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Impresa & Stato n°37-38

 

NASCE L'IMPRESA SOCIALE 

Ripensare i servizi sociali come processo di rigenerazione 
della socia lità, attraverso la partnership 
su progetti comuni

di
 OTA DE LEONARDIS
 
I grandi sistemi d'intervento sociale (l'assistenza, la sanità, l'educazione, ecc.) che si sono sviluppati nell'alveo del welfare state come dispositivi di base della cittadinanza, sono oggi sottoposti alla divaricazione tra crescenti vincoli di spesa e problemi sociali emergenti. Da un lato, essi sono oggetto di misure restrittive e tagli di spesa, delegittimati come un lusso non più sostenibile e come un intralcio alla nuova crescita economica. Dall'altro essi appaiono drammaticamente inadeguati rispetto ai problemi sociali cui dovrebbero rispondere, che comunque persistono, anzi si moltiplicano in conseguenza anche del tipo di crescita economica in atto. Sono problemi di grande portata sia sotto il profilo quantitativo (si pensi per esempio in che proporzioni le popolazioni delle nostre società ricche sono coinvolte nell'esperienza delle nuove povertà, della nuova vulnerabilità sociale; e si pensi d'altra parte anche ai flussi migratori) sia rispetto alle divisioni e lacerazioni nel tessuto sociale che essi tendono a generare.
Non v'è dubbio perciò che i servizi sociali vadano ripensati. In proposito vi è un discorso diffuso, al limite del senso comune, in cui la soluzione è cercata lungo le seguenti linee:
lo Stato, impoverito e inadeguato, deve ritirarsi dalla gestione diretta dei servizi, per assumere soltanto funzioni di indirizzo e di controllo; e lo spazio liberato viene occupato da iniziative della società civile, di mercato o solidali: è lo spazio per lo sviluppo del terzo settore, o sistema, che può assumersi il compito di sviluppare servizi sociali, in forme che promettono di combinare insieme solidarietà e libertà, efficienza e orientamento al cliente.
Questo discorso, che come dicevo ha quasi la forza del senso comune, accompagna e registra un processo per molti aspetti irreversibile. Ciò significa che per un verso ogni risposta improntata a criteri di difesa dell'impalcatura storica del welfare state è destinata ad essere sopraffatta dalla forza e velocità del processo.
Ma d'altra parte questo processo può e deve essere orientato e qualificato rispetto agli esiti, anche molto diversi, che da esso possono derivare. La capacità e libertà d'iniziativa sociale, e la stessa solidarietà, non sono da soli garanzia di tenuta - e tanto meno di ricomposizione - del legame sociale, di convivenza civile: la società civile può anche rivelarsi profondamente incivile. E dunque i criteri per le scelte e le azioni questo campo, devono essere oggetto di riflessione scientifica e di discussione pubblica.

IN CRISI IL PATTO SOCIALE
Un punto di partenza, preliminare, attiene ai motivi stessi del ripensamento. Perché, appunto, ripensare i servizi sociali? e rispetto a che cosa, a quali criteri essi risultano delegittimanti e impotenti? Questi quesiti rinviano al quadro più generale, di cornice, dei cambiamenti in atto in quell'assetto sociale e istituzionale fondato sul binomio tra modello fordista dell'economia e welfare state, che ha caratterizzato le società industriali degli ultimi 50 anni. Il welfare state - cioè appunto il sistema dell'intervento sociale - vi ha costituito per parecchio tempo una soluzione, più o meno precaria e parziale a seconda dei contesti, al problema della trasformazione della crescita economica in benessere sociale (e viceversa); a lungo se ne è parlato anche in termini di "patto sociale", a significare il fatto che sul terreno del welfare state si giocava la possibilità di compromessi tra classi e interclassi in conflitto, che costituivano la condizione per definire e perseguire interessi e valori condivisi.
Ebbene, è questa soluzione storica che è venuta meno, mettendo con ciò in discussione l'assetto consolidato dei servizi sociali. Ma il problema resta, anzi è più che mai cruciale oggi: il problema appunto di un patto sociale che renda coniugabili insieme crescita economica e benessere sociale. L'elaborazione scientifica sulla riorganizzazione della struttura economica e sulle nuove forme della crescita sottolineano alcuni processi connessi alla globalizzazione dell'economia all'esaurirsi del modello della grande impresa fordista: la crisi dello statuto del lavoro e delle garanzie legate alla condizione lavorativa; la segmentazione del mercato del lavoro e l'espandersi di economie informali; la crescente polarizzazione tra aree geografiche in crescita e aree depresse; la divaricazione tra crescita economica e occupazione - la jobless growth - e l'estendersi della disoccupazione strutturale. Dunque l'affermazione di un nuovo sistema economico (post-fordista, post-industriale, ecc.) si accompagna ad elevati costi sociali. Il rischio che questi ultimi abbiano effetti dirompenti è a sua volta aggravato dall'esaurirsi dei correttivi e degli ammortizzatori che hanno funzionato fin qui: le forme di aggregazione, rappresentanza e concertazione degli interessi di grandi attori collettivi, le forme istituzionali di redistribuzione del reddito e, in concreto, il sistema dei diritti e dei servizi sociali. I costi sociali impregnano il tessuto sociale e vi alimentano frammentazione, divisioni e barriere, aggregazioni per "gruppi di identità" (secondo la definizione di M. Piore) in cui si intrecciano in modo inedito particolarismo e fondamentalismo (si pensi alle etnie), localismi e confronti oppositivi (la logica è quella amico-nemico), fortezze e regimi della paura e dell'autorità. Queste lacerazione del legame sociale articolazioni di un'unica forza, quella della separazione: anzitutto la separazione tra il mondo che vive della crescita economica, della produzione e circolazione di ricchezza, e il mondo dei suoi costi sociali segnato da deprivazioni, dipendenza ed elevata insicurezza. Dunque qui sta il motivo di fondo per ripensare i servizi sociali: è in gioco la necessità e l'urgenza di ripensare modi per ricomporre questa separazione e ricostituire relazioni sinergiche tra economica e benessere sociale. I quesiti sottesi al ripensamento in questione non attengono perciò in prima istanza alle possibilità e modi di aumentare la funzionalità dei servizi, l'efficienza, l'economicità, ecc., ma piuttosto ruotano attorno a questo nodo, che riguarda la ratio stessa dei servizi sociali: se, come, con quali configurazione essi possono riparare fratture, creare "borderlands" (un'altra immagine di Piore) ai confini tra mondi separati, abbattere barriere e ricostruire legami, così contribuendo appunto a ricostruire sinergie tra crescita economica e benessere sociale.

SERVIZIO COME PARTNERSHIP
Il primo passo che propongo per ripensare i servizi sociali è di natura concettuale, o meglio attiene ai concetti, al linguaggio e alle metafore da adottare per parlarne. Spesso si vuole accostare e far interagire idee e sperimentazioni innovative che si sviluppano dalla crisi dei servizi sociali, con quelle che accompagnano l'importanza crescente che i servizi vanno assumendo nella produzione e nel mercato.
Tuttavia, questo accostamento non va frainteso: non va banalizzato come una variante della diffusa perorazione a che i servizi sociali imparino dal mercato, incorporandone linguaggi e relativi criteri di azione; non va inteso come un capitolo del training a comportarsi come aziende, da parte dei servizi sociali.
Questo accostamento è invece finalizzato a mettere a tema un quesito, allo stesso tempo più specifico e più complicato: che cos'è servizio? Il lavoro attorno a questo quesito è dunque il primo passo, di natura concettuale appunto, per ripensare i servizi sociali.
Nell'elaborazione sui servizi per il mercato, e in genere a proposito delle nuove forme organizzative dell'impresa e degli scambi, l'immagine che ricorre più di frequente è quella del network, dell'impresa rete e della network economy. In essa si enfatizzano il peso decisivo della comunicazione, e il posto che vi hanno la dimensione cognitiva, l'apprendimento, il lasco organizzativo e la flessibilità, la cooperazione e la partnership. Vi è accordo in proposito attorno a due requisiti costitutivi della nozione di servizio: 
a) servizi sono relazioni che producono relazioni;
b) l'unità di misura che qualifica lo statuto relazionale del processo/prodotto "servizio" è la partnership.
Richiamo qui alcuni dettagli importanti per individuare le implicazioni di questa nozione di servizio. 
Anzitutto, servizio è relazione, beninteso in senso astratto: il fuoco è su quel processo che costituisce sia i soggetti che gli oggetti. Detto in un altro modo, nel caso del servizio l'azione è costitutivamente interazione: non è prestazione che un agente deputato offre ed eroga in forma di prodotto ad un destinatario, un cliente. Nella fattispecie è quell'interazione in cui si trasforma, si plasma e si genera quella materia squisitamente intersoggettiva che sono comunicazione, interscambi, legami sociali, e soggetti che sono tali quanto condividono questa materia intersoggettiva: in questo senso il servizio è un processo fondato su, e generativo di, partnership. Dalla prospettiva del mercato, e del marketing, un buon processo/prodotto servizio è quello che produce "societing", "fidelizzazione", eccetera. Dove il prodotto materiale, il bene venduto è in realtà veicolo di un servizio, di relazioni generative di legami sociali, se non di appartenenza ad una comunità, come qualcuno addirittura vorrebbe (è il caso, sempre citato, dell'IKEA).
Non saprei valutare la rilevanza e le implicazioni di questo tipo di legami sociali che si creano nel mercato. Certo è, comunque, che questa rielaborazione della nozione di servizio appare fortemente significativa e pertinente per i servizi sociali: a maggior ragione in questo caso dovrebbe essere opportuno e possibile definirli come flussi di interazioni, il cui fine sia generare nel contesto in cui operano interazioni sociali; creare soggetti, e materie di relazioni e interscambi tra soggetti.
Invece è difficile, perché il campo è ingombro di concetti, parole e metafore che impediscono di mettere a fuoco la natura delle interazioni in gioco e di ciò che vi si genera. Si ragiona e si parla, più che mai qui, di prestazioni: si immaginano i servizi come apparati, macchine, che erogano prestazioni; s'intravedono a monte la gerarchia dei poteri e la divisione per competenze e funzioni. La metafora più appropriata sembra essere quella del "castello", come suggerisce Butera: servizi come luoghi autarchici, separati tra loro e dalla vita reale da barriere comunicative e relazioni bloccate, e vuoti di relazione al proprio interno. 
 E' difficile configurare interazioni generative di partnership quando l'attenzione è centrata sugli attori, separatamente presi: da un lato l'organizzazione - o l'operatore singolo - che svolge una prestazione, per competenza professionale o per solidarietà; dall'altro il destinatario, utente o cliente che sia, che comunica in un modo soltanto: chiede. In interazioni di partnership non ci sono soggetti che interagiscono comunicando in un solo modo; ciò che vi accade non è una declinazione dei chiedere e donare, attribuire e ricevere, domandare e offrire: verbi che implicano oggetti, beni a loro volta definiti con nomi di cose: il farmaco, il colloquio, il posto letto, il sussidio, la casa, il lavoro. Nel linguaggio corrente sui (e nei) servizi di questo si parla; e si configurano interazioni ridotte ad uno stampo: a) funzionano per esclusione. Si comunica attorno ad una cosa soltanto, e in un unico modo, escludendo altre materie, altri soggetti e altri modi di comunicazione; b) riproducono dipendenza, anzitutto la dipendenza da chi detiene il potere di definire regole e contenuti dell'interazione (e, si badi, questo stampo non muta se il servizio in questione è statale, o "privato-sociale"). Siamo alla radice del cosiddetto assistenzialismo, dove allignano sudditi, non cittadini.
I servizi sociali producono ciò che sono, la stessa materia sociale di cui sono fatti: in questo stampo non c'è partnership, né come processo né come prodotto servizio.
Dunque, come dicevo, è difficile. Ma la prospettiva che emerge dalla riformulazione della nozione di servizio non introduce soltanto un cambiamento nei modi di ragionare, nel vocabolario, sui servizi sociali: introduce anche un cambiamento nelle cose che si osservano. Si riesce a parlarne in modo diverso se si riesce a vedere cose diverse. Questo è già meno difficile: bisogna uscire dal lavoro sui concetti e parole che si è sviluppato a partire dal quesito: che cos'è servizio? e riprendere contatto, attraverso l'osservazione, con l'oggetto concreto.

SERVIZIO COME NETWORK
Questo è il passo successivo. E il quesito attorno a cui lavorare è questo: quali interazioni di servizio, quando, a quali condizioni, sono generativi di partnership? Dobbiamo dunque mettere a fuoco i "modi di connettersi"  come il luogo cruciale in cui si elaborano, si creano e si generalizzano forme e significati dei rapporti sociali.
Se osserviamo il mondo dei servizi, con questa attenzione, troviamo delle risposte al quesito. Li troviamo più facilmente in situazioni di sperimentazione ed innovazione; ma possiamo riconoscerli anche negli interstizi del funzionamento a regime di un servizio "normale".
Possiamo osservare per esempio progetti complessivi di intervento sociale fondati sul principio stesso della partnership: quando si tratta di innescare un processo di rigenerazione urbana in un quartiere degradato attraverso progetti alla cui definizione e implementazione partecipano le istituzioni competenti, gli interessi coinvolti e anzitutto i diretti interessati.
Possiamo vedere che certe materie "nuove" facilitano modi di connettersi fondati sulla partnership e generativi di partnership: per esempio le politiche del tempo e gli esperimenti in atto in molte città (non solo italiane) per innescare cambiamenti nei servizi pubblici agendo sulla variabili degli orari. Uno degli elementi più interessanti in questo ambito - è il caso ad esempio dell'esperimento in atto attorno al Piano Regolatore degli Orari del Comune di Milano - consiste nel fatto vi s'innesca la possibilità per la stessa pubblica amministrazione di apprendere ad operare per progetti e non per competenze funzionali, attivando compartecipazione al proprio interno e, all'esterno, coalizioni tra interessi potenzialmente in conflitto.
Alcuni beni - tra quelli tradizionalmente trattati dai servizi sociali - si prestano male a veicolare e generare interazioni sociali: se si tratta di farmaci, ad esempio, è più difficile; più facile invece con materie più complesse, non riducibili ad un unico bene e ad un unico modo di comunicare: quando ad esempio in gioco non è la cura della malattia ma la promozione della salute. Possiamo osservare le implicazioni di questo passaggio nei progetti di healt promotion dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel cui ambito troviamo esempi significativi della ridefinizione di servizi come promotori delle capacità di autoorganizzazione ed elaborazione dei problemi e delle soluzioni da parte di comunità locali.
E ancora, possiamo osservare nel campo della riabilitazione e dell'integrazione sociale (o anche della cosiddetta "lotta all'esclusione sociale") strategie rivolte a creare o ricreare legami sociali, spazi e motivi per interagire e scambiare. In queste strategie, in modo rovesciato rispetto alle routine consolidate dell'assistenza, è l'agente erogatore che impara a domandare e ad ascoltare, mentre il suo partner (il cliente, l'utente) è valorizzato per le sue capacità, da immettere nel progetto in cui è coinvolto, non per i suoi deficit, da colmare. Cambiano i verbi che connotano l'interazione (non più donare, chiedere, ecc.): ciò che accade appartiene al registro del progettare e fare cose insieme, del partecipare alla creazione di mondi possibili che coinvolgono tutti i soggetti in campo. E cambiano le materie dell'interazione: non si trattano cose - la casa, il lavoro, ecc. - ma azioni, cioè ancora verbi - abitare, lavorare - verbi che implicano soggetti e rapporti sociali. All'opera sono modi di connettersi che creano soggetti, che allargano i campi e le capacità di scelta e di azione.
E infine qualcosa abbiamo da vedere e da imparare anche da certi progetti di cooperazione in aree del Sud del mondo, un campo in cui è particolarmente vistosa la polarizzazione tra deprivazione e know-how, carica di tutti gli stereotipi della modernità. Qui possiamo scoprire che interazioni di partnership non solo un lusso ma una necessità, e che la generazione di rapporti e soggetti si accompagna ad una diversa utilizzazione e combinazione delle risorse esistenti.
SOCIALI SE PRODUCONO SOCIALITÀ
Dobbiamo affrontare a questo punto un terzo quesito: in che senso sono "sociali" i servizi sociali? Il quesito riguarda la natura del prodotto servizio, e dell'eventuale valore aggiunto che i servizi generano, con riferimento in particolare ai servizi sociali. Questo aggettivo - "sociale" - non designa una caratteristica costitutiva dei beni erogati o distribuiti dai servizi sociali, né dei problemi o bisogni cui rispondono, come invece convenzionalmente si tende a pensare: non sono la malattia o il farmaco - né parole, soldi o anche posto di lavoro - ad essere intrinsecamente sociali. A questo punto del percorso si può affermare: i servizi sono sociali quando, e in quanto, producono socialità, in quanto cioè generino e rigenerino legami sociali, comunicazione, cooperazione e conflitto. Quando moltiplicano interazioni, e linguaggi, motivi e soggetti di interazioni. Quando, come abbiamo visto, le materie che essi trattano sono di natura intrinsecamente relazionale, definite non con nomi di cose, ma con verbi: non la casa, appunto, ma l'abitare. Il valore che così si crea non è misurabile col metro tradizionale dell'efficienza economica e con quello complementare dell'autointeresse (ivi compreso la cosiddetta "soddisfazione del cliente"). Né il prodotto né il valore sono privati - benché possano essere molto importanti per il singolo, poiché interagiscono con dotazioni ed esperienze che attengono all'identità, a questioni di vita e di morte, a libertà e sicurezze nel comporre la propria vita, eccetera. Essi appartengono al registro di quei beni che sono tali in quanto condivisi, materia di relazioni ed esperienze che attengono alla qualità e allo spessore del tessuto sociale, più concretamente della convivenza civile.
Se di questo si tratta, nel caso dei servizi sociali, allora stiamo parlando di istituzioni, intese come quel patrimonio collettivo e comune di intelligenza sociale dedicato a curare, a mantenere vitale il tessuto sociale. Perciò, anzitutto, la qualità dei servizi sociali, in quanto istituzioni, o viceversa il loro degrado influisce direttamente sulla qualità - o il degrado - dell'habitat sociale in cui operano. Il loro impatto riguarda la collettività, non i singoli consumatori, clienti o utenti; questo è vero tanto più in quanto essi operano in zone problematiche della vita sociale, dove allignano povertà, degrado, aggregati sociali infelici e distruttivi, con tutto il repertorio tipicamente umano di sofferenza, solitudine, violenza, paura, impotenza. Gli spazi in cui i servizi operano, i modi e gli outcomes hanno un carattere costitutivamente pubblico, quale che sia la loro collocazione giuridica.
La questione molto dibattuta sulla collocazione nel "pubblico" (nel senso di statuale) o nel "privato" (mercantile o solidale) dei servizi sociali va posta solo a valle del riconoscimento di questo statuto istituzionale dei servizi: la qualità loro e dell'impatto della loro azione appartiene comunque allo spazio pubblico, al discorso collettivo su beni e valori comuni. Centrale è invece la questione del profilo universalistico o meno dei servizi, la questione fondativa dei diritti, che deriviamo dalla tradizione del welfare state. E, più concretamente, i problemi relativi all'assetto e funzionamento della pubblica amministrazione sono centrali: è anzitutto questo il patrimonio collettivo in questione. La crisi della pubblica amministrazione è precisamente "crisi d'intelligenza", per dirla con Crozier; ed è della sua riconversione che si tratta se dobbiamo ripensare i servizi sociali. Sono infatti le sue risorse e le sue forze ad esservi direttamente implicate (parliamo di quasi due milioni di dipendenti pubblici impegnati in servizi di pubblica utilità) - anche come forze d'inerzia e risorse sprecate. Sono i suoi modi di connettersi, al proprio interno e con i cittadini, e ciò che essi generano in termini di relazioni sociali che vanno sottoposte al vaglio della ridefinizione delineata prima. Quando - a parità di risorse - prevale la logica del risparmio (economizzando ad esempio con appalti al massimo ribasso su finanziamenti e servizi) su quella dell'investimento sociale; quando l'enfasi è sulla razionalità economica delle decisioni e dei decisori, invece che sulle condizioni per rendere pubbliche, condivise, le responsabilità decisionali; quando, in materia di comunicazione pubblica, si considera un valore la capacità di informare la "signora Maria" - stereotipo del destinatario passivo, incompetente e deprivato culturalmente (non a caso donna). Quando è questo il modo di riformare l'amministrazione dei servizi pubblici - un modo, insomma, strumentale, che la derubrica a macchina da snellire e rendere efficiente - allora essa continuerà a costare, a generare e generalizzare "signore Maria" in gran numero, relazioni di dipendenza, destinatari passivi, non cittadini ma sudditi. E continuerà ad alimentare servizi (privati o pubblici poco importa) ridotti a prestazioni, di bassa qualità, senza valore sociale aggiunto. Un'amministrazione che intraprende, viceversa, è un'istituzione che amministra la cosa pubblica, che investe sul patrimonio collettivo d'intelligenza dei problemi e delle soluzioni, per creare moltiplicare la ricchezza delle relazioni sociali, le condizioni dell'apprendimento collettivo.

LA METAFORA DELL'IMPRESA SOCIALE
A proposito di patrimonio si apre la possibilità di fare ancora un passo nel ragionamento, ponendoci un terzo quesito: i servizi sociali sono costi? consumano o valorizzano risorse? Mi limito qui soltanto ad accennare alle questioni che questo quesito solleva. La risposta di senso comune a questo quesito, che corrisponde al modo in cui sono tradizionalmente concepiti - e poi anche concretamente funzionano - i servizi sociali, li contabilizza senz'altro dal lato dei costi, come dispositivi di distribuzione (o al massimo di redistribuzione) e consumo di risorse prodotte altrove, come tali separati e sussidiari rispetto al mondo economico. Se e quanto poi tali costi siano necessari - necessari al funzionamento stesso della macchina economica - è ciò su cui si dividono i difensori del welfare state e i sostenitori, in varie versioni, della privatizzazione.
Ma è la risposta che va riformulata, alla luce della prospettiva delineata fin qui: l'azione dei servizi sociali si declina sul versante dei costi in quanto tratti l'assistenza come un mondo a parte, e vi riproduca relazioni fondate sul bisogno, la dipendenza, la passività; in quanto cioè riproduca la separazione, dei servizi sociali stessi e della sfera di relazioni e soggetti implicati, dalla sfera della produzione, della vita attiva, della ricchezza. Quella stessa separazione - di cui si parlava sopra a proposito della ratio dei servizi sociali - generativa di fratture e barriere nel tessuto sociale. Viceversa l'eventuale valore aggiunto che l'azione dei servizi sociali genera - la loro specifica "produttività" - si misura in termini squisitamente sociali sulle relazioni attivate o ricostituite, sui "borderlands" costruiti, sulle fratture ricomposte.
La metafora con cui evochiamo questo percorso di ripensamento dei servizi sociali, con questi esiti, è: impresa sociale.
 E' evidente, alla luce di quanto detto, che questa metafora non è assunta qui né come sinonimo dell'impresa di mercato che persegue strategie di societing con l'ambiente in cui opera (benché vi siano alcune analogie che vale la pena esplorare) né come sinonimo d'impresa non-profit, come il prototipo dell'impresa di servizio con finalità sociali del terzo settore (benché si possa concretizzare anche in questa formula). Non è impresa-oggetto - un'organizzazione - ma un processo: il processo dell'intraprendere, organizzare, generare, "coltivare" - sociale. Servizi sociali che si riconoscono e si comportano come imprese sociali - e ve ne sono - sono intraprese dedicate a suscitare e "far esistere un sociale altrimenti assente, depauperato, lacerato": investendo sulle capacità dei soggetti implicati per il perseguimento di progetti d'interesse comune; attivando coalizioni, partnership, tra interessi diversi; "mettendo su piazze del mercato" là dove gli scambi sono bloccati; coltivando la densità e varietà delle materie e dei soggetti di relazioni sociali; alimentando l'intelligenza sociale dei problemi e delle soluzioni; curando la qualità dell'habitat sociale condiviso.
La metafora dell'impresa sociale riconnette i quesiti sul come ripensare i servizi sociali al perché, il primo quesito, quello relativo alla loro ragion d'essere. E introduce un discrimine importante per qualificare e orientare la ricetta corrente a cui mi riferivo all'inizio. Si può intraprendere la produzione di socialità avendo la propria ragion d'essere nella riduzione della separazione tra mondo della produzione e della crescita economica, e mondo dell'assistenza e dei costi sociali, nella ricostruzione di relazioni sinergiche tra i due mondi. Di questo appunto si tratta quando parliamo d'impresa sociale.
Oppure si può fare impresa sul sociale, sul vuoto sociale che cresce nella separazione tra quei due mondi, e prosperare su questo - o molto più spesso limitarsi a sopravvivere economicamente - e fare di questo già un risultato soddisfacente.
Nulla di male, per carità, basta sapere ciò che si sta facendo.