Impresa & Stato n°41
CURARE LE MALATTIE DEL MERCATO DEL LAVORO
di
VITTORIO MELISSARI
Un malato afflitto da un male complesso, ma curabile
con una terapia articolata e già conosciuta.
S
crivere di mercato del lavoro significa affrontare
una questione che da anni occupa un posto centrale nel dibattito
politico-sindacale. Al punto che le discussioni in materia hanno
finito per esorbitare dalla numerosa, ma pur sempre circoscritta
cerchia degli "addetti ai lavori", rifluendo anche nei
discorsi dell'uomo della strada.
Ciò deriva da due precise ragioni.
Da un lato l'acuirsi dell'interesse e l'ampiezza
del dibattito trovano un'evidente e comprensibile ragion d'essere
nello stretto collegamento che esiste fra assetti normativi del
mercato del lavoro e lotta alla disoccupazione. Una questione
rispetto alla quale la sensibilità sociale è, per
evidenti motivi, altissima. Dall'altro lato, però, la lunghezza
del dibattito ha superato ormai i tempi necessari all'esigenza
di individuare e realizzare misure adeguate. Il dilatarsi dei
tempi costituisce ormai la testimonianza, macroscopica, dell'incapacità
politica di dare vita alle nuove regole.
Il mercato del lavoro italiano è, insomma,
come un malato cui sia stata diagnosticata una malattia complessa,
che richiede terapie articolate, ma già conosciute dalla
farmacopea. Un malato attorno al cui capezzale si affollano medici
che ora somministrano una pozione, ora applicano un unguento (rimedi
che leniscono parzialmente e temporaneamente il male), ma che
non sanno decidersi a dare inizio alla terapia vera e propria.
Sulle "malattie" del mercato del lavoro,
proprio perché diagnosticate da tempo, non credo che occorra
dilungarsi.
Ricordo, quindi, velocemente e per grandi titoli,
solo le principali:
- considerazione normativa e giurisprudenziale del
contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato come il "vero"
contratto di lavoro. Gli altri rapporti di lavoro costituiscono
non forme alternative di pari dignità ma eccezioni straordinarie
da tenere sotto "attenta sorveglianza";
- tipizzazione delle ipotesi di ricorso al contratto
a tempo determinato, normate con provvedimenti che si sono disordinatamente
affastellati nel corso degli anni. Ciò di fatto circoscrive
l'utilizzo del contratto a termine a situazioni tassativamente
"catalogate" a priori; penalizza in maniera particolare
le piccole imprese che, proprio in ragione delle ridotte dimensioni,
non sono dotate di una struttura che consenta loro di destreggiarsi
in apparati normativi complessi; favorisce il proliferare di un
contenzioso tanto inutile quanto dispendioso;
- rigida predeterminazione delle modalità
di utilizzo del part-time;
- mancata introduzione di istituti normativi, quale
il lavoro interinale, che nella generalità dei Paesi hanno
dato buona prova delle proprie potenzialità in termini
di dinamicizzazione del mercato del lavoro;
- diffusione del metodo dell' autorizzazione preventiva,
rispetto a quello della verifica a posteriori;
- perdurante inadeguatezza dei servizi pubblici all'impiego;
- mancata apertura ai privati dei servizi di collocamento,
ancora "gestiti" in regime di monopolio;
- inoperatività dei meccanismi che collegano
l'erogazione di sostegni economici alla disoccupazione allo svolgimento,
da parte degli interessati, di un ruolo attivo nella ricerca di
un'occupazione. Tutto ciò per voler limitare questa sommaria
e rapida ricognizione al momento della costituzione del rapporto
di lavoro. Accantoniamo, per economia di trattazione, le ulteriori
questioni, altrettanto rilevanti ai fini della maggiore o minore
rigidità del mercato del lavoro, quali: l'inderogabilità
dei minimi salariali nazionali, la difficoltà e onerosità
della risoluzione del rapporto di lavoro, la difficile esigibilità
di forme flessibili di lavoro.
PER UNA REALE FLESSIBILITÀ
Quanto sin qui ricordato credo sia sufficiente per
dare conto della complessità dei problemi da affrontare.
Abbiamo, infatti, questioni che concernono:
- la revisione e la semplificazione di istituti normativi;
- l'accelerazione di procedure e di meccanismi premiali;
- il riassetto di strutture e apparati amministrativi;
- la ridefinizione del ruolo della Pubblica Ammministrazione.
L'interconnessione dei problemi sul tappeto, evidente
anche all'osservatore più superficiale, fa emergere l'inadeguatezza
delle metodologie di approccio sin qui costantemente utilizzate
dal nostro legislatore.
I provvedimenti che si sono succeduti hanno infatti
riguardato aspetti così specifici e parziali del mercato
del lavoro, da richiamare alla memoria l'immagine dei "rari
nantes in gurgite vasto" di virgiliana memoria.
Tali provvedimenti non sono mai stati ricondotti
a un progetto di politica occupazionale di più ampio respiro,
un progetto idoneo ad assistere e accompagnare i mutamenti del
contesto economico e sociale del nostro Paese.
Conseguentemente non si sono dimostrati idonei a
incidere efficacemente sugli assetti normativi esistenti, finendo
anzi, in svariate situazioni, per aumentarne il livello di complessità.
Quali allora le linee lungo le quali dovrebbe articolarsi
un ravvedimento operoso e coerente del legislatore, non meno che
delle parti sociali, e quale il possibile impatto dei provvedimenti
attualmente in corso di realizzazione?
Una prima linea di intervento è riconducibile
all'affermazione, nel concreto, di una reale flessibilità.
Viene sostenuto da alcuni che, in realtà,
il mercato del lavoro italiano è già da tempo flessibile
e ancor più lo sarebbe diventato negli ultimi anni, per
effetto, fra l'altro, dell'ampliamento delle ipotesi di ricorso
al contratto a termine.
Ritengo che tale affermazione debba essere respinta.
La realtà del vissuto quotidiano è
sotto gli occhi di tutti e la stessa OCSE ancora nel 1994 (e gli
assetti normativi non sono sostanzialmente mutati da quell'anno)
ha valutato l'Italia il Paese industriale con la più alta
rigidità del lavoro e delle forme di tutela dell'impiego.
La flessibilità, del resto, non può
essere "misurata" - come fa qualche esponente politico
- conteggiando ragionieristicamente, per restare all'esempio citato
da ultimo, il numero delle tipologie di contratto a termine attivabili.
Il concetto di flessibilità non è un
concetto statico, bensì dinamico. Né la flessibilità
può essere ricondotta esclusivamente all'esistenza di questo
o quell'istituto normativo, ma deve necessariamente ricollegarsi
soprattutto:
- alle modalità secondo cui i vari istituti
normativi possono essere "agiti";
- alla loro intrinseca capacità di adattarsi
a bisogni e situazioni mutevoli nel tempo;
- alla possibilità che gli istituti normativi
siano egualmente accessibili e possano essere utilizzati dalla
piccola come dalla grande azienda;
- alla rapidità dell'esigibilità delle
forme flessibili.
Sotto questo profilo condivido quanto ancora recentemente
è stato affermato con incisiva efficacia: la vera flessibilità
è semplice, trasparente e automatica. La traduzione in
termini operativi di questa affermazione comporta, fra l'altro:
- la riduzione/semplificazione dell'apparato normativo
lavoristico. Perché si ottenga ciò il nostro legislatore
deve delineare in modo più "essenziale" i vari
istituti. Questo significa produrre norme di legge in sé
complete e immediatamente utilizzabili e di facile ed univoca
comprensione. Non solo, ma attingendo al vastissimo patrimonio
giuridico del nostro Paese, il nostro legislatore deve riacquisire
padronanza di quelle capacità tecnico-redazionali che la
lettura di taluni disposti normativi non consente di rintracciare.
Se è vero che larga parte del linguaggio giuridico è
inevitabilmente tecnico-specialistica, se siamo consapevoli che
la mediazione politica ha il suo prezzo, da ciò non può
derivare la sua inaccessibilità se si vuole che la produzione
giuridica consegua il suo fine principale, consistente nell'orientare
e dirigere efficacemente il comportamento dei cittadini, delle
imprese e degli utenti in generale;
- un arretramento del legislatore rispetto alle parti
sociali.
Penso, in questo caso, a un assetto legislativo,
"leggero", in cui norme chiare e stringate lascino spazio
a un'eventuale integrazione che origini dall'attività delle
parti sociali stesse.
Non intendo riproporre la reviviscenza della "cultura
della deroga", ma un mix equilibrato di certezze e di adattabilità.
Come recentemente è stato ricordato: "Negoziato e
deroga sono caratteristiche di grandi aziende e grandi strutture
che si 'scambiano' concessioni. Essi mal si applicano a piccole
imprese e, soprattutto, alle imprese nascenti che devono superare
mille difficoltà di mercato e non hanno capacità
di affrontare anche problemi sindacali. Ecco perché è
necessaria una flessibilità nel mercato del lavoro non
più fatta da 'mille eccezioni' com'è oggi, ma costituita
da diritti pieni".
I SERVIZI PER L'IMPIEGO
Una seconda linea di intervento - non meno fondamentale
- dovrebbe consistere nella rimodulazione dei servizi all'impiego.
Già nel 1910, quando era in discussione il
primo disegno di legge di iniziativa governativa finalizzato a
realizzare un intervento statale organico a difesa dei disoccupati,
veniva posta in luce l'esigenza che la disoccupazione venisse
affrontata anche attraverso la creazione di efficienti organi
di collocamento, l'efficace diffusione di informazioni sul mercato
del lavoro, eccetera.
Oggi, giunti ormai alla fine del secolo, possiamo
constatare che il problema continua a essere d'attualità,
mentre i cambiamenti sempre più rapidi dell'economia rendono
indilazionabile una valida soluzione.
Penso a una "rete" di strutture, sia pubbliche
che private, che su un piano di parità operino effettivamente
secondo una logica di "servizio", interfacciando domanda
e offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale.
L'entrata in campo del privato, oltre a riallineare
l'assetto normativo italiano a quello degli altri Paesi europei,
contribuirebbe a creare una situazione in cui, proprio dalla concorrenza
- misurata in termini di validità e di qualità del
servizio - trarrebbe vantaggio sia chi cerca che chi offre lavoro.
Per quanto riguarda la struttura pubblica, si tratterebbe
di realizzare una rivoluzione copernicana a esito della quale
il "collocatore", non sarebbe più il soggetto
che effettua verifiche burocratiche, ma colui che collabora attivamente
alla soluzione del problema che gli utenti (cittadini e imprese)
sottopongono al suo esame. Penso a una Pubblica Amministrazione
che, superata l'attuale situazione che la Commissione dell'Unione
Europea ha definito di "incapacità strutturale",
riesca a convertirsi alla "qualità del servizio".
Perseguire tale obiettivo significa operare un progresso
considerevole in termini di civilità giuridica. Significa,
fra l'altro, sotto il profilo operativo, realizzare un forte intervento
diretto a riqualificare e rimotivare gli addetti della Pubblica
Amministrazione.
E' un risultato che dobbiamo ottenere in quanto
l'esistenza di validi servizi per l'impiego costituisce una parte
importante delle politiche attive e di prevenzione in tema di
disoccupazione. Queste politiche costituiscono, infatti, anche
una naturale forma di bilanciamento delle misure di protezione
economica della disoccupazione che, per esigenze di contenimento
della spesa pubblica, sono attualmente in discussione in tutti
i Paesi.
I SISTEMI ECONOMICI DI SOSTEGNO
Quanto ora detto porta a introdurre una terza importante
linea di intervento in necessaria connessione logica, oltre che
funzionale, con quelle sin qui ricordate: la rimodulazione dei
sistemi economici di sostegno alla disoccupazione.
Le esigenze di contenimento della spesa, che ho appena
ricordato, hanno fatto sì che in vari Paesi si siano avviati
interventi di revisione. Ricordo la Francia, la Germania e anche
la Gran Bretagna che con il Jobseekers' Act, una legge di accompagnamento
alla finanziaria 1995, ha realizzato la più grande riforma
dell'indennità di disoccupazione dagli anni '30. La razionalizzazione
degli interventi economici a sostegno della disoccupazione non
è meno indispensabile nel nostro Paese in relazione al
fatto che dobbiamo anche superare un'anomalia tutta italiana:
quella relativa alla coesistenza di una pluralità di "statuti
protettivi" contro la disoccupazione.
Bisogna quindi intervenire sull'individuazione dei
destinatari dei regimi protettivi, per poi trovare una risposta
organica e coerente ai seguenti principali quesiti: ammontare
delle prestazioni, tempo di erogazione e individuazione dei "comportamenti
virtuosi" nella ricerca dell'occupazione cui riconnettere
l'erogazione delle prestazioni stesse.
Durata ed entità dell'intervento sono elementi
di particolare delicatezza. Se sussidi troppo bassi sono inefficaci
e spingono verso il sommerso, sussidi troppo elevati - anche se
limitati nel tempo - possono finire per disincentivare l'individuo
a ricercare nuova occupazione. Allo stesso modo, sussidi erogati
per periodi di tempo troppo lunghi rischiano di rallentare il
processo di adattamento alle nuove condizioni di mercato.
Quanto alle modalità con le quali stimolare
- e verificare - comportamenti attivi sul mercato del lavoro,
nel nostro Paese c'è ancora tutto da costruire.
La "presentazione periodica" del disoccupato
presso la Sezione Circoscrizionale per l'Impiego, la "mancata
accettazione di offerte di lavoro", la "mancata frequenza
a corsi di formazione", sono recepiti come strumenti di controllo
formale e burocratico, ma nei fatti sono privi di reale efficacia
per esempio ai fini dell'aggiornamento delle liste di collocamento
e di mobilità. Si ritorna, con ciò, a quanto prima
affermato in ordine all'importanza che venga realizzata un'adeguata
integrazione fra interventi a sostegno del reddito e politiche
attive del lavoro.
Fatta questa velocissima carrellata sulle principali
linee di riforma del mercato del lavoro, vorrei ora soffermarmi
su alcuni provvedimenti recentemente varati o in corso di realizzazione
e che concernono i punti fin qui trattati.
Quanto agli strumenti di flessibilità, credo
debba essere ribadito con forza che l'Accordo Interconfederale
del 1993 e il Patto per il lavoro del settembre 1996 devono trovare
una integrale traduzione operativa.
Soprattutto devono essere normativamente tradotti
secondo modalità coerenti con la lettera e con lo spirito,
di accordi che impegnano il Governo non meno e non diversamente
dalle parti sociali.
Non costituiscono certo "LA" soluzione
dei problemi della flessibilità del mercato del lavoro,
ma possono dare un contributo iniziale di rilievo quanto meno
nell'emendare taluni aspetti di minore accettabilità.
MODERNIZZAZIONE DELLA P.A.
Le questioni sulle quali, da ultimo, si sono registrati
i mutamenti maggiori sono però quelle che concernono la
modernizzazione della Pubblica Amministrazione. Mi riferisco alla
Legge n. 59/1997 nonché alla Legge n. 127/1997, cui usualmente
ci si riferisce usando il nome del Ministro Bassanini. Credo che
l'approvazione di tali provvedimenti sia un fatto indubbiamente
positivo. L'azione di decentramento e semplificazione è
importante: accresce il ruolo e la responsabilità dei funzionari
pubblici, migliora la capacità di controllo dei cittadini
sull'attività pubblica, ... in definitiva contribuisce
a rendere il cittadino italiano un po' meno suddito, spingendo
la Pubblica Amministrazione ad avvicinarsi all'utente.
Quanto agli specifici contenuti dei provvedimenti,
senza entrare nel dettaglio tecnico, ritengo sia utile e opportuno
fare solo alcune considerazioni generali.
Con riferimento alla Legge n. 59, non si può
sottacere che l'operatività della stessa è vincolata
all'esercizio da parte del Governo di una lunga serie di deleghe
legislative.
Nel disegno della Legge n. 59, per quanto concerne
la materia del Lavoro (esclusa previdenza, eccedenze di personale
e vigilanza) le Regioni assumeranno le competenze e i poteri del
Ministero del Lavoro e avranno ampia autonomia organizzativa.
Un fatto in via di principio positivo alla luce delle
considerazioni prima svolte e della possibilità di avvicinare
il servizio al bacino di utenza. Un giudizio definitivo potrà
però essere formulato solo successivamente all'emanazione
degli ulteriori provvedimenti previsti e in relazione ai contenuti
di questi.
In particolare si tratterà di verificare se
saremo in grado di trovare un idoneo bilanciamento fra servizi
"su misura" eliminando l'attuale omologazione burocratica
e l'esigenza di mantenere un adeguato coordinamento unitario dell'azione
delle diverse regioni o comprensori sub-regionali. Deve essere
evitato il rischio che si frammentino regole e comportamenti delle
amministrazioni pubbliche in materia di mercato del lavoro e rapporti
con le parti sociali. Ciò comprometterebbe la necessità,
per le aziende irrinunciabile, di un quadro unitario di operatività,
che tuttavia salvaguardi le legittime esigenze di adattamento
alle varie realtà socio-economiche. Quanto alla Legge n.
127, sottolineato che il programma di semplificazione potrà
essere attuato per via regolamentare, credo sia importante evidenziare
che la rappresentanza datoriale è da tempo impegnata in
un'azione di proposta e collaborazione in materia con la Pubblica
Amministrazione. La semplificazione è un passaggio obbligato
per combattere un costo occulto che grava sulle imprese.
Per quanto concerne infine l'ulteriore questione
evocata, quella relativa al sostegno al reddito dei disoccupati,
ritengo debba essere ricondotta e risolta nell'ambito della più
generale riforma dello stato sociale.
A tale proposito gli obiettivi e l'aspirazione di
razionalizzazione, contenimento ed efficienza della spesa sociale
contenuti nella relazione della Commissione Onofri sono senz'altro
condivisibili.
Per converso, specifiche soluzioni proposte, come
quella relativa all'introduzione di "un minimo vitale",
sollevano grandi critiche e appaiono decisamente problematiche
sotto il profilo applicativo ma anche e soprattutto sotto il profilo
della possibile deresponsabilizzazione dell'individuo che "attende"
sussidi esterni e dovuti.
Penso comunque che, in conclusione, l'impostazione
più valida sia quella richiamata recentemente in sede confindustriale
quando si è evocato il concetto di "welfare delle
opportunità".
Uno stato sociale in cui il cittadino venga chiamato
in prima persona a giocare un ruolo attivo nel superamento delle
proprie situazioni di difficoltà, potendo però contare
sul sostegno non solo economico di una amministrazione "amica".
Un'amministrazione non più guardiana-burocrate,
non più solo cash-dispenser, bensì supporto reale
nella soluzione dei problemi.
 
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