nel mercato
globale.
 
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