Impresa & Stato n°37-38
L'IMPRESA "VIRTUOSA"
Una fenomenologia dell'impresa sociale.
I vincoli esterni, le caratteristiche, i comportamenti.
E i rischi di degenerazione
di
CARLO
DONOLO
Per interpretare
il fenomeno dell'impresa sociale parto dalla constatazione di due processi
complementari. Da una parte, l'impresa (la grande e media impresa operante
su mercati globali competitivi) perde o rinuncia sempre più al suo
radicamento sociale; dall'altra, lo stato si ritrae da una serie di funzioni
sociali. Per l'impresa la perdita di "socialità" deriva dal fatto
che non può farsi più carico di costi e vincoli locali che
l'impaccerebbero indebitamente nella competizione globale. Per lo stato
la rinuncia a una presa diretta (specie tramite le politiche dello stato
sociale e regolativo) dipende dalla crisi fiscale endemica che lo tormenta.
In questo quadro c'è da chiedersi cosa avvenga nell'area delle
forme d'impresa che finora hanno saputo valorizzare il legame sociale come
risorsa organizzativa e produttiva. Se la sociologia dell'organizzazione
non è tutta un equivoco, si può pensare che - sia nei distretti
industriali all'italiana (così accuratamente studiati da Becattini,
Piore, Sabel, Trigilia, Bagnasco & co.) sia nelle imprese del capitalismo
"confuciano" o giapponese in realtà da tempo sia in atto la sostituzione
delle originarie risorse integratrici (municipalismo, localismo, integrazione
sociale tramite subculture, rapporti fiduciari...) con loro equivalenti
funzionali di tipo sociotecnico. La grande modernizzazione che ha investito
queste aree e forme ha eroso i mondi vitali e ha lasciato dietro sé
solo due strumenti di integrazione (e compensazione): il denaro e il potere
(legittimato a sua volta o da complesse articolazioni gerarchiche nelle
organizzazioni e nelle reti o da imperativi autoritari di potere e di potenza:
per l'impresa e per lo stato. Nella situazione che va così strutturandosi
(e che Piore ha accuratamente ricostruito nel caso degli USA) si delinea
un conflitto tra domande sociali e vincoli economici. Ovvero si amplia
il territorio sociale lasciato "scoperto" dall'impresa asociale e dallo
stato post-sociale. Ci sono, cioè, domande (bisogni, esigenze, diritti)
non soddisfatte dal modello prevalente di attività economica e di
attività amministrativa. Ci sono anche, e in parte di conseguenza,
risorse non valorizzate dai modelli egemonici di stato e di mercato. Infine,
anche se proprio qui sta la crux della questione, impresa e stato si rivelano
non più in grado di garantire la riproduzione dei beni comuni o
risorse generalizzate senza le quali la vita sociale non è possibile
(e che vengono continuamente divorate nel processo economico o sprecate
e degradate nei processi amministrativi).
FUGA DAI VINCOLI?
Diamo per un momento scontate le grandi potenzialità di questo
territorio in gran parte ancora in via di strutturazione: come capacità
di soddisfare domande di qualità sociale, di integrazione e socievolezza,
ed anche di produrre ricchezza; più ancora: di contribuire a risarcire
l'eccesso di consumo, nei processi economici dominanti, dei commons ambientali
e morali. Occorre precisare - per definire meglio il contesto in cui anche
la questione dell'impresa sociale va posta - in cosa consista il "vincolo
economico" (economic constraint nella terminologia di Piore). Da laico
dell'economia a me il vincolo sembra presentarsi sotto due profili: uno
è quello della competizione globale, l'altro quello della "stabilità"
monetaria. Le imprese che operano globalmente si sottraggono il più
possibile a vincoli locali (regolazioni restrittive per l'uso della forza
lavoro e delle risorse ambientali); ciò che è locale, e lo
sono tutti i beni legati a un territorio con una storia, può essere
usato, maltrattato, corrotto, comprato, aggirato, in nessun caso ricompensato
o risarcito. Il compito di provvedere ai disastri sociali viene lasciato,
ma in un regime di risorse decrescenti, allo stato: che procede o con le
buone o con le cattive, e per lo più tappandosi il più possibile
occhi ed orecchie. Lo smantellamento dello stato sociale avviene non solo
per ragione di costi eccessivi, ma anche perché le politiche regolative
e redistributive costituiscono vincoli impropri nella competizione globale.
Il vincolo della "stabilità" monetaria (stabilità deve
andare sempre tra virgolette perché in mercati finanziari globali
non ci può che essere turbolenza ed instabilità croniche)
consiste nei controlli da esercitare sui nessi tra tasso d'inflazione,
tassi d'interesse e debito pubblico. Il vincolo sotto entrambi i profili
ha pesanti costi sociali. E ciò vale anche per "Maastricht" presa
come epitome della razionalità di ogni vincolo monetario finanziario.
Il costo non è solo in termini di livelli di vita per gruppi determinati
della popolazione, ma anche per la natura del legame sociale: diventa sempre
più difficile produrre integrazione e consenso con gli strumenti
della politica e della legislazione. Nell'erosione del legame sociale (che
ha tanti aspetti: dalla crescita dei comportamenti illegali, alla conflittualità
tra gruppi, dal localismo esasperato del si salvi chi può all'evasione
fiscale...) è riconoscibile il degrado accelerato dei beni comuni
e la banalizzazione economicistica della nozione di bene pubblico.
Per non parlare di impresa sociale in termini apologetici, non intendo
però contrapporla ai processi economici dominanti come il bene al
male. Anzi, ritengo che la questione dei vincoli economici (per l'Italia
sia quelli della competizione globale sia quelli del "restare in Europa")
vada presa con la massima serietà. é indispensabile per l'Italia
- anche sotto il profilo politico ed istituzionale - rispettare ed onorare
tali vincoli. Tuttavia i vincoli non sono la soluzione, ma il problema.
Per semplicità non tocco qui la questione del rapporto tra vincolo
esterno finalizzato a "restare in Europa" e modi di costruzione dell'unificazione
continentale. Tale questione però sarebbe rilevante per ogni discussione
sulle forme della coesione sociale e della qualità del modello sociale
proposto dall'Europa. Come anche sotto il profilo del consenso che le nazioni
europee possono dare ai processi d'integrazione sovranazionale.
I vincoli come problema evocano il ricorso a risorse addizionali e
diverse rispetto a quelle del mercato e dello stato. Il modello emergente
vedrebbe infatti questa divisione del lavoro: alle imprese e al mercato
la produzione della ricchezza; allo stato la produzione e il controllo
delle regole; agli individui-cittadini associati (nel terreno che un tempo
si chiamava la società civile) la riproduzione dei beni comuni e
quindi la soddisfazione delle domande di qualità sociale. Naturalmente
le cose sociali che, sulla pagina scritta, appaiono ben ordinate nella
realtà sono necessariamente confuse, ambigue e commiste. Inoltre
anche quella divisione del lavoro instabile e potenzialmente conflittuale.
La si può intendere come uno sforzo di differenziazione dopo una
fase storica segnata da miscele - alla fine poco efficienti o poco legittime
- di pubblico-privato, e di società e stato, e di stato e mercato.
Dall'ossimoro stato sociale passiamo a quello impresa sociale. é
solo il sintomo che tra gli elementi disgiunti nella modellizzazione economica
sussistono scambi, transazioni ed interferenze molto ricchi e spesso poco
decifrati. La società esiste proprio perché rende inoperanti
o incongruenti le nette distinzioni fissate nei modelli analitici e normativi.
Un discorso plausibile sull'impresa sociale richiede di collocare questo
oggetto ancora molto slabbrato (ma già tanto conteso tra attori,
settori e poteri) all'intersezione di quei "settori" cui si affetta il
processo sociale, piuttosto che dentro uno specifico. Richiede anche che
si prendano sul serio i vincoli (le economic constraints della competizione
globale e della spesa pubblica, gli obblighi politici e morali di Maastricht
come vincolo esterno) che costruiscono l'ambiente più ampio in cui
anche l'impresa sociale opera. Infine vanno esaminate anche le domande
sociali che eventualmente essa sarebbe in grado di soddisfare. Certo quello
che non serve è un'apologia dell'impresa sociale, cui anche troppo
inducono troppi attori in questo campo, fornendo senza volere alibi sia
al mercato che allo stato.
E' in corso un braccio di ferro politico sulla definizione di
impresa sociale. Dalla definizione che riesce ad imporsi dipendono riconoscimenti,
occasioni, soldi. Tra le forme che si scontrano è facile riconoscere
il mondo della cooperazione, quello del volontariato (spesso posto inesattamente
= associazionismo cattolico), e poi la selva degli attivismi sociali non
facilmente classificabili.
LA RICCHEZZA DELLA VARIETÀ
Ci sono organizzazioni che operano su mercati, su quasi mercati, su
arene politico-istituzionali. Nella realtà c'è un continuum
tra impresa capitalistica ed azione oblativa ed altruistica. Ciò
che conta non sono grandi cesure, ma le specificità che segnano
le transizioni da una forma all'altra. é importante riconoscere
che la ricchezza delle nazioni e il loro benessere dipende in primo luogo
dalla varietà delle forme di azione organizzata disponibili ed operative.
Un'indagine sulle forme d'impresa (una volta riconosciuta la legittimità
e importanza della loro varietà, che va preservata anche con opportuni
interventi regolativi) diventa analisi delle differenze che articolano
il continuum organizzativo.
Per un esame più ravvicinato delle differenze tra tipi o forme
di imprese (volendo sviluppare il conflitto individuato da Piore tra domande
sociali e vincoli economici) trovo rilevanti i seguenti punti.
La distinzione profit-non profit, così importante oggi per gli
aspetti normativi e fiscali, è invece analiticamente poco significativa.
Ogni azione organizzata produce un surplus, diverso è solo il modo
di contabilizzarlo. Spesso si tratta di esternalità positive che
- non riconosciute finiscono per confondersi con i tratti dell'ambiente
o, viste come beni comuni, sono saccheggiate dal primo attore opportunistico
che le incontri. In altri termini, la differenza sta nei criteri di riuscita
o successo adottati per le varie forme. La prima ricchezza, ripetiamo,
sta nella varietà; la varietà a sua volta è funzione
(quasi) diretta del capitale cognitivo disponibile (che è un bene
pubblico). Questo a sua volta è la chiave di volta sia della ricchezza
(come risultato delle capacità innovative delle imprese su mercati
contestabili) sia del benessere sociale (come risultato delle capacità
di cooperazione tra forme d'impresa).
Forse si individua meglio la differenza considerando che ciò
che distingue l'impresa da altre forme è la rilevanza generale dei
criteri e degli imperativi della razionalità di scopo. Si dirà
che è una definizione troppo ampia. Ma noi viviamo in una società
che è fatta altrettanto di organizzazioni ed istituzioni, che di
individui. Per tutti valgono massime di efficienza ed efficacia. E per
questo ogni forma di organizzazione produce surplus (ed esternalità).
Vale la pena rilevare altre e diverse differenze:
per l'impresa sociale assumono centralità le questioni della
razionalità difficile, delle strategie indirette, della riflessività
o razionalità processuale, del senso del limite e dell'etica della
responsabilità. Non che questi aspetti siano assenti o irrilevanti
nel e per l'impresa capitalistica. Ma essa può attenersi a questi
orizzonti solo in quanto ciò risulti funzionale alle sue strategie
di massimizzazione della sua funzione obiettivo e della sua lotta per l'affermazione
sul mercato. Si tratta perciò per essa di oneri e vincoli, di lacci
e lacciuoli, quasi mai di chances e di risorse. Si tratta anche di forme
di azione razionale molto esigenti in termini di tempo, cognizioni, "saggezza"
pratica, autoregolazioni. Tutte cose molto costose, spesso effettivamente
non disponibili. Viceversa l'impresa sociale perde tutta la sua socialità
se intende scrollarsi di dosso questi oneri o non sa trasformarli in risorse.
UNA "CONTABILITÀ" ALTERNATIVA
Lo stesso vale per la valorizzazione consapevole (cioè: riflessiva)
delle risorse virtuali, degli invisible assets. Certo anche l'impresa capitalistica,
specie se vuole o deve innovare, riscopre l'importanza di questi beni,
solitamente trascurati e maltrattati. Quante volte ce l'ha ricordato Rullani,
e magari già il vecchio Schumpeter e Nelson e Winter...Le strategie
di qualità globale puntano esplicitamente alla valorizzazione di
queste risorse implicite. Ma si tratta dell'ennesima variante dell'ossessiva
quest for control delle variabili da cui dipende la profittabilità
o la sopravvivenza dell'impresa. Qualità totale è una contraddizione
in termini che consuma proprio i beni che vorrebbe valorizzare. Viceversa
il capitale dell'impresa sociale è in primo luogo morale: le conoscenze,
capacità e motivazioni dei suoi membri. Essa estremizza quella valorizzazione
del lavoro umano come fonte del legame sociale che anche la cooperativa
scrive nei propri statuti.
Ugualmente stringenti, e radicalmente diversi da quelli dell'impresa
capitalistica, sono di conseguenza anche i criteri di valorizzazione di
tutte le classi di beni comuni e pubblici: dai caratteri del contesto sociale
ed istituzionale alle risorse ambientali. L'impresa capitalistica può
rispettarli solo nella misura che non diventino oneri e vincoli. Si fa
bilancio sociale ed ecobilancio quando proprio ci si è costretti.
Ma è logico: la profittabilità dell'impresa dipende dalla
possibilità di tracciare un confine netto tra voci da calcolare
nei conti e voci trascurabili. Le diseconomie non esistono per l'impresa
finché qualcuno non glielo ricorda. Per l'impresa sociale la valutazione
degli impatti della propria azione sono il primo criterio di giudizio:
maltrattare, anzi non contribuire al risarcimento dei beni comuni, contraddice
la sua missione.
Vi sono quindi anche grandi differenze tra tipi di radicamento sociale:
per l'impresa capitalistica buoni rapporti con il contesto sociale fanno
parte della diplomazia, servono a ridurre rischi e costi. L'impresa sociale
invece considera il radicamento come ragion d'essere, specificamente finalizzato
ad intervenire sull'incivilimento dei rapporti sociali, poiché da
questo processo derivano i beni che impiega come risorsa e riproduce come
risultato. Da questa differenza deriva l'altra: il meccanismo di selezione
per l'impresa capitalistica è il mercato (processi di exit secondo
Hirschman), per l'impresa sociale invece un mix variabile di exit e voice
(voce, protesta), ovvero essa ha problemi di legittimazione sociale permanente,
da cui l'altra è schermata.
Anche gli impulsi degenerativi sono diversi: l'impresa sociale valorizza
talmente la lealtà (Hirschman) dei suoi membri (anche dei suoi clienti)
che può degradarsi a impresa-setta ( come è facile constatare
nel caso dei servizi sociali "terapeutici"). Questa patologia riduce la
varietà delle forme e delle risorse sociali alla sola identificazione
con fini astratti e pratiche stereotipate accompagnate da una solipsistica
ed asociale esaltazione dell'etica dell'intenzione. Ma "responsabilità"
è la parola chiave dell'impresa sociale se vuole differenziarsi
chiaramente sia da quella capitalistica che dai riti delle sette. Questo
degrado degli attori, delle risorse, della missione, ed anche dell'organizzazione,
è la controparte della strategia del controllo totale sulle risorse
perseguita dall'impresa capitalistica.
RISORSE VIRTUALI, IMPRESA VIRTUOSA
Sulla base di queste sommarie indicazioni si potrebbe delineare un
idealtipo di impresa centrata sulla valorizzazione di risorse virtuali
(morali, cognitive, ambientali): l'impresa "virtuosa". Essa come ogni organizzazione
ha confini rispetto al contesto o ecosistema sociale. Ma il lavoro sui
confini, e quindi sul limite, fa parte della sua missione, del suo oggetto
sociale. Anch'essa genera esternalità negative e consuma beni comuni.
Neppure essa può garantire che ci sarà un surplus di beni
rispetto ai mali prodotti. Piuttosto dovrà badare che il mix locale
dei suoi impatti negativi e positivi stia in una connessione razionale
e riconoscibile con il risarcimento possibile a livello globale. Per questo
deve essere riflessiva e deve "spiegarsi" al suo pubblico. In definitiva
ci si può chiedere se non ci vorrebbe un nuovo Schumpeter per spiegarci
in cosa consiste un entrepreneurship of virtualities. Forse qui troveremmo
le forme di ragion pratica adatte a un'epoca postmoderna, mosse non (solo)
da spiriti animali, ma anche dall'intelligenza delle cose (già ora
o domani) possibili.
Per tutte queste ragioni, per le sue virtù, l'impresa sociale
è una formazione sociale instabile e precaria: tende sempre a trasformarsi
in setta o in impresa capitalistica. O in gruppo politico. Quasi tutto
dipende appunto dall'intelligenza dei suoi operatori. Molto anche dalla
natura dell'assetto istituzionale e delle regolazioni in cui è inserita.
L'impresa sociale è una specie esotica, anche perché nasce
spesso per "tappare buchi", fare supplenza, curare mali cronici, salvare
il salvabile, recuperare l'irrecuperabile, proteggere beni impalpabili
e sempre a rischio. In un mondo di bestioni jurassici il suo valore sta
nella leggerezza, fino al limite del virtuosismo. Che questa stravaganza,
frutto della densità dei beni virtuali di una società fin
troppo avanzata, sia possibile e possa sopravvivere dipende molto anche
dai rapporti che essa (solitamente) intrattiene contemporaneamente su mercati,
quasi-mercati ed arene politiche-istituzionali. Qui cade opportuna qualche
considerazione più critica.
L'impresa sociale come impresa virtuosa e/o di beni virtuali è
certamente un'immagine astratta e normativa. Ma l'impresa capitalistica
dei testi di economia non lo è meno, anzi è solo più
ipocrita (Schumpeter ed anche Keynes si sono divertiti un pò a smascherarne
il perbenismo). Abbiamo voluto segnare differenze, specificità,
tendenze, pur tenendoci dentro un continuum organizzativo. Tuttavia - almeno
nel contesto italiano - ci sono molte questioni aperte e ci sono anche
tante pratiche dell'impresa sociale poco soddisfacenti. I limiti maggiori
che io vedo nell'esperienza fatta finora sono: ci sono troppe lobbies,
troppe sette e troppo poco movimenti; ci sono anche troppi abusi di posizione
dominante (per lo più eredità delle pratiche della I Repubblica),
poca trasparenza, troppa vicinanza a poteri politici, troppa dipendenza
istituzionale e da risorse pubbliche. I mali endemici della nostra società
toccano anche l'impresa sociale. I meriti ci sono, eccome, ma essa è
l'ultima che può usarli per vantarsene. Nella nostra società
c'è già troppa retorica e irresponsabilità comunicativa.
Viceversa, il mondo dell'impresa sociale comunica poco e male con il
resto della società. Prima chiuso a difesa e poi settorializzato,
infine sbattuto in prima pagina e coccolato, di fatto il suo ruolo nella
formazione dell'opinione pubblica (inteso come contributo alla risocializzazione
delle preferenze di cittadini, degli utenti e dei consumatori, e come aiuto
a tematizzazioni più adeguate almeno delle questioni socialmente
rilevanti) rimane troppo inarticolato e poco incisivo.
E allo stesso modo, la capacità di contribuire alla genesi di
buone istituzioni, specie a livello locale, è stata limitata, e
forse anche impedita proprio dall'eccesso di supplenza o di coabitazione
opportunistica con le istituzioni pubbliche.
Ora il mercato, come ideologia, è il nuovo idolum fori, e tutto
ciò che è pubblico e statale sa di brutto e di vecchio. Così
l'impresa sociale viene stanata, dai fatti reali, dalla nicchia ecologica
del terzo settore e dal lirismo apologetico del privato sociale. Speriamo
che riesca a fare e dire qualcosa a tutti, prima di morire schiacciata
sotto il monte d'oro dei fondi comunitari, dei vari giubilei e degli appalti
delle funzioni dello stato sociale in smantellamento. E dalle incipienti
lottizzazioni della II Repubblica.
Si può dire in due parole: ciò che conta è la
varietà delle imprese. Sarebbe il suicidio dell'impresa sociale
se contribuisse, con le proprie inadempienze o con malposti successi, a
quel processo di riduzione della varietà delle ragioni e delle razionalità
sociali che ci minaccia da vicino.
BIBLIOGRAFIA
-
M. Piore, Beyond individualism, Harvard UP, Cambridge 1995.
-
Donolo-Fichera, Le vie dell'innovazione, Feltrinelli 1988.
-
L. Manconi, Solidarietà, egoismo, Il Mulino, 1990.
-
O. De Leonardis ed a., L'impresa sociale, Anabasi 1995.
-
C. Donolo, Il sogno del buon governo, Anabasi, 1993.
-
P. Perulli, Globale/locale, Angeli 1993.
 
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