Impresa & Stato n°37-38
FEDERALISMO, SVILUPPO, WELFARE COMMUNITY
Portare il "terzo sistema" al
centro dello sviluppo economico,
per risolvere il problema
della disoccupazione
e quello della povertà sociale
di
GIORGIO
RUFFOLO
In Italia,
negli ultimi anni, sono cresciuti l'interesse e l'attenzione per il diffondersi
di organizzazioni private impegnate, senza fini di profitto, nella produzione
di beni d'interesse collettivo: in particolare associazioni di volontariato
e non, e cooperative sociali. Insomma per lo sviluppo del terzo sistema.
Proprio così decidemmo di chiamarlo, piuttoso che "terzo settore",
in un rapporto del 1978 per la Commissione di Bruxelles dal titolo un po'
enfatico: Un progetto per l'Europa.
Terzo sistema lo chiamammo, perchè pensavamo non a una specie
di provincia marginale dell'impero moderno d'Occidente, ma a una nuova
rete di regolazione istituzionale dei rapporti sociali, accanto a quella
del Mercato e dello Stato. Da allora il terzo sistema è divenuto
una realtà in rapido sviluppo e il centro di riferimento di una
ricchissima letteratura: negli Stati Uniti, in Europa e, finalmente, anche
nel nostro paese.
C'è forse una ragione di carattere molto generale per questo
intenso e nuovo interesse. Ed è la crescente complessità
delle nostre strutture sociali. Complessità crescente significa
crescente interdipendenza dei soggetti sociali (in senso verticale e orizzontale)
e quindi crescente esigenza di rapporti circolari e non lineari: rapporti
che esigono un feed back, una retroazione tra i soggetti. Da una parte,
in senso verticale, tra lo Stato e i cittadini: non basta più il
rapporto lineare, dall'alto al basso, dell'autorità. Occorre sempre
più un rapporto circolare del consenso.
Dall'altra, in senso orizzontale, tra i soggetti economici: non basta
più il rapporto lineare della competizione, nel quale ciascuno agisce
indipendentemente dagli altri e il mercato si prende carico di coordinare
il tutto. Occorre sempre più, a causa delle crescenti economie e
diseconomie esterne, che i soggetti si intendano preventivamente tra loro,
per esempio, con la politica dei redditi: anche per influenzare le aspettative.
Insomma, è sempre più evidente la necessità di bilanciare
l'area della competizione con un'area della cooperazione, di riparare ai
fallimenti reciproci dello Stato e del Mercato aprendo (meglio, sviluppando,
perchè c'è sempre stata) una nuova area della cooperazione
sociale. Ci sono poi cause più dirette e specifiche. L'aumento del
reddito individuale, del tempo libero, dei livelli educativi ha fatto emergere
impulsi esistenziali civili e morali di solidarietà: bisogni di
dare, di esprimere se stessi direttamente attraverso la generosità
disinteressata, il raffinato egoismo della solidarietà.
IL PARADOSSO DELLE ECONOMIE RICCHE
La malattia dei costi dei servizi sociali gestiti dallo Stato ha fatto
emergere la duttilità e l'efficienza dei servizi gestiti su misura
e in modo conviviale. E per ultimo, non da ultimo le attività del
terzo sistema si sono dimostrate, anche nell'attuale stadio di sviluppo
iniziale, buone matrici di occupazione. Tuttavia lo sviluppo del terzo
sistema, dell'economia non profit, dell'economia sociale, resta ancora
un fenomeno interstiziale, embrionale, marginale. Ora il problema è
invece proprio quello di porre lo sviluppo dell'economia sociale al centro,
e non alla periferia dello sviluppo.
Per farlo è necessario affrontare in termini macroeconomici
il paradosso delle economie ricche, la povertà sociale e la disoccupazione
di massa.
E' un fatto che nelle economie industriali avanzate sussistono e si
aggravano due squilibri strutturali: quello tra beni sociali e beni privati,
che dà luogo alla povertà sociale; e quello tra forze di
lavoro complessive e occupazione che dà luogo alla disoccupazione.
Fenomeni indipendenti, ma che determinano un problema di interdipendenza
politica. é infatti paradossale che esistano nello stesso tempo
bisogni insoddisfatti (i bisogni sociali) e risorse non utilizzate (i disoccupati).
Sorge spontaneo e naturale il bisogno di mettere queste ultime al servizio
di quelli. Keynes diceva la stessa cosa sessant'anni fa. Ma molte cose
sono cambiate da quel tempo.
Intanto qual'è la causa della disoccupazione oggi? Possiamo
rifarci agli schemi del passato?
Schematizzando grossolanamente, due sono i principali paradigmi teorici,
positivi e normativi, che trattano il fenomeno della disoccupazione di
massa: quello neo-classico e quello keynesiano. Secondo il primo, la disoccupazione
dipende dalle imperfezioni del mercato del lavoro: rigidità salariali,
contrattuali, normative. Secondo l'altro, da un difetto di domanda. Ambedue
i paradigmi fissano la loro attenzione su problemi di livello: livello
dei costi del lavoro nel primo caso; livello della domanda effettiva nel
secondo. Ambedue le interpretazioni sono state oggetto, nel corso della
storia e della politica contemporanea, di estenuanti dibattiti; e contrapposte
l'una all'altra con fiere contestazioni, mostrando entrambe la propria
insufficienza. Si può tentare di individuare la causa profonda di
questo doppio fallimento nel fatto che la "nostra" disoccupazione è
causata molto meno da problemi di livello e molto più da problemi
di struttura? Per problemi di struttura intendo quelli che si riferiscono
all'impatto del progresso tecnologico sulla produzione, sull'occupazione,
sulla produttività. Anche questo è problema antico. Davide
Ricardo ne trattò, con scandalo dei benpensanti di allora (sembrò
infatti che desse qualche ragione al luddimo operaio) nella terza edizione
dei suoi Principi (1831). Da allora gli economisti si dividono tra tecno-ottimisti
e tecno-pessimisti: tra coloro che sono convinti che il progresso tecnologico
distrugga più jobs di quanti ne crea e coloro che sono convinti
del contrario. Come molte grandi dispute, anche questa è rimasta
indecidibile.
Resta un'altra proposta strategica. Si tratterebbe di redistribuire
non il lavoro disponibile, ma i flussi della domanda. Per ottenere la piena
occupazione sarebbe necessario assicurare non un certo livello, ma una
certa struttura della domanda. Si tratta insomma di spostare sistematicamente
risorse dai settori nei quali la produzione è ottenuta prevalentemente
con aumenti della produttività a quelli nei quali è ottenuta
prevalentemente con aumenti dell'occupazione. Dai settori a produttività
crescente a quelli a produttività stagnante. I primi coincidono,
grosso modo con beni d'uso privato. Gli altri, sempre grosso modo, con
beni di utilità pubblica.
BENI SOCIALI, MALATTIA DEI COSTI
Ciò permetterebbe: da una parte di non ostacolare il progresso
tecnologico, frenandolo o ritardandolo per preoccupazioni occupazionali;
dall'altra di redistribuirne i frutti in modo da equilibrare la quantità
e la qualità dell'offerta dei beni privati con la qualità
e la quantità dell'offerta dei beni pubblici. Si potrebbero così
risolvere, con la stessa strategia, le due stridenti contraddizioni delle
nostre società ricche: la disoccupazione di massa e lo squallore
pubblico nell'opulenza privata (Galbraith).
Ma perchè questo travaso non avviene? La natura dei beni privati
e dei beni sociali è diversa, per quanto riguarda la loro offerta
e la loro domanda. Per quanto riguarda il modo di produrli: nei beni privati
il lavoro può essere sostituito da input inanimati. Nei beni sociali
ciò è molto meno possibile e soprattutto è meno auspicabile.
Pochi pazienti vorrebbero sostituire un buon chirurgo con un robot. Questa
è l'origine di quella che Baumol ha chiamato la malattia dei costi
nel settore dei beni sociali, dove la produttività ristagna. A produttività
bassa corrispondono, nel mercato, remunerazioni basse. Ma siccome le remunerazioni
del settore a produttività stagnante sono fatalmente attratte da
quelle del settore a produttività crescente, i costi della produzione
salgono. Con essi dovrebbero salire i prezzi. Ma qui interviene un altro
fattore: la domanda. O meglio: i limiti privati della domanda sociale.
Per quanto riguarda la loro domanda, i beni privati sono in generale
appropriabili individualmente, i beni sociali no. E' naturale che la domanda
privata si rivolga a beni privati. I beni sociali sono quindi, per così
dire, lasciati in balia della malattia dei costi. Ne deriva che il mercato
può operare con profitto, nel settore dei beni sociali, solo
là dove c'è domanda a prezzi che riflettono gli alti costi
(beni sociali privatizzati, come i vigilantes, le cliniche di lusso, o
come si usava alle corti dei principi, un confessore personalizzato)
o dove si possono pagare ai lavoratori costi bassi, adeguati alla bassa
produttività. Nel primo caso, l'offerta resta per la maggior parte
insoddisfatta. Nel secondo è soddisfatta a livelli di qualità
assai mediocri.
Il travaso naturalmente, può restare affidato allo Stato, attraverso
il prelievo fiscale obbligatorio e la gestione statale dei servizi sociali.
Ora, non è chi non veda che tale circuito è oggi bloccato
dalla crisi fiscale dello Stato. Sia come percettore che come gestore di
risorse economiche, lo Stato incontra ovunque in Europa limiti di tolleranza
e di consenso. Aumenti massicci della pressione fiscale, come pure allargamenti
cospicui della gestione pubblica sono inattuabili.
DOMANDA E OFFERTA DI NUOVO TIPO
Resta un'ipotesi intermedia, ma praticabile: la creazione di un nuovo
spazio economico: di un mercato del benessere, promosso e regolato, ma
non gestito dallo Stato. Per questo, occorre promuovere un nuovo tipo di
domanda e un nuovo tipo di offerta dei beni sociali. Quanto al primo punto,
occorre incentivare la spesa privata di beni sociali per due vie: la defiscalizzazione
delle spese individuali; la promozione, finanziaria e fiscale, di nuovi
soggetti di spesa collettiva, di tipo cooperativo e associativo. Questi
ultimi comportano l'appropriabilità per "blocchi", per "quanta",
di certe categorie di beni collettivi, destinati a certi territori o a
certe categorie di utenti. Ciò non è naturalmente possibile
per tutti i beni sociali. Quelli indivisibili a livello dell'intera collettività
dovrebbero naturalmente restare nell'ambito della gestione statale. Ma
una larga parte dei beni sociali sono destinati di fatto a zone o a categorie
ben definibili. Sarebbe così superato l'ostacolo dell'indivisibilità
individuale.
Si consentirebbe, dall'altra parte, agli utenti, di partecipare direttamente
alle scelte del servizio sociale. L'utente di beni sociali che aderisce
a un soggetto di consumo collettivo pagherebbe meno tasse; pagherebbe per
i beni sociali che riceve oggi gratuitamente un prezzo, che sarebbe tuttavia
minore di quello che il mercato gli assicurerebbe individualmente, grazie
alle economie di scala assicurate dal consumatore collettivo; riceverebbe,
grazie alla concorrenza tra i produttori, beni di qualità migliore;
parteciperebbe alle scelte.
Quanto al secondo punto (un nuovo tipo di offerta), si tratta di passare
dalla gestione in esclusiva dello stato all'offerta in condizioni di concorrenza
tra imprese che si obbligano ad osservare vincoli di prezzo, di qualità,
di non esclusione, compensati da detrazioni fiscali sull'investimento
e/o sulla gestione.
Il mercato regolato può consentire dunque profitti, più
moderati ma più sicuri di quelli dei settori esposti alla concorrenza
estera. I capitalisti, come diceva Keynes, potrebbero giocare a poste più
basse. Esso è quindi praticabile dalle imprese. Ma è evidente
che i soggetti più qualificati a diventarne protagonisti sono proprio
quelle imprese di cooperazione sociale che oggi devono contare quasi soltanto
sulla domanda pubblica e alle quali si aprirebbe il grande mercato della
spesa privata.
Insomma, tra soggetti di consumo collettivi e cooperative di produzione
sociale si aprirebbe uno spazio di contrattazione molto meno "mercatistico"
e molto più caratterizzato da forti elementi "politici". Al limite
di queste tipologie di nuovi soggetti troviamo la comunità di produzione
e di uso dei beni sociali, nella quale i due soggetti si confondono e lo
spazio di contrattazione scompare. Ma è un punto d'arrivo, che è
anticipato oggi dal volontariato sociale; e che per molto tempo ancora
non potrà costituire la struttura portante dell'offerta dei beni
sociali.
Utopia? Al contrario: lo sviluppo telematico potrà dare un formidabile
e concreto contributo alla creazione di nuovi soggetti "socialisti" di
questo tipo. Solo che la portata è un po' più lunga di quanto
si possa credere o sperare. Essa ha bisogno di maturazione culturale, oltre
e più che di invenzione istituzionale. Il nuovo spazio del mercato
regolato, nel quale, tra i due estremi dell'impresa capitalistica e della
comunità assume una funzione primaria l'impresa sociale cooperativa,
permette di superare la sterile dicotomia tra Stato e Mercato, in forza
della quale le due istituzioni fondamentali del nostro tempo si rimbalzano
reciprocamente i loro fallimenti; da cui l'impasse che ho denunciato all'inizio:
il paradosso della povertà sociale e della disoccupazione di massa
nella società opulenta. Il dirottamento relativo della domanda privata
verso i beni sociali permetterebbe infatti di sviluppare nello stesso tempo
la qualità sociale e di conseguire concretamente l'impegno civile,
oggi vergognosamente abbandonato anche dalla sinistra, della piena occupazione.
 
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