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Impresa & Stato n°42

La quarta fase della comunicazione pubblica

di Stefano Rolando

Come i cambiamenti strutturali e il decentramento hanno modificato l'atteggiamento delle istituzioni nel presentarsi: una breve storia e alcuni spunti di riflessione

Q uesto intervento vuole ipotizzare l'ingresso della comunicazione pubblica nella sua quarta ufficiale fase di vita.
Ma prima di far luce su questa affermazione sarà bene riprendere un attimo la penna sugli aspetti definitori.
Abbiamo mantenuto a lungo l'idea della comunicazione pubblica come area occupata da soggetti pubblici e privati, convergenti sulla propria identità di fonte sostenuta da risorse pubbliche o espressione di interessi collettivi o di una dimensione valoriale non riconducibile ad affari. Oltre che naturalmente a tutto l'ordinamento - centrale e territoriale - dello Stato e dei soggetti istituzionali sottoposti a controllo delle magistrature amministrative.
Dunque un'area contenitrice della fonte politica (privata ma con rilevanza costituzionale), della fonte sociale (pubblica, privata e associativa), della fonte istituzionale (apparato dello Stato) nonché della fonte amministrativa riconducibile al sistema dei servizi pubblici e all'erogazione di servizi dovuti.
L'espressione "comunicazione istituzionale" aveva creato conflitti di definizioni rispetto all'uso invalso dei pubblicitari di considerare con questa espressione soprattutto la comunicazione di impresa nella sua operatività preliminare a quella di prodotto, legata cioè all'identity e al sostegno della dimensione corporate.
Ora, a ben guardare, si potrebbe utilizzare l'espressione (proposta dal prof. Gregorio Arena, nel quadro di ricerche sostenute dal CNR sulla materia) di comunicazione di interesse generale per ridisegnare più o meno lo stesso perimetro già individuato ma al cui interno si rendono visibili:
- la fonte dei partiti politici
- la fonte associativa e sindacale
- il non profit
- la dimensione di impresa costituita come cultura dell'efficienza e dello sviluppo e dunque in proposta valoriale
- il quadro istituzionale
- la pubblica amministrazione
- i servizi pubblici.
Visto che la parola "istituzionale" può ingenerare equivoci, possiamo riprendere la distinzione tra comunicazione politica, sociale e pubblica per identificare nel primo caso i partiti, nel secondo i soggetti privati e nel terzo caso l'insieme delle fonti proprie dell'apparato pubblico.
In questo terzo segmento si distinguono poi tante linee diverse per natura della comunicazione, responsabilità della fonte, profilo dei destinatari. La comunicazione diventa così, a seconda dei casi, parlamentare, governativa, regionale, dell'ente locale, dell'agenzia promozionale o di servizio, fino al dettaglio del carattere che imprime la fonte ultima di diffusione. Così articolata per fonti la comunicazione di interesse generale si propone come area diversa da chi trasferisce dati, informazione, opinione e conoscenza in un'ottica di tendenziale particolarismo - ancorché legittimo e per lo più di preziosa dialetticità - ovvero per ragioni di interesse economico-finanziario ovvero ancora connotando lo stesso prodotto di informazione e di comunicazione come portatore di un valore aggiunto economico o di requisiti di consolidamento di una negozialità (credibilità/capacità/influenza) che si sviluppa prescindendo dalla coerenza con ciò che si chiama "bene comune o collettivo". Pur potendo anche largamente dimostrarsi coerente con tale prospettiva.

LE FASI DI SVILUPPO
Ed eccoci in breve alle quattro fasi.
L'uscita dalla lunga notte è datata nella prima metà degli anni Ottanta, nel quadro di un Paese reattivo al blocco di prospettiva apparentemente prodotto dagli anni Settanta. Inflazione, terrorismo, crisi economica e una sorta di rinuncia alla dialettica democratica (la necessità di unire tutte le forze politiche contro la congiura delle negatività). La ripresa ripropone il problema della negozialità dell'Italia, il suo fare appello all'interno per liberare forze produttive e all'esterno per riguadagnare una posizione internazionale. La comunicazione costituisce un bisogno sostanzialmente di tipo aziendale, pur facendo leva su fattori di identità politico-costituzionale (al centro di quegli anni le campagne - sostanziate da iniziative di ricerca culturale e di animazione sociale e istituzionale - per il quarantennale della Repubblica e poi per il quarantennale della Costituzione). Cade il principio della delega esclusiva alla politica (a lungo condivisa con i media, non con la Pubblica Amministrazione). Si afferma un diritto all'esternazione delle istituzioni in quanto tali. La stessa pubblicità, vedette del mercato, è una scoperta per la prima volta sottratta all'esperienza dell'impresa. Non si sa valutare il potere di questo strumento indipendentemente dall'indurre comportamenti economici, ma si coglie subito l'efficacia pervasiva e il contributo - dopo tanti anni di bizantinismo politico - a trovare alcune vie di semplificazione e di sintesi nella comunicazione.
La seconda fase si disegna nella seconda metà degli anni Ottanta. Lo strumento esternativo non può essere usato a lungo senza investire presto su contenuti avvertiti come "utili" dai cittadini. Prosegue il carattere divulgativo, esternativo, unilaterale della comunicazione. Alla spinta iniziale data dal Governo ora si affiancano anche Regioni e Comuni. Si va verso esperienze di comunicazione sociale delle istituzioni. Droga, Aids, parità uomo-donna, handicap, condizione degli anziani e dei giovani, questioni dell'immigrazione, insorgenze razziali. Gli argomenti sono tanti e nascono le "campagne sociali" firmate dallo Stato. "Pubblicità Progresso" deve ridisegnare un proprio ruolo. I primi anni Novanta vedono allargati i contenuti di questo tipo di comunicazione (dalla pubblicità all'audiovisivo, dagli speciali editoriali alla costruzione di eventi di comunicazione) verso nuove insorgenze: i temi economici, soprattutto legati ai primi sintomi della crisi dello Stato sociale (le pensioni) e alla percezione del peso eccessivo del debito pubblico (le privatizzazioni).
Ma lo stesso inizio degli anni Novanta - con le note leggi sulla trasparenza e sull'accesso - apre la terza fase della comunicazione pubblica, quella realmente rivoluzionaria per il costume della Pubblica Amministrazione. L'interattività, per ora intesa come diritto anche individuale all'informazione e quindi come affermazione del principio dello sportello e - tra il 1993 e il 1994 - al vero e proprio obbligo a costruire spazi di accesso e di relazione con l'utente. Si capirà presto che troppe lacune - culturali e organizzative - spingono le amministrazioni più in difesa che in attacco in materia di "sportelli". Di conseguenza anziché sviluppare una cultura di marketing (esplicitamente prevista dalla normativa e dalle successive direttive) questa fase tende a produrre modesti argini al reclamo, all'insoddisfazione. Ma intanto si consumano nuove esperienze e si approfondisce l'esigenza - per le amministrazioni più avvertite - di legare questa nuova fase a quelle precedenti, operando secondo princìpi di maggiore integrazione tra informazione (ruolo degli uffici stampa), comunicazione (attività di esternazione) e accesso. Sarà una minoranza a fare con proprie forze professionali questa saldatura. Ma come sempre bastano pochi casi per produrre esemplarità e far dichiarare una potenzialità già iscritta nel cielo stellato delle esperienze. Nasce il bisogno formativo, nasce ormai anche un mercato professionale e consulenziale esterno. L'amministrazione centrale entra in sofferenza e alla lunga arresta la sua onda. Si sviluppa piuttosto quella delle città e delle aziende locali di pubblico servizio, mentre le regioni entrano nel negoziato sulle competenze istituzionali e smarriscono (non tutte ma le più) il senso del coinvolgimento dell'opinione pubblica nella fase dei nuovi equilibri istituzionali, forse a causa dello strapazzamento che del tema fanno la Lega e i media.
Eccoci nell'ultimo spicchio di decennio (anzi di secolo, anzi di millennio) a riconoscere una quarta fase, che - ormai è chiaro - non sostituisce le precedenti ma le complementarizza.
Potremmo chiamare questa nuova fase quella della comunicazione del cambiamento, ovvero quella dell'irrisolta partecipazione dell'opinione pubblica verso i grandi traguardi delle riforme interne e internazionali destinate a mutare i connotati costituzionali stessi del Paese. L'ingresso in Europa e le regole interne per consolidare la democrazia e soprattutto l'invocata efficienza del sistema pubblico. Non solo. Le modificazioni del welfare state, la ristrutturazione del sistema del lavoro, la nuova coabitazione sociale e culturale con i flussi migratori. Basterebbero questi segmenti a costruire un'agenda di priorità - già legittimata, già considerata importante e urgente - nelle relazioni tra istituzioni e cittadini, in ordine a cui non basta la politica così come non basta l'amministrazione. Politici e funzionari debbono trovare terreni di sinergia per riepilogare le opportunità e le tecniche messe a disposizione dalle fasi precedenti (dall'ufficio stampa alle attività di comunicazione, dalla pubblicità all'organizzazione di eventi, dalla gestione dell'accesso all'interattività e alla relazione diretta) e costruire programmi di spiegazione, interpretazione e diffusione della conoscenza connessi al quadro di cambiamenti che, se non partecipati, possono spezzare l'equilibrio tra società e istituzioni e comunque depotenziare la dimensione competitiva del Paese. E questo vale per l'amministrazione centrale come per quella regionale e territoriale.

LA COMUNICAZIONE DEL CAMBIAMENTO
La comunicazione del cambiamento è un processo ormai studiato sia per l'esperienza aziendale che per quella dei soggetti pubblici. I connotati che si vogliono attribuire a questa funzione possono cioè ricondursi alla crisi di contesto e di organizzazione che induce un'azienda a rigenerarsi o ad affrontare altri mercati o a far modificare la propria identità o la propria offerta; così come possono investire un ente o una Pubblica Amministrazione che si trovino ad essere misurati con parametri mai praticati: la concorrenza, un forte problema di efficienza, la validazione esterna delle proprie prestazioni, eccetera.
Tuttavia in questa sede il senso di "cambiamento" - pur investendo anche queste dimensioni operative - vorrebbe riferirsi a qualcosa di più epocale per i soggetti pubblici. Il senso cioè di una svolta nelle relazioni con il cittadino, il senso di una scommessa partita dai disagi e dalle incongruenze del caso italiano nell'ultimo decennio, ovvero nel processo di avvicinamento alle regole, ai parametri e ai costumi dell'Europa.
La cultura di "patto" che ispira ormai molti degli atti o dei pronunciamenti di modifica, di adeguamento, di riforma della propria organizzazione rispetto al bisogno di capovolgere l'autoreferenzialità della pubblica amministrazione italiana verso la cultura del servizio, l'obiettivo della prestazione incidente, l'orientamento all'ascolto, la capacità di rigenerare l'organizzazione secondo quella che potrebbe essere chiamata l'influenza degli utenti (una sorta di cultura del mercato) entra a poco a poco negli stessi profili della nuova normativa.
E' chiaro a tutti che la trasposizione di culture aziendali nella logica e nel sistema di vincoli della pubblica amministrazione produce distorsioni che vanno saggiamente governate. Senza isterismi o ideologismi. Ricollocando queste prospettive di efficienza e di servizio nella natura propria di processi che richiedono procedure di legittimazione sempre dipendenti dalla politica e che, a valle, trovano pur sempre un cittadino non sempre educato allo scambio pertinente e competente con la funzione pubblica.
Ma è proprio il senso inderogabile di spingere un diverso processo di partecipazione dell'opinione pubblica alla comprensione delle motivazioni e dei meccanismi di trasformazione che induce ad abbandonare la sponda inerziale e tentare la via delle riforme: riforma dello Stato sociale, riforma delle istituzioni e ridefinizione del decentramento, alleggerimento dello Stato economico e processo di privatizzazioni, inquadramento del processo economico interno alle regole del'integrazione europea, equilibrio delle nuove misure di governo all'imporsi dei fenomeni di glocalism (una sorta di globalizzazione dell'economia collocata in una crescente territorializzazione di tutto il resto).
L'imponenza di questo tema richiede una comprensione diversa e diffusa dei limiti e delle potenzialità del modo di funzionamento dei media e una percezione molto più dinamica di come usare le istituzioni a scopo di comunicazione di pubblica utilità. Attitudini, queste, messe a prova di recente (se ne è già fatto cenno) proprio dalle difficoltà poste da tante emergenze di vedere concepita e gestita una buona comunicazione ai cittadini. Alcuni casi stanno diventando oggetto di laboratorio nelle università.
Risulta evidente che il processo di autonomizzazione della Pubblica Amministrazione rispetto alle esigenze di comunicazione del ceto politico - quel processo che ha visto per dieci anni svilupparsi funzioni diverse e complementari negli ambiti tecnici delle amministrazioni rispetto alla comunicazione di indirizzo o di consenso sviluppata dai politici - deve ora confluire in una dimensione di chiaro accordo tra politici e funzionari per rendere possibile e sensata la gestione di questa "comunicazione del cambiamento". Le complementarità sono ovvie e le circostanze in cui accadono proprio le emergenze rendono chiara anche la domanda dei cittadini al riguardo. Sull'Albania vanno in televisione indispensabilmente anche i generali, gli ammiragli e i caporalmaggiori oltre al ministro della Difesa. Così come sulla moneta o sulla sanità o sull'ordine pubblico il ricorso alla testimonianza e alla responsabilità di gestione dei servizi da parte dei tecnici è costume ormai invalso e considerato indispensabile dagli utenti.
Può sembrare una fuga in avanti o uno sconfinamento verso i caratteri sfumati della "comunicazione politica" spingere oggi la Pubblica Amministrazione a farsi carico - entro chiare compatibilità, ovvero nel particolare coinvolgimento di settori che si relazionano in disparate forme direttamente all'utenza - di queste "grandi missioni" informative da coniugare con tutto l'ambito di servizio tecnico (reti, sportelli, accoglienza, accesso, eccetera) ancora ampiamente inespresso.
"Grandi missioni", non a caso presidiate dalla politica e dai media. Che richiedono, inoltre, trattamento competente pena l'aumento della confusione e dell'incomprensibilità.
Può sembrare soprattutto un rischio metodologico, come segnare una delegittimazione dello specifico informativo di servizio (su cui ancora c'è quasi tutto da fare in termini di formazione, di organizzazione, di implementazione tecnologica e di ricerca) per riaprire quella valvola della politica che è ambito di necessaria demarcazione per affermare la distinzione e la complementarità dei ruoli nelle istituzioni.
Eppure dobbiamo confidare sulla possibile acquisibilità da parte dei professionisti istituzionali di un consolidamento delle prestazioni di servizio (valore aggiunto reale nel trasferimento informativo al cittadino) coniugato con uno sviluppo di ruolo - ancorché limitato alla promozione delle conoscenze oggettive e alla chiarificazione del sistema di regole, vincoli e opportunità - nell'area della comunicazione valoriale connessa ai grandi cambiamenti.

IL DECENTRAMENTO, AMBITO REINVESTITO
E' del resto questa connessione quella che spiega ulteriormente la necessità di lasciare alla cultura della comunicazione la guida di un indirizzo strategico dell'intero comparto delle relazioni esterne nelle Pubbliche Amministrazioni. Ma non è solo un argomento tattico a sostenere questa prospettiva. Se ci immedesimiamo nel lavoro concreto di tanti funzionari oggi impegnati nelle dimensioni di fronteggiamento informativo diretto del cittadino, la prospettiva descritta trova più chiara illustrazione.
Dunque prima di metterci nei panni di un altolocato funzionario ministeriale a capo di un'elevata missione (poi si arriverà anche a questo perimetro di operatività) proviamo a riflettere sulle funzioni di un operatore di trincea, un tecnico di prima linea.
Ipotizziamo - per aver visto e conosciuto direttamente un contesto di questo tipo - che si tratti di un funzionario, relativamente giovane, con laurea in scienze umane (diciamo psicologia), qualche esperienza di insegnamento e di carattere amministrativo alle spalle, ora incaricato di gestire lo sportello informativo (diciamo rivolto all'utenza giovanile) di un robusto comune nella cintura metropolitana di un grande centro che esprime seri problemi di pendolarismo, disoccupazione, sicurezza, qualità della vita, socializzazione e cultura. Basterebbe una piccola spinta di legittimazione e di inquadramento formativo delle problematiche qui citate per ottenere un forte consenso di questo funzionario verso l'allargamento di missione che, per altro, avverte come naturale e pertinente. Non solo. Ma anche inquadrabile nei format tecnologici di cui dispone. Soltanto con una richiesta di contenuti comunicativi adeguati, ovvero calibrati per una reale divulgazione di massa.
Infatti di trasformazione del welfare il nostro funzionario si occupa dalla mattina alla sera. E molto concretamente. Lo stesso dicasi per i problemi dell'immigrazione e delle conseguenze problematiche di convivenza nei luoghi civili e di lavoro. Pari incidenza ha la questione dei mutamenti strutturali del lavoro. Fin qui si direbbe siamo nell'ordinaria amministrazione. Quanto al cambio delle regole costituzionali è evidente che si tratta di richiamare l'attenzione professionale del nostro operatore su un nesso logico tra forme e contenuti del sistema. Ma dal momento che capita una volta ogni mezzo secolo di cambiare la Costituzione, non dovrebbe apparire impossibile per questo Stato "arruolare" questo tipo di operatori in un allargamento di missione informativa su una casistica così eccezionale.
Quanto all'Europa se non si cerca di allargare proprio nella dimensione sociale ed economica gli spazi di informazione utile che si configurino come ambiti di scommessa e di speranza (a fronte del noto quadro di sacrifici attualmente esaltato dai media) sarà difficile immaginare che i soli sportelli delle istituzioni comunitarie operino il necessario adattamento culturale di cui tutti parlano senza che i motori educativi (scuola e apparato pubblico) facciano molto per modificare ignoranze e incertezze.
Quanto al problema del nuovo analfabetismo comportante esclusione dai processi di informazione in rete, sono proprio i presidi pubblici operanti su queste reti (con la mediazione umana dell'operatore) nelle condizioni più adatte per far crescere - nella pratica quotidiana su problemi anche semplici e che toccano interessi individuali - fenomeni di stimolazione, acculturazione e partecipazione.
In buona sostanza è qui posto il problema di uno Stato che avverta come propria la responsabilità di fare partecipare - per segmenti concreti - la propria gente alla massima comprensibilità dei processi in questione. Pena spezzarsi, pena scomporsi, pena - una volta di più nella nostra storia - assoggettarsi.
E' chiaro che altri soggetti pubblici - oltre alla spina dorsale della pubblica amministrazione - sono in pista centralmente per concorrere alla stessa prospettiva. Potrebbe essere, per esempio, in pista la scuola. Il dibattito è aperto da tempo. Ma la percezione della delicatezza del tema e dell'impreparazione della struttura pedagogica del sistema educativo italiano a operare interpretativamente nella realtà contemporanea sono argomenti noti. E difficilmente si potrebbero produrre improvvisazioni. La spinta potrebbe qui essere raccolta per compiti importantissimi ma più mirati. Come quello di un allargamento delle conoscenze e dei programmi alla realtà storica e artistica del nostro tempo e l'impegno a presidiare meglio certe profilassi socio-sanitarie. Oltre al profilo di combattimento contro i nuovi analfabetismi tecnologici.
Ecco perché la politica e i media restano pilastri centrali della relazione con l'opinione pubblica. Ma intanto anche i tempi sono cambiati rispetto alla vocazione civico-pedagogica della politica e dell'informazione. Oggi il ruolo rappresentativo e di mediazione dei partiti è in trasformazione con incerti esiti. E la politica trova sviluppo piuttosto nei suoi specialismi e nelle sue tecnicità. E così i media sono sollecitati dalle condizioni del mercato editoriale ad un trattamento dell'informazione in cui il concetto invalso di "notiziabilità" può intervenire in modo sconvolgente sulle prospettive di cui stiamo parlando.
A valle del trattamento della politica e dei media, molte questioni di semplificazione e di allargamento delle conoscenze di base restano perfettamente irrisolte. Ecco perché il nostro funzionario di sportello periferico (stiamo parlando in Italia di migliaia di operatori attualmente collocati - o mal collocati - in questa dimensione operativa non solo nella burocrazia ministeriale e degli enti territoriali ma in un vasto spettro di pubblici servizi) ritrova una centralità nella visione di una fase di funzioni dell'organizzazione dello Stato che, lo ripetiamo volentieri, non cancella ma anzi rafforza il profilo di prestazioni di servizio connesse all'accesso ispirate dalle normative degli ultimi anni.
E se questo allargamento di missione tocca legittimamente il funzionario periferico, sarà chiaro che il dirigente ministeriale sarà di fronte a scelte più semplificate: comprenderà che il suo stesso futuro professionale dipende da un "valore aggiunto" percepito all'esterno diverso da quello attuale e che il mantenimento di una burocrazia socialmente improduttiva ha compiuto il suo ciclo, entrando nel travolgente rischio del declino.