vai al sito della Camera di Commercio di Milano

Impresa & Stato n°41

L'INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA

L'inedito protagonismo delle aziende "minori" nella globalizzazione: considerazioni a partire dai dati di alcune ricerche

di
SERGIO MARIOTTI

I l crescente coinvolgimento delle piccole e medie imprese nei processi di internazionalizzazione produttiva costituisce uno degli aspetti più significativi dell'espansione multinazionale dell'industria italiana negli anni Novanta. Il fenomeno si colloca nell'ambito di una tendenza generalmente condivisa dai maggiori Paesi industriali, i quali hanno visto crescere gli investimenti diretti esteri da parte delle imprese minori, sotto la spinta della liberalizzazione e della globalizzazione dei mercati e grazie al decisivo miglioramento delle infrastrutture mondiali di trasporto e comunicazione e all'avvento di nuove tecnologie in grado di ridurre i vincoli spazio-temporali e i costi di coordinamento nelle transazioni intra-impresa a lunga distanza. Per un Paese come l'Italia, contestualmente caratterizzato da un minore grado di internazionalizzazione attiva rispetto agli altri Paesi sviluppati e da una forte incidenza economica delle piccole e medie imprese, questa fase di "internazionalizzazione diffusa" appare di estremo interesse, almeno per due motivi. Dal punto di vista della teoria della crescita internazionale dell'impresa, il nostro Paese sembra essere la sede naturale per l'elaborazione e la verifica di interpretazioni e modelli in grado di gettare luce sul fenomeno dell'espansione multinazionale dell'impresa minore, nei suoi tratti distintivi, determinanti ed effetti. Ciò è tanto più vero quanto più il fenomeno appare oggi interessare, con un coinvolgimento di massa, tutti i settori di attività - dai più tradizionali ai segmenti dell'alta tecnologia. Inoltre, dal punto di vista del dibattito economico e della policy, è certamente cruciale comprendere i caratteri specifici - settoriali, territoriali, di destinazione degli investimenti, ecc. - che il processo di "internazionalizzazione diffusa" assume in Italia, soprattutto poiché esso è destinato ad avere effetti rilevanti sul futuro assetto industriale del paese e sulle relative dinamiche evolutive.
In questo contesto, il presente saggio concentra la propria attenzione sui processi di internazionalizzazione produttiva dell'impresa italiana di media dimensione, assumendo per essa la definizione Eurostat, cioè di impresa con dimensione compresa tra i 100 e i 500 addetti. Come dimostra la ricerca di Butera, tale soggetto è assai peculiare nel panorama italiano, poiché si differenzia sia verso la grande che la piccola impresa non solo in termini tassonomici, ma in ragione di caratteri distintivi della sua organizzazione e dei suoi orientamenti strategici, che si traducono spesso in una superiore capacità di sopravvivere, di conseguire il successo e di assumere ruoli di leadership nei distretti industriali italiani. é così nostra intenzione esaminare il processo di crescita internazionale delle medie imprese italiane (MII), sia attraverso la descrizione di quanto recentemente avvenuto, sia mettendo in luce alcune specificità che differenziano le strategie di internazionalizzazione della media impresa rispetto alle sue sorelle minori.

LA CRESCITA PRODUTTIVA ALL'ESTERO
La ricerca curata da Cominotti e Mariotti (1997) offre un quadro aggiornato all'inizio del 1996 dell'universo delle imprese multinazionali italiane che hanno partecipazioni - di controllo, paritarie e minoritarie - in stabilimenti produttivi localizzati all'estero. Da essa si può desumere una descrizione dell'universo in funzione del profilo dimensionale delle casemadri. Le piccole e le medie imprese rappresentano quasi i tre quarti delle multinazionali italiane con attività produttiva all'estero, anche se il loro contributo scende - come è naturale - al 37% in termini di imprese estere partecipate e al 13,5% in termini di addetti totali all'estero. In particolare le MII sono, seppur di poco, l'insieme numericamente più numeroso, con 244 casemadri e 396 imprese partecipate all'estero che occupano oltre 50.000 addetti. Deve essere subito sottolineato come il protagonismo all'estero delle imprese minori abbia compensato in questi anni il contestuale scarso dinamismo delle grandi imprese italiane che, dopo essere state artefici quasi esclusive dell'espansione multinazionale italiana nella seconda metà degli anni Ottanta, appaiono oggi - con poche eccezioni - o in ritirata sui mercati internazionali o soggette a forti processi di dimagrimento all'estero. Di fatto, in soli sei anni, dall'inizio del 1990 all'inizio del 1996, lo stock delle "piccole e medie multinazionali" italiane è cresciuto di 2,5 volte. Il club degli investitori italiani all'estero ha visto un notevole ingresso dal grande serbatoio delle piccole imprese italiane, ma anche le MII internazionalizzate sono raddoppiate in numero, nonostante la loro base potenziale, pur ampia, sia assai più ristretta di quella relativa alle imprese con meno di 100 addetti, le quali, come noto, rappresentano numericamente la gran parte dell'industria italiana. Un esame dei caratteri settoriali della presenza produttiva all'estero delle MII, anche comparativamente a quella della totalità delle multinazionali italiane, porta a sottolineare come la maggiore concentrazione relativa si abbia nei settori specialistici della meccanica ed elettromeccanica strumentale e nei settori tradizionali ove maggiore è la forza competitiva del Paese, quali i prodotti in metallo, il tessile, l'abbigliamento, il cuoio e le calzature, i prodotti in legno.
Riguardo alle destinazioni geografiche, le MII hanno recentemente colto grandi opportunità di investimento nei paesi dell'Europa Centrale e Orientale, area cui compete il 23% delle imprese estere da esse partecipate e il 39% dei corrispondenti addetti. Tali incidenze si confrontano con quelle concernenti l'intera Europa Occidentale, rispettivamente pari al 41% delle imprese partecipate e a un terzo degli addetti. Nel vecchio continente gli IDE delle MII si sono prevalentemente indirizzati verso i Paesi geograficamente e culturalmente più vicini, quali Francia, Svizzera, Spagna e Portogallo. Per la restante parte, le partecipazioni si distribuiscono variamente tra Nord America, America Latina, Area del Pacifico e Africa. é interessante commentare il dato relativo all'incidenza delle partecipazioni delle MII rispetto al totale delle presenze multinazionali italiane, dato che evidenzia, se pur grossolanamente, la loro specifica vocazione geografica: si nota come tale incidenza ecceda largamente la media soprattutto per Europa Orientale e Area del Pacifico; al contrario appare più debole la presenza di MII nelle aree avanzate dell'Europa Occidentale e del Nord America, destinazioni che sono state invece oggetto di grande attenzione da parte dei gruppi industriali italiani maggiori, soprattutto nella seconda metà degli anni Ottanta.
Nel grande scacchiere di opzioni internazionali determinate dalla crescente globalizzazione dei mercati, emerge dunque una Italia delle medie imprese che, oltre a orientarsi verso l'Unione Europea, ormai vista come "mercato domestico", sta sviluppando una presenza forte nei Paesi in fase di incremento del reddito, della domanda di beni finali e della domanda di beni di investimento. Scelte che appaiono intimamente coerenti con la natura delle nostre MII "di successo" e che aprono interessanti prospettive di crescita non solo per esse, ma per l'intera economia italiana.

L'INVESTIMENTO ESTERO DELLE MII
Ci si interroga sempre più frequentemente nel merito dei meccanismi economici che stanno alla base del processo di internazionalizzazione delle imprese minori ora descritto e delle possibili implicazioni sia per la crescita delle economie locali che del Paese nel suo aggregato. Al riguardo, il dibattito economico propone, più o meno confusamente, due tesi:
- le imprese minori colgono all'estero opportunità di crescita che valorizzano le loro risorse distintive, attivando un processo complementare e non sostitutivo della crescita delle attività originarie; l'IDE produttivo è così parte di un circolo virtuoso che rafforza la base produttiva e l'occupazione interna al Paese;
- le imprese minori delocalizzano le loro attività all'estero in ragione sia del mutare dei vantaggi comparati di Paese (costo del lavoro, delle materie prime, ecc.), sia dell'emergere di vincoli allo sviluppo dovuti al deterioramento delle dotazioni infrastrutturali e alle strozzature nell'offerta di risorse da parte dei contesti locali; la "fuga dall'Italia" indebolisce la base produttiva e spiazza l'occupazione, attraverso IDE sostitutivi degli investimenti interni al Paese.
E' facile affermare che questi due "modelli" coesistono e si ibridano in ragione della varietà delle scelte operate dalle diverse imprese, come ingredienti diversi di una ricetta da cucina. Sarebbe tuttavia assai utile comprendere quali siano la peculiare combinazione delle forze dominanti l'attuale fase di internazionalizzazione e le quantità dei diversi ingredienti della "ricetta". Purtroppo, un'analisi organica del problema è lontana dalle nostre possibilità, sia per la carenza di informazioni e dati, sia per la complessità del tema. In questa sede, più modestamente, si svolgono alcune considerazioni a partire dai risultati di un'analisi di Mariotti e Piscitello nel merito delle motivazioni all'investimento estero dichiarate da parte di un campione rappresentativo delle attuali piccole e medie imprese italiane. Dall'analisi condotta si deriva un quadro articolato, ma dai contorni sufficientemente chiari. Secondo l'indagine, il modello canonico della delocalizzazione produttiva - in cui la scelta di andare all'estero è dominata da un orientamento resource seeking, cioè è determinata dal mutare dei vantaggi comparati di paese riguardo al costo dei fattori, e del lavoro in particolare - spiega meno di un quarto delle iniziative. La metà di esse è espressione di orientamenti strategici prevalentemente del tipo market seeking, cioè finalizzati alla conquista duratura di quote sui mercati esteri. Talvolta, tali orientamenti sono accompagnati da obiettivi più ambiziosi, di acquisizione di know-how complementare e di integrazione delle proprie attività di produzione e di R&S con quelle svolte dalle imprese acquisite all'estero. Per la restante parte delle iniziative, obiettivi market e resource seeking si combinano variamente nel motivare l'investimento. Pur senza sminuire la loro importanza, le strategie di delocalizzazione delle imprese italiane tramite IDE sono dunque meno numerose di quanto comunemente si pensi. Si può affermare che le modalità prevalenti delle imprese italiane, per sfruttare il più basso costo dei fattori produttivi e per approvvigionarsi di materie prime e semilavorati, siano piuttosto le relazioni di mercato e di quasi-mercato - subfornitura, con eventuale ricorso a traffico di perfezionamento passivo, accordi non equity - nel quadro di quell'ampio processo di ridefinizione della divisione internazionale del lavoro che si è definitivamente aperto con il coinvolgimento nella spirale della globalizzazione delle aree più popolate dell'Asia e dei Paesi ex-comunisti. In questo contesto, il ricorso agli IDE come sostegno a scelte di delocalizzazione rappresenta una strategia efficiente solo quando: a) vi è un significativo trade-off tra riduzione dei costi, ottenibile tramite decentramento internazionale della produzione, ed altri fattori critici, quali la sicurezza degli approvvigionamenti, la qualità del prodotto, i tempi di consegna e il servizio al cliente, b) si combinano motivazioni market seeking nei confronti del paese target dell'iniziativa o dell'area regionale in cui si colloca.
L'analisi empirica offre dunque materia per ridimensionare la tesi della "fuga dall'Italia" delle imprese e per avanzare al contrario l'ipotesi di un processo che, pur scontando una serie di componenti di segno contrario, sta portando alla costituzione di un network internazionale in cui le nostre piccole e medie imprese più dinamiche valorizzano le proprie risorse distintive endogene - di natura tecnologica, produttiva, commerciale - arricchendole con nuovi vantaggi competitivi. In tale contesto, vi è da attendersi il prevalere di "effetti di ritorno" positivi per l'economia locale, in termini sia di aumento delle opportunità di sviluppo che di rafforzamento dei precedenti vantaggi competitivi. D'altro canto, altri elementi, seppure impressionistici, offrono ragioni per confermare la natura virtuosa degli investimenti all'estero per la crescita dell'economia e dell'occupazione. In particolare, mentre a livello aggregato non vi sono riscontri circa l'operare di effetti di sostituzione tra occupazione interna e all'estero, vi è una forte evidenza che le aree ove più consistente è stata la crescita produttiva all'estero delle imprese sono anche quelle in cui meno pronunciati sono i problemi della disoccupazione.
Le considerazioni svolte escono rafforzate qualora si guardi alla specifica categoria delle medie imprese. L'indagine empirica ha infatti mostrato come la probabilità che un'iniziativa produttiva all'estero appartenga alla categoria strategica del tipo market seeking aumenta qualora la casamadre abbia dimensioni superiori ai 100 addetti. Il fenomeno risulta enfatizzato nel caso la casamadre sia localizzata nel Nord-Ovest del Paese. Questi risultati appaiono coerenti con i diversi livelli di rischio e di complessità che distinguono gli investimenti esteri market seeking da quelli resource seeking. I primi, oltre allo svolgimento dell'attività produttiva, comportano lo sviluppo di reti distributive e di assistenza e, soprattutto, sono di natura information-intensive, in quanto implicano l'accesso a informazioni privilegiate circa le caratteristiche dei mercati locali e la formazione di competenze ad hoc. Le imprese in tal caso sostengono elevati "costi di informazione" e impiegano risorse manageriali che sono assai meno necessarie quando l'iniziativa è di tipo resource seeking e la produzione della consociata è destinata alla casamadre. Ma la possibilità di sostenere elevati costi di informazione è funzione sia delle dimensioni aziendali che della possibilità di godere di esternalità territoriali. Comparativamente alle altre aree del Paese, il Nord-Ovest non solo è sede di una parte sostanziale delle più qualificate MII, ma ha anche accumulato la maggiore esperienza internazionale, grazie alla presenza delle maggiori multinazionali italiane, sia nella manifattura che nei servizi tradizionali e avanzati.

CONSIDERAZIONI FINALI
Nel saggio abbiamo cercato di illustrare brevemente, sulla base di alcune ricerche empiriche, l'inedito protagonismo delle imprese minori nel processo di internazionalizzazione produttiva che caratterizza l'industria italiana negli anni Novanta. Tale processo ha alla base un coacervo di determinanti, in cui si combinano elementi effimeri e fattori di natura strutturale. Inoltre, i suoi effetti sull'economia italiana non sono né di natura univoca né facili da identificare. Abbiamo tuttavia sottolineato come i risultati delle nostre ricerche confortino l'idea che soprattutto le imprese di media dimensione abbiano basato le loro scelte di internazionalizzazione su vantaggi proprietari esclusivi, anziché reagire puramente a stimoli esogeni e nuove convenienze insediative. Grazie alla loro dotazione di risorse organizzativo-manageriali e finanziarie e alle competenze distintive tecnologiche e di mercato accumulate, esse sono dunque portatrici di iniziative all'estero di maggiore respiro strategico, destinate a creare circoli virtuosi sia per la loro crescita che per lo sviluppo delle economie locali in cui sono insediate. Tali medie imprese internazionalizzate sono parte integrante di quell'insieme che la ricerca di Butera ha felicemente definito "le medie imprese costruite per durare". In conclusione si possono sommessamente trarre alcune considerazioni di politica industriale. Per sostenere la sfida della globalizzazione, non sembra risolutivo confezionare ricette basate sull'attivazione di misure di incentivazione e di "assistenza" delle imprese minori per le loro attività internazionali. Sebbene sia da considerare la più generale opportunità di un ribilanciamento nelle forme di sostegno all'internazionalizzazione delle imprese, a favore delle misure mirate all'internazionalizzazione "diretta", rispetto a quelle di sostegno dell'export (ma è questo un tema che merita altro approfondimento), deve essere sottolineato che tali misure potrebbero avere, nella migliore delle ipotesi, un ruolo di palliativo. La ragione fondamentale è che esse sbagliano bersaglio, rapportandosi agli effetti (l'esito internazionale della crescita dell'impresa), anziché agire sulle cause (la formazione del vantaggio competitivo che origina quell'esito e le esternalità che a essa partecipano). Crediamo che la crescita all'estero dell'impresa minore - e media in particolare - non debba essere trattata di per sé come obiettivo della politica industriale, quanto posta in relazione con i problemi più generali della formazione delle capacità endogene distintive presso le imprese, da un lato, e dello sviluppo complementare del territorio, della sua infrastrutturazione e collegamento con le grandi reti internazionali, dall'altro.