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Impresa &Stato n°42

PRIVATIZZAZIONI COMUNALI

di Francesco Cavazzuti

Di privatizzazioni "comunali" si incominciò a parlare in tempi precedenti le iniziative, e al conseguente dibattito, tese a realizzare le grandi privatizzazioni "nazionali". Di ciò fu causa l'introduzione nel nostro ordinamento della Legge 142/90 che in materia di riorganizzazione delle forme di gestione dei servizi pubblici locali prevede, nell'ormai celebre art. 22, 3° comma, lett. e, la possibilità di utilizzare la società per azioni a maggioranza pubblica del capitale.
Il termine "privatizzazione" non aveva, in verità, accompagnato le pur numerosissime esperienze che avevano visto già in precedenza gli enti locali partecipare a società di capitale costituite per una grande varietà di scopi. Come ha dimostrato un noto Referto della Corte dei Conti, i Comuni hanno da tempo adottato forme societarie per la promozione economica locale; fra queste hanno assunto un ruolo importante le società consortili, peraltro previste e agevolate dalla legislazione speciale in materia di promozione delle piccole e medie imprese, come le LL. 675/77, 240/81 e 317/91.
La forma societaria da tempo è inoltre utilizzata per la gestione di aree per insediamenti produttivi, per la costruzione di complessi infrastrutturali come porti, interporti, mercati all'ingrosso, fiere, ecetera.
Da un punto di vista storico si può dire che il termine "privatizzazione" esprime innanzitutto la tendenza alla riduzione del ruolo dello Stato e degli enti pubblici nell'ambito dell'economia.
Le esperienze finora citate, invece, hanno costituito e ancora costituiscono un filone importante del regime di economia mista che ha caratterizzato il rapporto fra Stato e mercato nel nostro e in altri Paesi per una lunga fase storica, dalla cui uscita il termine "privatizzazione" è divenuto praticamente il sinonimo. Nel caso dei servizi pubblici, al contrario, il termine "privatizzazione" ha acquistato una particolare enfasi dal momento che essa si riferisce ad attività tradizionalmente rientranti nei compiti dell'ente pubblico locale sulla base di una consolidata tradizione anche politica: si ricordi infatti quel "socialismo municipale" che in epoca ormai lontana diede segno di sé alle prime municipalizzazioni dei servizi pubblici locali anche se non deve essere dimenticato che, in epoca successiva, l'utilizzazione della S.p.A. come metodo di gestione dei servizi pubblici locali venne espressamente prevista dal Testo unico sulla finanza locale del 1934.

DUE NOZIONI DIVERSE
Il recente dibattito sulle privatizzazioni, non solo relativamente a quelle locali, ha, in realtà, sottolineato che con il termine "privatizzazione" si intendono due nozioni assai diverse. La prima di esse riguarda la situazione nella quale si ha una vera e propria dismissione dell'attività da parte dello Stato e/o dell'ente pubblico, sia che questa avvenga tramite la vendita delle attività stesse e dei complessi dei beni ad esse collegati, sia che questa si realizzi tramite la cessione degli assetti azionari nei quali si esprime la proprietà pubblica.
Si parla invece di privatizzazione "formale" quando l'attività resta in capo allo Stato o agli enti pubblici, utilizzandosi una forma privatistica di gestione quale è tipicamente la società per azioni, della quale il controllo proprietario resta nelle mani del pubblico. Il modello è, ovviamente, in Italia quello consacrato dal sistema delle imprese a partecipazione statale e dalla legislazione che lo riguarda. A esso si ispira anche la Legge 142/90 che, al di là della già ricordata enfasi sulla sua portata, resta perfettamente in linea con la tradizione già consolidata dell'utilizzo della forma societaria da parte degli enti locali per la gestione delle iniziative economiche che abbiamo ricordato. Se poi si riflette sul fatto per cui la norma citata non preclude la possibilità per cui il capitale della società sia integralmente pubblico, l'interpretazione proposta non può che uscire rafforzata. L'art. 22, 3¡ comma, lett. e dispone, infatti, il ricorso alla forma societaria "a prevalente capitale pubblico locale" senza la fissazione di un tetto massimo di partecipazione.
E, d'altra parte, le esperienze sin qui condotte, in concreto, in materia di "privatizzazione" dei servizi pubblici sono, salvo una qualche anche importante eccezione, caratterizzate dalla costituzione di società con capitale pubblico totalitario o quasi totalitario.
La tendenza in atto appare, in effetti, sostanzialmente orientata a trasferire in forma societaria la realtà delle attuali aziende municipalizzate. Salvo, come si è detto, qualche raro e importante caso, sono durate lo spazio di un mattino le illusioni relative alla costituzione di pubblic companies locali. La inserzione nei mercati finanziari dei valori mobiliari connessi alla privatizzazione delle utilities avrebbe comportato, e comporta tuttora, una riconsiderazione della dimensione territoriale delle attività delle aziende, delle opportunità di accorpamento delle stesse, di ristrutturazione del management: un complesso, cioè, di adempimenti che sembrano, al momento, fuori della portata delle capacità politiche locali.
Il modello della L. 142/90 è stato modificato dall'art. 12 della L. 498/92 per il quale si è resa possibile la costituzione di società a maggioranza privata per la gestione dei servizi pubblici locali.
La norma ha avuto sinora scarsa fortuna pratica, soprattutto per il grave ritardo dei tempi di approvazione del decreto ministeriale, emanatosi solamente nella seconda metà del 1996, che ne dettava le condizioni di applicazione. L'intervenuta emanazione di quest'ultimo (d.p.r. 18 settembre 1996, n. 533) può costituire un incentivo a modificare la tendenza descritta dianzi. Non sembra tuttavia che nei mesi che ci separano dall'emanazione del decreto l'occasione offerta dalla Legge abbia destato grande interesse. L'opportunità, infatti, offerta dalla Legge 498/92 risponde alla necessità di aprire gli assetti azionari e manageriali agli apporti privati, cosa che appare distante dalle tendenze sinora espresse dai governi locali. L'art. 12 della Legge 498/92 fornisce peraltro l'occasione per una rapida riflessione in termini di diritto societario.
La facoltà di costituire società con minoranza pubblica del capitale è subordinata a una serie di condizioni sia per quanto concerne la composizione del capitale fissandosi al venti per cento la quota minima di partecipazione del pubblico, sia per quanto attiene alle garanzie di rappresentanza dello stesso negli organi societari. Non solo, ma la scelta del partner o dei partners privati è regolata da una complessa procedura instauratrice di una gara di evidenza pubblica. Si tratta di aspetti che meriterebbero considerazioni più approfondite di quelle che possono svolgersi in questa sede, ma che dimostrano come il legislatore - d'altra parte questo è il medesimo modello proposto dalla L. 474/94 in tema di privatizzazioni "nazionali" - si sia orientato alla creazione di società il cui grado di "specialità" appare, quasi paradossalmente, più elevato del modello proposto dall'originaria Legge 142/90.
Il panorama, in realtà, è ancora più complicato qualora vengano prese in considerazione altre fonti normative. Già poco dopo l'approvazione della Legge 142/90, la Legge 362/791 al suo art. 10 ha statuito che fra le forme di gestione delle farmacie comunali vi sia quella "a mezzo di società di capitali costituite tra il Comune e i farmacisti che, al momento della costituzione della società, prestino servizio presso farmacie di cui il Comune abbia la titolarità". Si tratta di un istituto che ha subito infinite vicissitudini applicative anche per gli ostacoli frapposti dai tribunali e dagli organi amministrativi di controllo. Di recente, inoltre, con la L. 122/97, art. 17, comma 59, il legislatore ha sentito la necessità di introdurre nel nostro ordinamento un nuovo tipo di società speciale: la società di trasformazione urbana a partecipazione, anche minoritaria, del pubblico. Essa è, e almeno sembra, destinata all'acquisizione di aree interessate e alla loro commercializzazione. Questa nuova società, come quella per la gestione delle farmacie comunali, meriterebbe un discorso molto articolato che non può essere svolto da queste note tematiche. Queste società, pur nella diversità della loro configurazione, esprimono una tendenza, assai discutibile, a prevedere soggetti speciali per singoli tipi di attività, realizzandosi in tal modo una pluralità di tipologie societarie, in senso lato, con un sovrapporsi di normative di applicazione quanto mai problematiche e fonte di incertezza per gli operatori.
Alla disciplina dell'attività, per fare una comparazione fra le tante possibili, è invece ispirato il sistema francese delle società d'economia mista le quali godono di uno statuto di carattere generale, risalente ormai agli anni '20, e che incontrano operativamente soltanto la disciplina specifica delle attività loro affidate.
Si consideri, inoltre, che il modus operandi delle stesse società previste dalla L. 142/90 non è andato indenne da restrizioni relative all'autonomia del socio pubblico, pur obbligatoriamente maggioritario, nella scelta del partner privato. Mentre la giurisprudenza ordinaria ha sempre riconosciuto tale autonomia, quella amministrativa si è nettamente espressa per la necessità della gara a evidenza pubblica anche nel caso di società a maggioranza pubblica.

UN PROFILO NON ESALTANTE
Il profilo delle "privatizzazioni locali" che sin qui si è tentato di tracciare non ci offre un quadro esaltante. A dipingerlo così concorre una scarsa propensione degli enti locali a sfruttare le aperture offerte dalla legge, ma anche la farraginosità di una legislazione che, nel momento in cui enuncia tali aperture, le subordina ad una serie di condizioni che ne rendono assai problematica l'attuazione.
Il quadro descritto può, auspicabilmente, essere mutato da ciò che viene enunciata come una riforma complessiva della L. 142/90. Una qualche riserva circa la reale efficacia dell'evoluzione legislativa può, tuttavia, essere avanzata qualora ad essa non venisse affiancata una robusta iniziativa sulla liberalizzazione dei mercati dei servizi pubblici locali.
Senza entrare in una materia che richiederebbe una lunga serie di considerazioni, è sufficiente sottolineare, a conclusione di queste note, che l'incrocio fra le posizioni monopolistiche "nazionali" e quelle "locali" e gli accordi che ne possono conseguire - accordi peraltro già largamente in atto - vanificano quel rilancio del mercato dei servizi del quale le "privatizzazioni" dovrebbero costituire la premessa.