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Impresa & Stato n°37-38

 

RIPENSARE L'HABITAT SOCIALE

La velocità del cambiamento sociale mette in crisi la qualità dell'habitat.
Una "strategia dei servizi" per ricreare un nuovo habitat.Come progettarla?

di
 EZIO MANZINI
 
Ogni servizio ha luogo in uno spazio. E dalle particolarità di questo spazio trae alcuni dei suoi aspetti caratterizzanti. Non solo: ogni servizio, mettendo in campo delle relazioni tra persone e tra persone e cose all'interno di uno spazio, genera luoghi. Cioè ambienti in cui si intrecciano relazioni e si producono significati. Riflettere sui servizi richiede dunque di considerare anche l'ambiente che li contiene e che da essi, in parte almeno, prende forma. E discutere dell'innovazione nei servizi significa anche occuparsi della scena all'interno della quale essa potrà avvenire: la metropoli contemporanea e le trasformazioni che la stanno investendo. 
D'altro lato, nell'affrontare questi temi ci si rende immediatamente conto che se c'è una necessità di riflettere su cosa siano i servizi (e, in particolare, i servizi sociali), c'è un'altrettanto grande urgenza di farlo anche su come si stia trasformando la scena in cui essi hanno luogo. 
Tutto ciò ci porta a pensare all'habitat sociale. Ma l'immagine intuitiva che a quest'espressione è collegata, quella di uno spazio fisico in cui vive una comunità, non ci aiuta più a comprenderlo: troppe cose sono cambiate (e stanno cambiando) in ciò che possiamo intendere per spazio e per comunità.
Per questo mi pare che non si tratti solo di pensare all'habitat sociale, ma di ripensarlo. Di trovare cioè nuovi modelli di lettura che ci permettano di riconoscerlo anche se le forme in cui si presenta sono così diverse da quelle che le esperienze passate ci hanno mostrato. 
L'habitat umano è sempre un habitat sociale. Chi "abita" non è un individuo isolato (o un'insieme di individui isolati) ma è sempre una comunità. E questo perché abitare non è solo legato alla dimensione fisica e biologica degli esseri umani ma anche a quella socio-linguistica: si abita un luogo e si abita un linguaggio. E il linguaggio, per definizione, richiede una comunità: l'habitat sociale è l'habitat di una comunità di umani che parla la stessa lingua e che, a partire da qui, costruisce delle forme sociali. L'habitat, dunque, esiste ed evolve in relazione (anche) all'esistenza e all'evoluzione di questa comunità. E, viceversa, questa comunità costruisce delle forme sociali che esistono ed evolvono in relazione (anche) al proprio habitat.

LA PRODUZIONE DELL'HABITAT SOCIALE
La relazione tra i due poli, habitat e comunità, va precisata. Ciascuno dei due è dotato di una propria autonomia: habitat e comunità si trasformano infatti anche in base a delle dinamiche che dipendono dall'evoluzione dei sovrasistemi di cui sono parte (il primo è parte dell'ambiente, cioè di un più generale macrosistema naturale-artificiale, il secondo del sistema sociale complessivo). Ciò non di meno, ciascuno dei due, influenza l'altro e ne è influenzato. Non solo: è proprio quest'interazione "puntuale" che, combinandosi con altre interazioni generate dal rapporto tra altre comunità e altri habitat, mette in atto l'evoluzione sia del macrosistema naturale-artificiale, sia di quello sociale complessivo. In altre parole, ogni comunità, pur non avendone il controllo, ha un ruolo nell'orientamento generale dei macrosistemi di cui è parte. 
In un dato tempo e in un dato luogo, l'habitat sociale presenta dunque delle caratteristiche che dipendono da una molteplicità di fattori. Alcuni dipendono direttamente dall'azione della comunità che lo abita (che potremmo definire come i fattori endogeni), altri da fenomeni esterni ad essa (i fattori esogeni). Ovviamente, i primi sono quelli che caratterizzano uno specifico habitat sociale. Da essi deriva il grado di adattamento reciproco che, in un dato momento, si verifica tra una comunità e il suo ambiente. Torneremo più avanti su questo aspetto, che è quello che qui più direttamente ci interessa. I fattori esogeni costituiscono invece quella componente dell'habitat che non è trasformabile dalla comunità che lo abita. 
Potremmo vederli come la "materia prima" con cui l'habitat specifico viene realizzato. Essi sono: 1. il substrato naturale, cioè le caratteristiche dell'ambiente inteso come ecosistema originario (a sua volta individuabile come un microambiente locale facente parte di un macroambiente globale), 2. le trasformazioni dell'ecosistema originario avvenute in epoche precedenti (cioè ciò che resta e si tramanda degli habitat sociali delle comunità che, nel passato lontano e recente, hanno abitato quello stesso luogo), 3. le dinamiche del cambiamento generate da altre comunità umane che, in forma diretta o indiretta, influenzano le caratteristiche dell'habitat considerato (cioè la materializzazione delle interazioni tra esseri umani e ambiente, cui la comunità presa in esame non partecipa, ma i cui effetti ne investono l'habitat specifico). 
La coppia comunità-habitat sociale dipende dunque da come ha luogo il reciproco adattamento: quanto e come la comunità prende forma dai fattori esogeni (le variabili fuori dal suo controllo) e quanto e come dà forma ai fattori endogeni (le variabili sotto il suo controllo). 
Ripercorrendo brevemente la storia di questa co-evoluzione si nota che, per quanto riguarda i fattori esogeni, si è passati da una prevalenza di quelli relativi alle caratteristiche dell'ecosistema originario (le comunità prendevano largamente forma a partire dalle particolarità dei substrati naturali su cui insistevano), ad una prevalenza di quelli relativi alle trasformazioni pregresse e alla presenza di macrosistemi artificiali (le comunità prendono forma a partire dall'ambiente artificiale esistente e dai fenomeni d'innovazione che lo investono). 
A questo punto, anche se le intenzioni di quest'intervento sono quelle di concentrarsi sul polo dell'habitat, è necessario introdurre alcune considerazioni riguardanti le comunità e cosa oggi possa essere inteso con questo termine. 

L'ARTICOLAZIONE DELLE FORME SOCIALI E DEI CONTESTI SPAZIALI 
Ciò che fin qui abbiamo inteso come comunità è una forma sociale (o un insieme di forme sociali) all'interno della quale dei soggetti intrattengono delle conversazioni e stabiliscono così dei legami. La "materia prima" di una forma sociale è quindi il linguaggio. E la sua possibilità di esistenza è la comunicazione intersoggettiva. 
Per le comunità arcaiche la possibilità di comunicare era limitata dai vincoli spaziali della contiguità tra gli interlocutori e dai vincoli temporali di una mobilità lenta (a piedi, a cavalo, in carrozza, ...). Di qui derivava che la loro possibilità di esistenza era riferibile ad uno spazio circoscritto e che, salvo rare eccezioni, ogni loro membro partecipava a delle forme sociali che condivideva con altri soggetti a lui spazialmente prossimi. Erano insomma comunità di soggetti che partecipavano alle stesse forme sociali, che vivevano nello stesso contesto spaziale, e che quindi si riferivano ad un unico habitat sociale (l'habitat dell'insieme delle forme sociali che costituivano la loro comunità). In genere, ancora oggi, il termine "comunità" evoca proprio questo tipo di immagine: un insieme di soggetti, strettamente collegati tra loro da una molteplicità di legami sociali e altrettanto strettamente collegati ad un luogo. Oggi quest'idea di comunità va profondamente modificata. 
Se la comunità si costruisce sul linguaggio e sulla comunicazione, la rottura del vincolo della prossimità spaziale (prima con lo sviluppo dei mezzi di trasporto e poi con quello delle telecomunicazioni) ha cambiato il modo di esistenza delle comunità e con esso il rapporto con il proprio habitat. 
La questione è ben nota: le comunità della metropoli contemporanea si trovano a vivere (in un contesto ambientale in cui, come si è detto, la possibilità di interazione tra soggetti (e quindi la possibilità di esistenza di forme sociali) non è più limitata dai vincoli della contiguità spaziale tra gli interlocutori. E poiché la possibilità di comunicare prescinde dalla distanza, le forme sociali si riferiscono a contesti spaziali che non sono più necessariamente circoscritti e continui. Ne deriva che i soggetti partecipano ad una molteplicità di forme sociali che condividono con interlocutori diversi e diversamente distribuiti nello spazio. Ed ogni forma sociale diventa una specifica comunità che si interseca o è contigua con altre comunità e che è in relazione con un proprio habitat specifico (a sua volta intersecante o contiguo con gli habitat delle altre comunità esistenti). 
Di conseguenza, così come ciascun soggetto è partecipe di diverse comunità, il suo habitat è il punto di intersezione di una molteplicità di specifici e particolari habitat sociali deterritorializzati, corrispondenti, appunto, alle diverse forme sociali cui egli prende parte. 
La ridefinizione del termine comunità richiede dunque di passare da un'immagine mentale ad un altra: da quella di una comunità (quasi) chiusa su se stessa e sul proprio specifico habitat sociale, a quella di un intreccio di comunità molto più complessamente collegate ad un territorio fisico. Ciò ha notevoli implicazioni per ciò che riguarda il modo in cui ha luogo l'interazione tra comunità e habitat sociale. Se infatti per le comunità arcaiche i modi di quest'interazione erano immediatamente evidenti (era chiara la natura, la stabilità e l'intensità dei legami sociali ed era chiaro l'ambiente fisico cui si riferivano e su cui incidevano), altrettanto non si può dire per le comunità contemporanee. Non più vincolate dalle necessità della prossimità fisica, le forme sociali hanno la possibilità di estendersi in tutte le direzioni e di deterritorializzarsi. Contemporaneamente, poiché ogni forma sociale fa comunità a sé ed ha un proprio habitat specifico, si riduce la sua possibilità/capacità di agire su di esso. E, viceversa, poiché ogni luogo fisico può risultare habitat di una molteplicità di comunità di verse (portatrici di diverse esigenze) può accadere che nessuna lo senta davvero come il proprio habitat e quindi nessuna se ne prenda cura. Venendo meno così non solo la forza per esercitare la capacità/possibilità di agire su di esso, ma anche la stessa volontà di farlo. Credo che si possa affermare che molta parte del degrado che caratterizza gli habitat contemporanei derivi proprio da questo senso di non appartenenza ai luoghi da parte dei soggetti e delle comunità che li abitano.  La qualità dell'habitat sociale è un aspetto costituente del più generale concetto di qualità sociale. Se quest'ultima è data dal grado di soddisfazione che presentano i soggetti che vivono in una data società, la qualità dell'habitat sociale è il contributo che vi porta l'ambiente fisico, naturale e artificiale. In altre parole: se la qualità sociale abbraccia contemporaneamente le qualità delle forme sociali e quella dell'ambiente in cui hanno luogo, essa può essere vista come un indicatore dello stato della co-evoluzione di habitat e comunità. 
D'altro lato poiché è intrinseco in ogni co-evoluzione l'esistenza di tensioni tra i due elementi della coppia, la qualità dell'habitat sociale, dal punto di vista della comunità è data dal grado di tensione che essa percepisce. Cioè dalla distanza tra le sue aspettative e il modo in cui l'ambiente le si presenta. 
Continuando in questo modo di vedere le cose, possiamo assumere che una comunità giudica soddisfacente il proprio habitat quando non percepisce tensioni e cioè, quando si riconosce nel proprio ambiente. Ne deriva che la qualità percepita dell'habitat sociale è data da quanto la comunità è riuscita ad "appropriarsene". 
Una comunità "fa proprio" l'ambiente in cui vive in due modi.
Il primo, quello più diretto, è quello di "dare forma" all'ambiente trasformandone alcuni caratteri (le variabili "sotto controllo") in coerenza con le proprie specificità. Il secondo modo è invece quello che la porta a "dare senso" all'ambiente producendo un sistema di significati che portino ad integrare nella propria cultura quelle componenti ambientali che non rientrano nella sua sfera di influenza (le variabili "fuori controllo"). 
La qualità dell'habitat sociale percepita dall'interno di un comunità deriva dunque dalle sue aspettative (gli standard socialmente prodotti e condivisi) e dal loro confronto con la realtà (la distanza tra gli standard sociali e le esperienze di vita reali) su entrambi questi piani.
Il tema può dunque essere riformulato in questo modo: è possibile individuare alcune caratteristiche dell'habitat fisico tali da permettere (e, possibilmente favorire) quel processo di apprendimento (da parte di una comunità) e di reciproco adattamento (tra comunità e ambiente) di cui abbiamo parlato e che abbiamo indicato come presupposto alla generazione della sua qualità? A mio parere la risposta è, in linea di principio, affermativa. Si può cioè analizzare quanto e come, a livello globale, un dato "sistema-ambiente" possa prendere senso Cioè quanto e come una comunità possa integrare nella propria cultura i fenomeni che investono il suo habitat, ma che sfuggono al suo controllo (il che significa qual è il loro grado di "comprensibilità"). Ed inoltre, quanto e come, a livello locale, quel sistema-ambiente (o il progetto di una nuova componente del sistema-ambiente) possa prendere forma da una comunità (qual è dunque la sua "trasparenza" e la sua "duttilità"). 
Nei paragrafi che seguono verranno proposte alcune considerazioni su come l'habitat sociale sia evoluto passando dalla società arcaica (cioè premoderna e preindustriale) e quella contemporanea. Su come in questo passaggio siano cambiate la sue comprensibilità, la sua duttilità e la sua trasparenza. 
E su quale ruolo abbiano giocato due fondamentali fenomeni che lo hanno investito: l'intensificazione della sua artificializzazione e la velocità della sua trasformazione. 

L'INTENSITÀ DELL'ARTIFICIALIZZAZIONE 
Per le comunità arcaiche l'artificializzazione dell'habitat era modesta: la sua componente naturale era ancora fortemente presente (caratteristiche climatiche, risorse locali, vincoli tecnici dovuti alle intrinseche proprietà dei substrati materici impiegati) e quella artificiale si riferiva prevalentemente ad una scala locale conoscibile e, in qualche modo controllabile, da una comunità. Ne derivava che la principale componente esogena con cui una comunità doveva confrontarsi era data dalla "natura", cioè dall'insieme dei fenomeni di origine naturale. Di conseguenza, la qualità dell'habitat sociale era largamente determinata da come questi fenomeni fuori controllo venivano integrati nella propria cultura (come la comunità raggiungeva una condizione culturale e operativa di "convivenza con la natura"). 
Per le comunità della metropoli contemporanea l'artificializzazione dell'habitat ha raggiunto uno stadio di estrema intensificazione: non solo la sua componente naturale è sempre meno direttamente percepibile, ma la sua componente artificiale è sempre più estesa e collegata a macrosistemi le cui dinamiche sfuggono non solo al controllo ma anche alla semplice leggibilità da parte delle singole comunità. 
Ciò comporta che sono questi macrosistemi artificiali e i loro effetti a scala locale che costituiscono la maggior componente esogena nella determinazione dell'habitat. E che la sua qualità è sempre più largamente determinata da essi e dalla capacità di comprenderli e di integrarli nel proprio quadro di riferimenti culturali. D'altro lato, mentre la caratteristica dei fenomeni "fuori controllo" naturali è quella di essere praticamente costanti nel tempo, e quindi di permettere l'adattamento culturale e operativo di cui si diceva, i fenomeni "fuori controllo" artificiali evolvono e si trasformano più velocemente mettendo continuamente in tensione la capacità delle comunità di integrarli nella propria cultura (cioè di comprenderli). Ed è proprio attorno a questo, cioè alla velocità del cambiamento, che si mette in luce la seconda caratteristica dell'habitat sociale contemporaneo. 

LA VELOCITÀ DEL CAMBIAMENTO
Per le comunità arcaiche la co-evoluzione delle forme sociali e dell'habitat, e specificatamente della sua componente artificiale, avveniva con tempi tali che l'adattamento reciproco avveniva in modo non percepibile da chi lo viveva e senza mettere in crisi la continuità e la solidità delle convenzioni tecnico-culturali in atto: nella coscienza comune habitat e forme sociali ''erano così perché così era sempre stato e così doveva essere". 
Per le comunità contemporanee, viceversa, la velocità della trasformazione implica la consapevolezza di vivere in una fase di grande cambiamento e che tale cambiamento è, nel suo insieme, fuori dal proprio controllo. In questo tempo accelerato, l'evoluzione delle forme sociali e dell'habitat avviene con diverse velocità, producendo delle disconnessioni (le forme sociali sono incoerenti con l'habitat in cui hanno luogo) e richiedendo ai soggetti implicati una continua ritematizzazione della loro relazione con gli altri soggetti e con l'ambiente. 
Sono questi processi accelerati che rendono problematica quella spontanea appropriazione dell'habitat che in passato ha costituito la base per la definizione della sua qualità. Un habitat intensamente artificializzato e in rapida trasformazione risulta poco "comprensibile" in quanto non c'è tempo per fondare un discorso (cioè una mitologia o una scienza - che è poi un'altra forma di mitologia) che dando spiegazioni ai fenomeni fuori controllo, li riporti all'interno del proprio quadro di riferimenti culturali. Non solo: quest'habitat accelerato interconnesso con macrosistemi planetari non appare "duttile" e "trasparente". E questo, se non altro, perché non c'è il tempo necessario per un apprendimento basato su uno spontaneo processo di prova ed errore che porti a sedimentare le soluzioni che risultano più appropriate. 
Ciò che emerge insomma è la crisi di una formula secolare di costruzione dell'habitat sociale e la necessità di introdurne una nuova. Questo nuovo modo di costruire l'habitat sociale va però collocato in un contesto futuro che è ancora diverso da quello che fin qui ho cercato di delineare. 

LA RISCOPERTA DEI LIMITI
Per quanto sia comunemente, e giustamente, sottolineato il carattere turbolento della fase attuale e la radicale imprevedibilità del futuro, è possibile delineare alcune caratteristiche degli habitat che verranno a partire dalla lettura di alcuni fenomeni oggi in atto e la cui "pesantezza" è tale da rendere più che probabile la loro continuazione (il che, è bene ricordarlo, non significa prevedere un futuro, ma individuare alcuni possibili tratti comuni all'infinità di "futuri possibili" contenuti nel nostro presente). 
L'emergere dei limiti del Pianeta é il più potente e profondo fattore di cambiamento operante nelle società contemporanea. Per rendersene conto non bisogna considerare solo ciò che in genere viene considerato come attenente al "problema ambientale". Il fenomeno infatti non si presenta solo nei termini più evidenti e diretti del degrado ambientale, ma emerge anche sotto altre forme: la saturazione dei mercati (limiti della domanda, la disoccupazione (limiti alle possibilità di lavoro), il proliferare di guerre regionali sul controllo di risorse naturali (limiti alle risorse), l'emigrazione e i problemi razziali che ne derivano (limiti demografici), la difficoltà ad immaginare il futuro (poiché l'interiorizzazione del concetto di limite impedisce di pensare al futuro nella maniera più semplice, cioè come ad una continuazione del passato, come la riproposizione di un modello di sviluppo basato sulla crescita dei consumi materiali). 
Non solo: oggi verifichiamo anche come l'emergere dei limiti dell'ambiente fisico, la biosfera, si integri con l'emergere dei limiti della semisfera, cioè dell'ambiente immateriale in cui vivono le idee e si producono i significati. Verifichiamo cioè che la quantità di segnali che vengono emessi, superato un certo livello, si scontra con i nostri limiti di ricezione e decodificazione e provoca fenomeni di saturazione e inquinamento semantico. 
Come si può sintetizzare l'emergere dei limiti alla scala dell'habitat sociale? La prima e più ovvia risposta fa riferimento all'evidenza locale dei danni ambientali (l'accumulo dei rifiuti, gli effetti dell'inquinamento idrico e atmosferico, ...) e il rendersi conto, anche se in modo ancora molto confuso, che gli habitat sociali delle metropoli industriali hanno preso forma nel quadro di sistemi di produzione e consumo altamente dispendiosi di risorse ambientali. E che questo non potrà durare.
L'emergere dei limiti prende anche un'altra forma diffusamente percepibile: quella della saturazione. La metropoli contemporanea ci appare ormai come un habitat saturo. E poiché non c'è un "altrove" vuoto da colonizzare, sappiamo che ogni idea di futuro, ogni ipotesi di sviluppo non potrà che essere una riorganizzazione di quello che in esso oggi troviamo. In altre parole: ogni immagine che possiamo farci degli habitat di domani è, più che in passato, condizionata da ciò che è stato fatto ieri, cioè da quelli che abbiamo definito come i "fattori pregressi" nella definizione dell'habitat. All'idea (del tutto astratta, ma che ha fortemente condizionato l'immaginario collettivo) dell'ingegnere illuminista che disegna dal nulla la città ideale occorre sostituire quella del bricoleur che usa (creativamente, se ne è capace) quello che c'è. Decontestualizzandolo e attribuendogli nuovi significati e nuove funzionalità. 

VERSO LA SOSTENIBILITÀ 
I tema dei limiti non può dunque essere riportato semplicemente alla "questione ambientale", così come in questi anni è stata trattata (cioè come un insieme di problemi cui di volta in volta si cerca di porre rimedio). Il tema dei limiti si collega dunque a quello della sostenibilità ambientale, e a quello della società che la realizzerà, cioè la società sostenibile. 
Se ci chiediamo qual è la riduzione nel consumo di risorse ambientali che si renderà necessaria, la risposta da parte di chi si occupa di questi argomenti è la seguente: si possono considerare sostenibili solo quei sistemi produttivi e di consumo il cui impiego di risorse ambientali per unità di servizio reso sia del 90% inferiore a quello attualmente riscontrabile nelle società industriali mature. 
Un sistema produttivo e di consumo capace di rispondere alla domanda sociale di benessere utilizzando solo il 10% delle risorse attualmente impiegate é un sistema profondamente diverso da quello che fino ad oggi abbiamo conosciuto. In altre parole: un aspetto fondamentale della transizione è che essa si dovrà presentare come un imponente processo di dematerializzazione. 
I lineamenti della sostenibilità, così come sono stati qui richiamati portano con sé alcune evidenti conseguenze anche perciò che riguarda l'habitat sociale: nessuna sua parziale modifica (cioè un'operazione di re-design dell'esistente) può portare a questi risultati. La sostenibilità ambientale implica un sistema di produzione e consumo, e quindi degli habitat sociali, che si fondino su nuove basi. E questo non solo per ciò che riguarda la loro "dimensione fisica" (flussi di materia e di energia), ma anche per ciò che riguarda la loro "dimensione economica e istituzionale" (relazioni tra attori sociali) e la loro "dimensione etica, estetica e culturale" (criteri di valore e giudizi di qualità che lo legittimano socialmente). 
In questo quadro, la cultura e l'economia, e con esse le capacità creative e imprenditoriali, dovranno essere in grado di passare dalla centralità del "fare" (immaginato sempre applicato a "nuove e inesplorate frontiere") a quella del "ri-fare", cioè all'attività di riqualificazione degli habitat degradati dai due secoli di guerra all'ambiente che la nostra società industriale ha inconsapevolmente condotto. 
La trasformazione delle forme sociali e del loro ambiente nella prospettiva della sostenibilità avverrà, e di fatto sta già avvenendo, contemporaneamente ad un altra grande trasformazione: la diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, i cui effetti interagiscono e interagiranno sempre più, con le problematiche ora ricordate. 

HABITAT AMPLIFICATI
 E' già stato osservato che l'introduzione dei moderni mezzi di trasporto e di comunicazione ha da tempo portato a modificare le comunità e il loro rapporto con lo spazio. Ciò che però oggi sta avvenendo è un'accelerazione del cambiamento di dimensioni tali da non essere leggibile solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi: gli habitat umani stanno cambiando la loro natura. 
Quello di cui già oggi facciamo l'esperienza è infatti uno spazio operativo amplificato le cui proprietà ci obbligano ad estendere la nostra definizione di habitat: la "virtualizzazione" vi aggiunge delle estensioni quasi immateriali che ne allargano le potenzialità senza modificarne (quasi) la fisicità. La "connettività" ne modifica i bordi introducendovi luoghi, cose e persone spazialmente lontane. L"'interattività", infine, lo rende capace di trasformarsi facilmente e di retroagire in tempo reale alla nostra azione su di esso. 
Saranno proprio questi habitat amplificati che, in qualche modo, dovranno essere ricondotti alla sostenibilità. 
In altre parole l'habitat sostenibile sarà un habitat amplificato. E l'habitat amplificato, per avere speranza di esistere davvero, dovrà essere un habitat sostenibile. 

UNA STRATEGIA DEI SERVIZI PER L'HABITAT SOCIALE
Riassumendo: l'intensificazione dell'artificializzazione e la velocità del cambiamento hanno messo in crisi i processi con cui in passato si è generata la qualità dell'habitat sociale. Se dunque la qualità che emergeva dal lento e inconsapevole adattamento tra una comunità e il suo habitat non si può più realizzare, si pone l'interrogativo se e come essa possa essere generata da un'azione intenzionale, cioè da una forma di progetto. L'interrogativo diventa ancora più rilevante nel quadro della transizione verso la sostenibilità e della necessità di gestire l'imponente trasformazione che essa richiede. 
Assunto che nessuna soggettività può proporsi di progettare la qualità dell'habitat sociale nel suo insieme, l'ipotesi di lavoro che qui si propone è che vi sia la possibilità di promuoverne alcuni aspetti mettendo in atto una "strategia dei servizi".
Con il termine "servizio" intendo l'integrazione nel tempo di relazioni, tra soggetti e tra soggetti e sistemi materiali, finalizzate all'ottenimento di un risultato il cui valore sia congiuntamente riconosciuto dagli attori sociali coinvolti. Mentre il termine "strategia" si riferisce ad una serie di mosse tramite cui l'azione di chi opera in modo intenzionale e finalizzato (il progettista) interagisce positivamente con quelle di altri attori promuovendo un più complesso e articolato fenomeno di innovazione sociale. 
Della definizione di servizio che ora abbiamo proposto vanno sottolineati alcuni aspetti: il servizio esiste perché i soggetti coinvolti (chi ne è "utente" e chi ne è "produttore") riconoscono che dalla loro cooperazione si genera un valore. Ed è questo valore da produrre che porta a realizzare tra di essi delle forme di legame e quindi una forma di comunità. In definitiva, dunque, ad ogni servizio così inteso corrisponde la creazione di legame sociale e una "strategia dei servizi" è, potenzialmente, un terreno di crescita per nuove comunità. 
D'altra parte, affinché ciò avvenga, sono necessari dei prodotti, dei sistemi tecnici, e degli spazi coerenti e "funzionali" (sia in termini di efficacia che in termini semantici) con la forma sociale creata e con il valore da produrre. Questi prodotti, questi sistemi e questi spazi costituiscono dunque, contemporaneamente, la componente materiale del servizio e l'habitat di quella particolare forma sociale che il servizio rende attiva. Certamente, per ciascuno dei soggetti coinvolti in questo servizio e in questa forma sociale, questo habitat non è l'unico e il solo habitat di cui egli si trova ad essere abitante. Ne può essere però una sua significativa componente e concorrere alla sua qualità: il servizio, infatti, "ha luogo" (cioè esiste in un dato luogo) e "produce luoghi" (esistendo rafforza l'identità dei luoghi). E questa sua capacità di "produrre luoghi" è, a mio parere, il ponte che collega il tema della qualità dell'habitat con quello dei servizi. 
Giunti a questo punto, però, la domanda di partenza (è possibile progettare l'habitat sociale?), si sposta su un'altra domanda altrettanto difficile: chi progetta e come si progettano questi nuovi servizi? Si tratta infatti di passare dalla tradizionale progettazione centrata sul prodotto fisico, ad una nuova progettazione centrata sulla forma delle relazioni tra soggetti e tra soggetti e prodotti. 
Chi può progettare queste relazioni? Infatti, da un lato è chiaro che nessuno può progettare la vita degli altri e quindi le relazioni che essi vi intrattengono (e se qualcuno ci provasse davvero, gli effetti sarebbero deleteri!). Ma, dall'altro lato, è chiaro anche che ogni atto progettuale che si materializza, in un prodotto o in un servizio, entra nella vita delle persone e la influenza (aprendo delle possibilità e chiudendone delle altre). 
Non basta ridefinire l'oggetto del progetto (dal prodotto al servizio), ma ridefinire anche la forma in cui il progetto ha luogo e pensarlo in termini di processo: un processo in cui intervengono più attori, (non solo quelli formalmente impegnati nella progettazione e produzione, ma anche quelli che non lo sono, cioè gli utenti ) e che si sviluppa nel tempo (non solo il tempo della progettazione da parte dei progettisti, ma anche quello dell'uso, inteso anche come attività di continua reinterpretazione e "appropriazione" da parte degli utilizzatori). 
All'interno di questo processo, il ruolo dei progettisti orientati al servizio non è quello di predefinire la forma delle relazioni, ma è quello di creare (o almeno favorire) le condizioni affinché le relazioni possano prendere forma. In altre parole, la progettazione del servizio va intesa come un processo (duttile e modificabile lungo il percorso) finalizzato a favorire l'attivazione o la creazione di competenze, creatività e imprenditorialità diffuse.