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Impresa & Stato n°37-38

 

IL NONPROFIT 
CHE SERVE ALL'ITALIA

La società civile deve generare una economia civile: 
un contributo alla sostenibilità sociale dello sviluppo.
Le condizioni del vantaggio competitivo del nonprofit

di
 STEFANO ZAMAGNI
 
In questa nota, dopo aver brevemente tratteggiato lo sfondo economico-culturale su cui proiettare il discorso sulle organizzazioni non profit ovvero su quelle che impropriamente vengono chiamate le realtà del terzo settore, passo a indicare i risultati pratici che è ragionevole attendersi dalla realizzazione, nel nostro paese, di un nuovo spazio economico, quello dell'economia civile. Nel terzo paragrafo mi soffermo sulle condizioni di sostenibilità, dal punto di vista economico e finanziario, delle organizzazioni non profit in una moderna società di mercato. Infine, un cenno fugace sulle peculiarità del non profit italiano rispetto a quello anglo-sassone. 
Fino agli inizi dell'Ottocento è prevalente, nella cultura occidentale, e in particolare in quella italiana, una linea di pensiero che concepisce il rapporto interpersonale come valore in sé ed il mercato come istituzione capace di conciliare soddisfacimento dell'interesse individuale e perseguimento del bene comune (per un approfondimento rinvio a Porta e Scazzieri, 1996). A partire da  quel periodo, per l'influenza decisiva sia dell'utilitarismo di Bentham sia dell'illuminismo francese, prende corpo nel discorso economico l'antropologia iper-minimalista dell'homo oeconomicus e con essa la metodologia dell'atomismo sociale. La nozione di mercato che in tal modo si impone è quella del mercato come meccanismo allocativo che può essere studiato in vacuo, prescindendo cioè dal tipo di società in cui esso è immerso. E' così potuto accadere che il mercato divenisse, soprattutto a livello di cultura popolare, il luogo ideal-tipico in cui non vi è posto per la libera espressione di sentimenti morali quali l'altruismo, la reciprocità, la relazionalità e così via. La visione caricaturale della natura umana che tale sistemazione teorica ci ha tramandato ha finito col generare un duplice mito: che la sfera del mercato privato coincide con quella dell'egoismo e di conseguenza che la sfera dello stato coincide con quella degli interessi collettivi (o della solidarietà). Di qui il ben noto dualismo stato-mercato privato e l'identificazione dello stato con la sfera del pubblico e del mercato privato con la sfera delle sole imprese for profit. 

SUPERARE LA DICOTOMIA STATO-MERCATO 
 E' oggi urgente prendere atto che la crescita simultanea e ipertrofica di stato e mercato privato, che così si è consumata, è parte non secondaria nella spiegazione dei numerosi problemi che intrigano le nostre società. Se questa è la situazione - come è ormai ai più evidente - il rimedio non può essere allora in una radicalizzazione dell'alternativa stato-mercato privato, ovvero neo-statalismo contro neo-liberismo, ma in una urgente ripresa di tutte quelle forme di organizzazione economica che configurano una moderna economia civile costituita da quel variegato insieme di soggetti che include le organizzazioni di volontariato, le imprese cooperative, l'associazionismo, le fondazioni e così via. 
Invero, la società civile di cui abbiamo bisogno non può essere riduttivamente identificata con l'esistenza di una pluralità di istituzioni capaci di controbilanciare la forza dello stato. Ciò è bensì necessario, ma non sufficiente. Nel nostro paese soprattutto, la società civile o trova il modo di esprimersi a livello della sfera delle relazioni economiche, proponendosi come forza autonoma e indipendente rispetto sia all'economia pubblica sia all'economia privata, oppure rischia di diventare poco più che una vaga espressione letteraria. In altri termini, la società civile non può essere solamente un "presupposto" per il corretto funzionamento dello stato e del mercato privato, intesi quali unici centri regolatori dell'ordine sociale. Una società di mercato adeguata ad interpretare le esigenze di benessere dei suoi cittadini nell'epoca del post-fordismo, deve poter marciare su due gambe: quella dell'economia privata e quella dell'economia civile. Di entrambe abbiamo necessità se vogliamo ricercare i modi per civilizzare la competizione, per superare cioè quella versione polemologica del mercato che, a fronte di costi umani e sociali inaccettabili, non riesce a soddisfare i canoni della stessa razionalità economica. Nella prospettiva della durata, dunque, non solo è più "benevolente", ma anche più conveniente organizzare il processo economico chiamando la società civile a cooperarvi che non assegnandole mere funzioni interstiziali e affidandosi ai soli schemi di incentivo economico. Quali risultati pratici deriverebbero dalla implementazione di quello che possiamo chiamare il modello civile di ordine sociale? Non è questa la sede per soffermarsi sui meccanismi di funzionamento di tale modo di realizzazione dell'ordine sociale, anche se si tratta di un compito irrinunciabile. 
Mi limito a porre il seguente interrogativo: quali nodi problematici della società italiana un robusto settore di economia civile dovrebbe essere chiamato a sciogliere? La risposta è racchiusa nelle pieghe di questa tesi: la sostenibilità sociale del processo di sviluppo è oggi messa a serio repentaglio, soprattutto nel nostro paese, dall'intensificarsi di tre specifici paradossi sociali della crescita: l'aumento delle ineguaglianze, territoriali e personali, che si accompagna all'aumento della ricchezza e del reddito medio; la crescita senza occupazione (jobless growth), il fatto cioè che l'allargamento della base produttiva non genera più, oggi, automaticamente nuova occupazione; le difficoltà crescenti a soddisfare i bisogni dei cittadini prescindendo dalle loro preferenze ovvero dai loro punti di vista. Pur contraddistinti da diversità specifiche, questi paradossi, hanno in comune due elementi. Nessuno dei tre ha direttamente a che vedere con situazioni di scarsità delle risorse materiali. Essi segnalano piuttosto una situazione di scarsità sociale e - come si sa - scarsità del genere si sanano solo incentivando la fornitura di beni relazionali, di quei beni cioè che costituiscono l'unico efficace antidoto alla devastante competizione posizionale. Il secondo elemento è che tutti e tre quei paradossi costituiscono una seria minaccia alle ragioni della libertà intesa in senso positivo (per una discussione di queste tesi si veda Zamagni, 1997, a cui rinvio anche per una ampia bibliografia). 
Si sarà notato che ho sempre impiegato l'espressione economia civile e, più raramente, quella di organizzazioni non profit: mai quella di terzo settore. La ragione è che terzo settore è espressione teoricamente non solida - stato e mercato che dovrebbero essere gli altri due, non sono settori - e culturalmente equivoca, perché accredita l'idea di residualità e di supplenza: dove non può arrivare lo stato e dove non ha convenienza ad operare l'impresa privata, lì si crea la nicchia per l'organizzazione non profit. Come a dire che il fondamento e la ragion d'essere del terzo settore starebbe in un duplice fallimento: quello dello stato e quello del contratto, come appunto la letteratura economica anglosassone da tempo va teorizzando. 
Occorre tuttavia resistere a questa impostazione concettuale e ciò alla luce di due considerazioni basilari. La prima è che un tal modo di argomentare porta a contraddire, nella pratica, quel principio di sussidiarietà che tutti dichiarano di accogliere e di sottoscrivere. A nessuno sfuggirà la situazione di antinomia in cui versa, oggi, la sussidiarietà: l'universale riconoscimento del suo valore e della sua importanza si scontra con una consistente difficoltà delle sue possibilità di attuazione. L'altra considerazione attiene alla sfida di civilizzazione che non possiamo non raccogliere: incrementare la qualità civile della società italiana. E' per questo che abbiamo bisogno di dilatare la concezione di economia di mercato che una certa vulgata della tradizione di pensiero liberale ci ha tramandato, quella secondo cui il mercato è coestensivo alla sfera delle sole imprese private, vale a dire delle sole organizzazioni che operano per il profitto. 

LE CONDIZIONI DI SOSTENIBILITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT 
Sorge spontanea la domanda: posto che in una moderna economia di mercato settori protetti non possono durare a lungo, è lecito presumere che le organizzazioni non profit riescano a raccogliere e vincere la sfida che viene loro dal doversi confrontare con le altre forme di impresa, private e pubbliche? Per abbozzare una risposta, conviene considerare che l'impresa nonprofit può rispondere alla sfida competitiva in due modi: accentuando la propria specificità attraverso un potenziamento delle interazioni con le altre organizzazioni non profit, oppure abbandonando di fatto tale specificità attraverso la progressiva adozione di forme organizzative e di finalità imprenditoriali di tipo capitalistico. 
Nel primo caso, per non essere espulse dal mercato, le imprese nonprofit devono essere in grado, nei loro settori di attività, di "far bene" quanto le altre imprese dal punto di vista della efficienza e, nello stesso tempo, di "fare altro", ossia perseguire efficacemente i propri scopi statutari. A prima vista, queste richieste possono apparire del tutto irrealizzabili. Già il mero raggiungimento di una posizione concorrenziale rispetto alle imprese tradizionali appare in molti casi un obiettivo ambizioso e difficilmente raggiungibile, senza considerare che tale obiettivo potrebbe talvolta entrare in conflitto con il perseguimento delle stesse finalità statutarie. 
Tuttavia, questa visione pessimistica non prende in considerazione né l'esistenza degli specifici fattori di vantaggio comparato né la natura sistemica che caratterizzano i soggetti dell'economia civile. 
Invero, mentre l'impresa for-profit può effettivamente essere concettualizzata come un soggetto economico che interagisce con tutti gli altri operatori attraverso le impersonali relazioni di mercato, acquistando e vendendo risorse ai prezzi correnti ed esercitando, quando può, il proprio potere oligopolistico per ottenere condizioni contrattuali migliori, l'impresa nonprofit si propone invece fin dalla sua origine come una struttura a rete sociale. Ne deriva che una reale comprensione dei fattori di vantaggio competitivo delle organizzazioni non profit non può prescindere dalla natura sistemica del loro modello imprenditoriale. Tale vantaggio si manifesta, in particolare, quando si considera la complessità dei fattori che determinano la capacità contrattuale delle imprese con riferimento tanto ai soggetti economici esterni, quali clienti e fornitori, quanto ai soggetti interni le cui risorse contribuiscono a vario titolo al funzionamento dell'impresa stessa. Come è noto, la realizzazione di un accordo contrattuale si fonda sempre sulla rinuncia, da parte dei contraenti, al pieno controllo delle circostanze contrattualmente rilevanti e richiede quindi un certo grado di fiducia e di affidabilità reciproche. La creazione di condizioni favorevoli in tal senso è un processo lungo e costoso e presuppone l'esistenza di un apparato istituzionale ben sviluppato ed efficiente, tanto più quando le operazioni e le prestazioni previste dal contratto si fanno complesse. 
Le imprese capitalistiche cercano di ovviare a tali difficoltà attraverso la creazione di una reputazione di affidabilità nei rapporti esterni e attraverso l'elaborazione di codici etici di condotta più o meno espliciti che disciplinano i rapporti interni garantendo ciascuno dagli abusi di autorità (Sacconi, 1993). In altre parole, l'impresa capitalistica deve poter ricreare, attraverso il ricorso a specifici meccanismi regolativi, quelle forme di socialità e di relazionalità che sono invece gli elementi costitutivi caratterizzanti le organizzazioni non profit nelle quali il reclutamento stesso dei soci avviene sulla base di un'esplicita condizione di socialità. La notevole libertà che domina la scelta di adesione a tali organizzazioni consente, infatti, di instaurare relazioni sociali genuine, senza gli usuali vincoli della tradizione (la famiglia) o del contesto lavorativo (pressione economica e socializzare). 

IL VANTAGGIO COMPETITIVO DEL NONPROFIT 
Né va dimenticato che nello svolgimento di prestazioni lavorative in imprese di questo tipo, può esservi un'importante componente di consumo, e ciò nel senso che le relazioni sociali che si instaurano nel perseguimento di un obiettivo accettato liberamente e concordemente possono rappresentare un parziale fattore di remunerazione. Ogni organizzazione produttiva infatti fornisce, in aggiunta agli output acquistati dai consumatori, anche degli output acquistati da chi vi lavora. Si tratta di tutti quei beni di cui si viene a godere nello svolgimento delle proprie mansioni e che possono indurre ad accettare o mantenere un posto di lavoro in cui tali beni abbondino, a dispetto del fatto che altrove il livello di remunerazione possa essere più alto. 
Se dunque l'obiettivo sociale proposto è credibile e meritevole di interesse, è la stessa scelta di adesione a questa forma di impresa a segnalare la disponibilità degli individui ad instaurare relazioni produttive sulla base di quelle premesse. Per coloro che volessero perseguire finalità di natura esclusivamente economica, sarebbe più conveniente entrare sul mercato e vendere i propri servizi ad una impresa capitalistica, che sarebbe certo in grado di offrire condizioni contrattuali più vantaggiose sotto quel punto di vista. In altre parole, l'impresa nonprofit è potenzialmente in grado di operare una selezione efficiente reclutando la propria forza lavoro attraverso l'offerta di un pacchetto remunerativo "misto" che può risultare attraente soltanto per chi possiede un effettivo interesse al perseguimento dei fini di questa. 
Per l'impresa non profit, dunque, il costo connesso alla realizzazione di accordi contrattuali anche complessi nei quali la componente della fiducia gioca un ruolo sostanziale è potenzialmente minore rispetto a quello sopportato da un'impresa capitalistica. Se tali potenzialità siano poi più o meno sfruttate nella pratica è cosa che dipende, in ultima istanza, dalla struttura di incentivi connessa alla effettiva scelta di adesione all'organizzazione. Se infatti la natura dell'attività e la struttura delle remunerazioni ad essa connessa sono tali da rendere la partecipazione attraente anche per individui le cui motivazioni sono essenzialmente economiche e soltanto opportunisticamente connesse alla promozione del fine sociale (ad esempio individui con una dotazione modesta di capitale umano ed incapaci di competere credibilmente sul mercato del lavoro per accedere alle imprese capitalistiche), la selezione potrebbe anche avvenire secondo modalità perverse annullando il vantaggio competitivo. 
Queste considerazioni svelano l'infondatezza della tradizionale contrapposizione tra perseguimento dei fini sociali e competitività dell'impresa nonprofit. Lungi dall'essere un impedimento, la finalità sociale di queste organizzazioni può divenire un importante canale di trasmissione e di amplificazione dei suoi fattori di vantaggio comparato, contribuendo alla selezione efficiente delle risorse umane e materiali e ponendo le premesse per una gestione delle attività produttive e per una distribuzione delle responsabilità decisionali compatibili con livelli elevati di X-efficienza. La creazione di una effettiva democrazia economica all'interno dell'impresa presuppone la formazione di un sistema di norme sociali ampiamente condiviso e tale da sollecitare un uso efficiente delle risorse individuali (per un ampliamento di questo discorso rinvio a Zamagni, 1996). 

BIBLIOGRAFIA
  • G. P. Barbetta (a cura di), Senza scopo di lucro, il Mulino, Bologna, 1996. 
  • P. L. Porta e R. Scazzieri, "Concorrenza e società civile", in A. Quadro Curzio (a cura di), Alle origini del pensiero economico in Italia, Mulino, Bologna, 1996. 
  • L. Sacconi, "Regole etiche per l'agire cooperativo", La cooperazione italiana, vol. 106, 1993. 
  • S. Zamagni, "Organizzazioni non profit e economia di mercato: un progetto di economia civile", in Osservatorio G: Dell'Amore e Cnpds, Le organizzazioni senza fini di lucro, Giuffrè, Milano, 1996. 
  • S. Zamagni a, "Economia civile come forza di civilizzazione della società italiana", in P. Donati (a cura di), Rapporto sulla società civile in Italia, Mondadori, Milano, 1997. 
  • S. Zamagni b, "Il non profit della società post-fordista alla ricerca di nuova identità", in G. Vittadini (a cura di), Il non profit dimezzato, Etas, Milano, 1997.