Impresa & Stato n°40
PER UNA MAGISTRATURA "PROFESSIONALE"
di
GIANFRANCO GILARDI
Per rendere migliore la giustizia
non basta affermare dei principi,
bisogna agire concretamente.
In uno Stato
democratico di diritto, il principio di uguaglianza sostanziale implica
non soltanto che la legge penale sia obbligatoria per tutti, ma anche che
i diritti di ciascuno riescano a trasformarsi in garanzie concrete ed effettive
nella vita di ogni giorno.
La cultura dei "media", sempre pronta a raffigurare la questione giustizia
in termini di scontro tra potere politico e magistratura, ha reso ancora
più fitto il silenzio che avvolge da sempre la giustizia ordinaria
e, in particolare, quella civile, il cui cattivo funzionamento costituisce
fattore non secondario del diffondersi dell'illegalità, del senso
di insicurezza sociale e della sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Il sistema processuale italiano, lento e farraginoso, non soltanto
rende più difficile la possibilità di una tutela rapida ed
efficace per coloro che riescono a raggiungere le aule giudiziarie, ma
finisce per scoraggiare le stesse domande di giustizia, che rimangono spesso
del tutto insoddisfatte o si indirizzano verso altre soluzioni, non sempre
rispettose della legalità.
Il tentativo di rivitalizzare il processo civile, rendendolo più
ordinato e razionale nelle sue sequenze e più garantito nella tutela
cautelare, portò nel 1990 al varo della legge n. 353/1990, seguita
un anno dopo dall'emanazione della legge sul giudice di pace mirante al
duplice scopo di alleviare il carico della magistratura professionale e,
insieme, di assicurare soddisfacimento alla c.d. giustizia "minore" che
spesso riguarda, in realtà, i beni più elementari ed essenziali
della vita.
Le riforme avrebbero dovuto costituire il primo passo di un più
lungo percorso da integrare e completare con interventi successivi ad esse
organicamente collegati, ma a cui è mancato il necessario sostegno
culturale e professionale affinché quei primi passi si trasformassero
in fattori di cambiamento della realtà.
Sono prevalsi, invece, atteggiamenti di resistenza e di contrasto che
hanno tenuto congelate per diversi anni le due riforme, entrate in vigore
nella loro pienezza solo nel 1995 dopo che una serie numerosa di decreti
legge decaduti e reiterati ne ha trasformato sensibilmente l'impianto originario.
La convinzione dell'inevitabilità di interventi "esterni", che
ha accompagnato la riforma del processo, prima e dopo la sua entrata in
vigore, ha contribuito non poco a generare, nelle prassi, la sottovalutazione
degli strumenti che già appartengono al "nuovo" processo.
La diffusa tendenza ad interpretare l'udienza di cui all'art. 180 cod.
proc. civ. come semplice fase di smistamento all'udienza successiva; il
depotenziamento dell'interrogatorio libero delle parti e della conciliazione
giudiziale; l'interpretazione fortemente restrittiva di strumenti quali
l'ordinanza di condanna ex art. 186 quater cod. proc. civ., che avrebbero
dovuto introdurre all'interno del rito ordinario una forte carica innovativa
e una significativa semplificazione del'attività processuale, hanno
frustrato molte delle potenzialità insite nel nuovo modello, di
per sè sole certo insufficienti a determinare una svolta ma tali
tuttavia - se opportunamente utilizzate - da produrre importanti cambiamenti.
A ciò si sono aggiunte, in molte sedi, le carenze di efficaci
interventi sul piano organizzativo, sfociate talvolta in un vero e proprio
rifiuto delle responsabilità di autogoverno.
Ancora oggi, del resto, mancano analisi ufficiali sull'effettiva natura
e dimensione delle pendenze, ed il sistema ruota intorno a metodi di rilevazione
statistica tanto vetusti quanto largamente inattendibili.
Non smarrire la funzione del processo è la prima condizione
per realizzare l'effettività della tutela.
IL GIUDICE DI PACE
A più di due anni dall'entrata in vigore della legge sul giudice
di pace e dalla piena attuazione della "novella" del 1990, i tempi sono
maturi per un primo bilancio al fine di verificarne limiti ed effetti positivi,
suggerire modifiche e correzioni, sospingere in avanti il cammino delle
riforme in una strategia che sappia guardare ai nuovi istituti come a un
punto di passaggio, necessario ma non sufficiente, affinché la giustizia
di tutti i giorni, nelle questioni più importanti come nelle vicende
più dimesse, torni ad acquistare peso e significato.
L'istituzione di "sezioni stralcio" per far fronte agli arretrati dei
tribunali civili, pur fondandosi su esigenze reali, non sfugge al clima
emergenziale che in questi anni ha continuato ad informare lo spirito delle
leggi.
Scaturito da una serie di sollecitazioni disordinate e confuse, cui
non sono rimaste estranee logiche di tipo "assistenziale", l'intervento
- per il modo in cui è stato concepito - rischia di contraddire
l'obiettivo di esaurimento degli arretrati in tempi brevi, un obiettivo
che avrebbe potuto essere più adeguatamente perseguito puntando
su rigorosi meccanismi di incompatibilità anziché sulla cancellazione
dall'albo professionale degli avvocati nominati giudici "aggregati". La
cancellazione dall'albo, infatti, non favorirà il numero delle domande
nè incentiverà la definizione sollecita delle controversie.
Qualunque programma per la giustizia che si proponga non solo di esaurire
gli arretrati, ma di incidere sulle cause del loro continuo ed immediato
riformarsi, non può sfuggire in realtà all'esigenza di un
quadro organico di misure capace di superare definitivamente la logica
dell'"emergenza".
Come osservato in tante occasioni, sono funzionali a questa esigenza:
una decisa inversione di tendenza nelle politiche di spesa per la giustizia,
poiché all'emergenza si deve rispondere con uno sforzo straordinario
che rimetta finalmente la tutela dei diritti al primo posto dell'impegno
dello Stato; la necessità di adeguamento della legislazione sostanziale,
troppo spesso in ritardo rispetto alle trasformazioni economiche e sociali
ed al bisogno di giustizia espresso dalle fasce più deboli ed indifese
della collettività; la rivitalizzazione degli strumenti amministrativi
e negoziali di controllo, la cui conclamata ineffettività favorisce
in misura sempre più larga il diffondersi di comportamenti illegali
e di prassi non trasparenti in settori vitali del mercato e dell'economia
come quello finanziario, societario e creditizio; ulteriori riforme processuali
che valgano tra l'altro:
a) ad assicurare a tutti, abbienti e meno abbienti, la tutela dei propri
diritti, anche di quelli a contenuto non patrimoniale;
b) ad arricchire il processo di cognizione di strumenti decisori idonei
a risolvere la lite senza necessità di attendere la sentenza, anche
attraverso una riscrittura dell'art. 186 quater cod. proc. civ.;
c) a modificare i procedimenti cautelari in modo da renderli virtualmente
idonei a chiudere la controversia in tutti i casi in cui nessuna delle
parti abbia interesse all'instaurazione del giudizio di merito;
d) a ripensare radicalmente il sistema delle impugnazioni, ed a fondare
su nuove basi l'intera disciplina del processo di esecuzione.
Il recupero di funzionalità della giustizia postula necessariamente
la revisione delle circoscrizioni giudiziarie e l'introduzione del giudice
unico di primo grado. é ormai constatazione comune che l'assetto
organizzativo della giustizia italiana, a causa dell'incongrua dislocazione
degli uffici, dell'altrettanto irrazionale distribuzione degli organici
che ne deriva, dell'intersecarsi e sovrapporsi dei diversi ambiti territoriali
di riferimento, reca in se stesso le premesse per la violazione del giusto
processo.
E' parimenti da tutti riconosciuto - almeno a parole - che l'unificazione
degli uffici togati di primo grado gioverà a favorire una migliore
utilizzazione delle risorse ed una più accentuata specializzazione
dei magistrati; costituirà - almeno nel processo civile - una forte
spinta verso il superamento della molteplicità dei riti, di cui
appare sempre più evidente, insieme al groviglio delle competenze,
il loro porsi quale fonte di incertezze che alimenta a sua volta nuovo
contenzioso.
Deve essere dunque considerato come un segnale fortemente positivo
la definitiva approvazione, nei giorni scorsi, del disegna di legge recante
"delega al governo per l'istituzione del giudice unico di primo grado",
in cui sono contenute anche alcune norme che costituiscono un primo passo
verso la revisione delle circoscrizioni giudiziarie.
Ed una volta introdotto, nell'ambito della magistratura professionale,
il giudice unico di primo grado, si accentuerà ancor di più
la tendenza a spostare sul giudice di pace la funzione di raccordo tra
istanze di giustizia e diffusività della giurisdizione, un tempo
(e, in parte, ancora oggi) affidata al pretore.
La valorizzazione del giudice di pace, per renderlo sempre più
idoneo a svolgere questa funzione, postula che siano completate le relative
piante organiche; realizzati, se del caso, ulteriori concentrazioni o o
decentramenti di sedi; assicurati, ove mancano, mezzi e strumenti; potenziati
gli strumenti di formazione professionale; ritagliate nuove competenze,
anche per materia.
LA MAGISTRATURA ONORARIA
Ciò che occorre, è una riflessione sistematica intorno
alla funzione stessa della magistratura onoraria, sino ad oggi considerata
come strumento di mero supporto di quella professionale, una sottospecie
"minore" rispetto alle forme di risoluzione delle controversie nell'ambito
del processo ordinario consegnato dalla tradizione.
Tale funzione non ha certo perduto di attualità ed, anzi, appare
tuttora suscettibile di proficue applicazioni: basti pensare, ad esempio,
alla grande utilità che l'impiego dei giudici di pace potrebbe avere
allo scopo di far fronte agli arretrati della giustizia civile, che per
gli uffici pretorili - del tutto trascurati dalla legge istitutiva delle
"sezioni stralcio" - sono costituiti soprattutto dalle pendenze della "nuove"
cause.
Ma è necessario, soprattutto e insieme, pensare a una funzione
autonoma e propria della magistratura onoraria, configurandola come un'istanza
cui affidare compiti di mediazione dei conflitti, prevedendo accanto e
prima delle vie ordinarie del processo luoghi d'incontro in cui ai cittadini
siano fornite occasioni ulteriori per tutelare i propri diritti, in modo
meno formali ma più vicini alle esigenze sostanziali di giustizia.
Si tratta, cioè, di affrontare su un piano più alto e
comprensivo il tema della partecipazione all'amministrazione della giustizia,
consentendo agli artt. 102, terzo comma e 106, secondo comma della Costituzione
di tradursi in un tessuto di strumenti capaci di rendere più forte
il carattere democratico delle istituzioni e, insieme, di contrastare anche
i grandi fenomeni illegali assicurando il buon funzionamento della "piccola"
giustizia ordinaria.
In una prospettiva diretta al contenimento della spinta che tende sempre
più a degradare i diritti sostanziali in meri diritti processuali,
penso ai benefici effetti che avrebbe quella attività preventiva
di consulenza e assistenza che, coinvolgendo a vario titolo strutture pubbliche,
organi di informazione, movimenti dei consumatori, Camere di commercio,
associazioni forensi, può aprire una dialettica di tipo nuovo favorendo
dinamiche di superamento e composizione della conflittualità sociale.
Non basta scrivere alcuni principi nella Costituzione per rendere la
giustizia migliore. L'effettività delle garanzie, del resto, dipende
anche dall'assetto concreto della magistratura; e l'assetto che si sta
delineando nella "nuova" Costituzione non è affatto rassicurante
per i cittadini.
Ogni riforma, del resto, per quanto positiva, rischia di restare operazione
di pura facciata fino a quando la giustizia non torna ad essere compito
di ogni segmento dello Stato e se non viene recuperato il concetto basilare
che la democrazia non è fatta di continui scontri, scambi di accuse
e intolleranza.
Essa è fatta di confronto pacato e sereno, di dialogo costruttivo,
della volontà di concorrere insieme - nel leale e reciproco riconoscimento
dei rispettivi ruoli istituzionali e professionali - alla costruzione del
diritto obiettivo.
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