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Impresa & Stato n°41

STUDIARE LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

Alcune riflessioni su come oltrepassare lo "scacco matto" derivato dalle analisi delle grandi aziende

di
GIULIO SAPELLI

L La riflessione sull'impresa in Italia oscilla tra l'interesse nei confronti della grande, su cui si mettono alla prova modelli consolidati da analisi (senza rilevanti innovazioni negli ultimi dieci anni) e l'analisi ormai dispiegatasi con ampiezza prima inusitata, sulla piccola impresa. Studiando quest'ultima si sono compiuti rilevanti passi innanzi analitici, giungendo a elaborare, fondamentalmente, due modelli. Il primo richiama alla relazione tra impresa e ambiente esterno, massimizzando, sul piano delle ipotesi interpretative, gli abbassamenti delle diseconomie esterne che queste relazioni possono far risaltare per le performances aziendali: società grassa, impresa snella, ecco il condensato tra l'applicativo e l'analitico che da questo modello deriva.
Il secondo schema interpretativo enfatizza la relazione tra famiglia e impresa in senso decisamente anomalo rispetto alla vulgata corrente del familismo amorale, ossia dell'assunzione della categoria famigliare come costrutto biologico che pone al centro delle relazioni sociali un comportamento narcisistico e avverso alla realizzazione del
bene comune. In questi casi la performance aziendale si muove invece al discrimine tra il bene dell'impresa e la fortuna patrimonialistica della famiglia medesima, che realizza in tal modo il circolo virtuoso tra biologia, ereditarietà e diffusione degli animal spirits del capitalismo che sono la forza della piccola impresa. Nulla si sa ancora di rilevante, salvo qualche analisi compiuta all'estero nei Paesi in via di sviluppo, sulle logiche interne delle piccole imprese: i meccanismi decisionali, le forme dell'alleanza tra consanguinei che ne determina le scadenze successorie, lo stile di direzione rapportato ai modelli tecnologici, eccetera.
Insomma, l'analisi sociale è ancora in larga parte muta rispetto a un attore economico su cui si son scritte intere biblioteche, utilissime per comprendere il comportamento sui mercati, sugli ambienti di non mercato e tra di esse, ma che ancora troppo poco ci ha detto sul loro intimo funzionamento. Un libro come quello della Edith Pensore, sulla teoria dello sviluppo della grande impresa, sulla piccola ancora non è stato scritto...
La ragione profonda di ciò risiede nel fatto che nella piccola dimensione organizzativa, ciò che prevale nella struttura del potere è la relazione fondata sulla persona anziché sul ruolo e questa determina la necessità di porre al centro dell'analisi non i corporate groups, quanto, invece i networks flessibili, trasformantisi continuamente e mai stabili, dalle interconnessioni vitali. Di qui la necessità di lavorare analiticamente con la dimensione affettiva e non soltanto con quella cognitiva: ciò costituisce la "mossa del cavallo" (à la Slovskji) che spiazza tutti gli analisti e li richiama alla necessità di una riconversione pluridisciplinare che le università italiane non possono e non potranno mai incentivare. Di qui lo scacco matto a cui son sottoposti i dotti...
La ricerca coordinata da Federico Butera ha due pregi. Il primo non lo sottolineo: si occupa della cenerentola dell'economia italiana. La cenerentola che, come tutte le bambine delle fiabe, con il suo invisibile incedere è pur sempre stata l'ossatura del nostro sistema economico. Ossia, io credo che la media impresa sia la forza costitutiva, con la grande impresa, del capitalismo mondiale e Butera, come fece a sua tempo Marco Vitale, ha avuto il merito di richiamare l'attenzione sul problema.
Ma c'è un secondo aspetto sostantivo, analitico che è posto in evidenza dal gruppo di lavoro buteriano.
Esso infatti apre la via a una analisi complessa e plurifattoriale della media impresa, con rilevanti effetti di ricaduta anche sull'analisi della piccola e della grande.
Infatti, gli esiti della ricerca enfatizzano la necessità di studiare tanto il corporate power quanto i networks, perché si coglie l'essenza del problema. Esso è il suo costruire performances al discrimine tra potere della famiglia, sistema di autorità personale e relazionalità manageriale.
Il tutto costruendo di volta in volta una dimensione organizzativa propria e distintiva, con alta capacità di metabolizzazione dei modelli rigidi di organizzazione.
L'unico elemento che non è sottolineato come a mio parere si dovrebbe nell'analisi buteriana è l'elemento del governo delle transazioni dei diritti di proprietà rispetto al sistema di relazioni personali e sociali nella media impresa. Qui risiede un altro snodo analitico di fondo del problema su cui occorrerebbe lavorare di più e che forse ci direbbe qualcosa di interessante sulla simbiosi tra imprenditore e manager e sugli equilibri di lungo periodo esistenti nella maggioranza delle medie imprese.

L'ASSENZA DI POLITICHE PUBBLICHE
Dall'analisi emerge un'impresa rappresentativa difficilmente inquadrabile in interventi e in politiche pubbliche di sostegno. Se si riflette sull'esperienza passata e internazionale si comprende che è decisiva la questione dell'assenza delle politiche pubbliche anziché della loro presenza per lo sviluppo e la crescita di questa impresa. Essa ha bisogno di una società flessibile e mobile, non ingessata e in grado di sostenerne le necessità di accumulazione conoscitiva e finanziaria.
Quindi quote sociali di capacità personali evolute sulla scala tecnologica e organizzativa e commerciale, mercati dai capitali il meno asimmetrici possibile e relazioni sociali informate alla flessibilità e alla forte disponibilità delle risorse umane di integrarsi con un sistema sociale meno coeso e meccanico (quanto a solidarietà) di quello della piccola impresa.
Esso richiede, quindi, essendo fondato su una solidarietà organica e perciò costruita sulla volontà arbitraria della persona, rilevanti costi affettivi e cognitivi ai protagonisti dell'universo economico e sociale della media impresa. é su questo sforzo continuo degli attori che si costruisce la consonanza tra fattori e relazioni e obiettivi che i nostri ricercatori hanno bene messo in evidenza. Qui stà la differenza con la piccola impresa: ivi la consonanza è frutto del face to face e del reticolo ambientale che entra prepotentemente nell'impresa. Qui la coerenza è frutto di decisioni e di miglioramenti incrementali continui che gli attori volta a volta ricercano con una tenacia che costituisce il segreto e insieme la risorsa principale della media impresa.
Dalla coerenza deriva la coesione che ha sia il risvolto della simbiosi tra imprenditore e tecnostruttura, sia sulla gestione oculata e frugale dell'innovazione. Essenziale, infatti, è non sconvolgere gli equilibri e rinnovarli a minor costo per gli attori e ad alta profittabilità del sistema organizzativo nel suo complesso.
Di qui la coesione che si realizza sulla base della coerenza microsociale e microrganizzativa che è tipica della piccola e media impresa. La differenza distintiva risiede nel fatto che nel caso delle medie unità produttive la differenziazione sociale e funzionale è molto più presente di quanto non sia nella piccola. E nel contempo è assai meno rigida di quanto non sia nella grande: di qui livelli di flessibilità dei fattori che non disperdono capacità, ma invece le enfatizzano con forza. Analisi più differenziate andrebbero compiute sul sistema di norme che consentono la cooperazione autoregolata. Io credo che essa sia la vera forza distintiva della media impresa: un'autopoiesi nella differenziazione e nella solidarietà organica anziché meccanica.
L'analisi sociale fondata sulla raccolta prosopografica delle storie di vita aziendali e manageriali è il primo passo per costruire una teoria comprensiva dei molteplici problemi che la media impresa ci impone di affrontare.
La ricerca di Butera dà un impulso alla marcia verso questa nuova frontiera analitica.