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Impresa & Stato n°36

LA NUOVA RAPPRESENTANZA
NELLA SOCIETÀ GLOBALIZZATA

di
GIULIO SAPELLI

La rappresentanza degli interessi attuata attraverso le associazioni è solo il primo passo verso un più ampio pluralismo, per costruire una nuova sovranità "funzionale".

La questione del rinnovo dei Consigli delle Camere di Commercio italiane, regolate dalla Legge n. 580/93 offre spunti di grande interesse allorché la si colloca nel contesto del generale orizzonte della ridefinizione della forma della nostra organizzazione statale e della tipologia della nostra rappresentanza degli interessi.
In questo contributo mi concentrerò sul problema dal punto di vista del suo configurarsi analiticamente a partire sia dalle rappresentanze degli interessi dominanti economici, sia dai problemi che esse pongono alla riproduzione del pluralismo in una società di massa tendenzialmente a collusione anziché a competizione dei poteri, dominata dalle organizzazioni, anziché dalle libertà del diritto soggettivo e dalla selezione meritocratica. E per questo mi pongo, a partire dalla nostra identità di nazione, ma non soltanto da essa, la seguente domanda: la proprietà e la sua distribuzione non di mercato, ma invece pervasivamente ascritta (per eredità o per reciprocità occulta e invisibile) può essere ancora considerata portatrice di una condizione di dominio differenziale e privilegiato nel costituirsi dell'essere sociale? Il mio assunto è che, pur se in forme e gradi altamente differenziati, la risposta a questa sia positiva. E a partire da questa positiva risposta intendo procedere. Tutte le borghesie, e quelle italiane prima di molte altre, necessitano naturalmente della mediazione statale per affermare, prima che rappresentare, i propri interessi. La prova di ciò è nella storia. Alle borghesie, e quindi alle imprese italiane, lo Stato trasferisce potere e possibilità di riperpetuare l'ascrizione dei diritti di proprietà, anziché la loro allocazione di mercato: "le azioni si pesano e non si contano" come disse un demiurgo prima occulto, e poi via via sempre più visibile di questo intreccio. Un demiurgo che è l'incarnazione della transizione da una vecchia (invisibile) a una nuova (visibile) forma di neo-patrimonialismo. Tutto ciò è benissimo evidenziato dalla storia dell'intervento pubblico in economia prima della seconda guerra mondiale e dalla vicenda di Mediobanca nei tempi a noi più recenti. Ma l'antico meccanismo di potere invisibile sta consumandosi ed estinguendosi: in primo luogo per choc esogeni. E qui sta la sostanza tutta intera della transizione in corso, che non potrà non interessare anche forme e sostanze della rappresentanza degli interessi proprietari.

LO STATUTO SPUNGIFORME E I SUOI ARCANI
Discutere delle borghesie è, quindi, esercizio per eccellenza e per antonomasia rivolto allo studio del potere come specifica forma del dominio sociale contemporaneo, che si articola e si dipana tra l'economia e la politica, ora sotto le vesti, ora dietro le apparenze, ora, e molto più spesso, nelle interazioni con le architravi istituzionali della democrazia italiana: perché qui è l'"arcano" dello "Stato spungiforme". Lo "Stato spungiforme": ossia quello Stato che è lo specchio della nuova "formazione economico-istituzional-sociale" che si va formando sotto i nostri occhi e che ci ostiniamo a non studiare, cullandoci con gli utopismi democratico-formali delle regole, anziché nutrirci della sostanza dell'utopia della democrazia come forma sociale e quindi inveramento "materiale" (come è e può essere delle costituzioni) delle regole stesse. "Stato spungiforme" che è stato ed è, insieme, mercato; così come il mercato è, nello Stato spungiforme, insieme, Stato: contestualmente e sempre.
Osmosi tra Stato e mercato dove proliferano le cosiddette autorità indipendenti, ossia i custodi della frammentazione del potere di regolazione dei mercati, custodi sottratti alla legittimità parlamentare ma pur produttori di norme e di provvedimenti: solo controllati dal potere giudiziario, che anch'esso è sottratto a ogni legittimità democratica. Si amplia in tal modo l'area della società regolata dalla legalità autoreferenziale e alveolare, dove concorrenza o regolazione sono di volta a volta impiegate dalle statualità emergenti (esempi innumerevoli sono nelle discipline comunitarie strumentali a fini di integrazione) per perseguire fini sottratti a ogni razionalità dialogico-democratica in senso habermasiano. Ciò che ci impediva un tempo di cogliere immediatamente l'arcano dominio dello Stato osmotico e alveolare era l'invisibilità del potere, nel suo stesso porsi e nel suo stesso farsi.
Oggi, per la crisi dilagante dell'obbligazione politica e per la lotta fratricida tra i poteri dello Stato e del mercato, l'invisibile si fa visibile: è un effetto controintuitivo della lotta tra poteri, nella caduta rovinosa dei sistemi di autorità e quindi della reciproca deferenza. Viene così alla luce una sorta di neo-corporativismo pluricefalo, dove i poteri lottano senza ricomporsi, perché essi vogliono autodotarsi delle prerogative dello Stato medesimo e insieme delle libertà della società civile.
Ma sono l'uno contro l'altro armati, nel crollo della cuspide dell'obbligazione politica della sovranità generale. Un mostro (e alla vista le anime belle democratiche si stupiscono e arrossiscono e stanno male di stomaco), appare per il gran dibattersi a cui ora s'assiste nelle acque limacciose un tempo immote... Le acque dove un tempo respirava e s'immergeva tranquillo e... invisibile il portatore del biblico caso:
Beehmoth; che ora, invece, appare e spaventa.
Perché qui è l'arcano di un mercato che tutto è: salvo che la "mano invisibile" in cui credono gli ingenui o... i furbi di turno. Perché qui è l'arcano della morfologia degli interessi e delle decisioni. Il tutto in una trasformazione della sovranità e della legittimità ormai senza più impedimenti e senza precedenti, che ora appare sotto i nostri occhi.
Tale trasformazione promana sia dal basso, ossia da quell'intersezione "spungiforme" sopraddetta, sia dall'alto, ossia dal configurarsi, ormai, degli Stati nazionali come sub - sistemi condizionati e dipendenti, anziché come sistemi autoreferenziali.
E non solo per la globalizzazione economica anch'essa importante, ma in primis per il processo espropriativo di competenze decisionali proprio del meccanismo dell'unità europea (come si usa definirla utopisticamente), che costruisce poteri senza legittimazione, legalità senza autorità.

L'INCUNABOLO DELLA NUOVA SOVRANITA'
La mia convinzione è che la Legge n. 580/93, quando si guarderà a essa, anche da parte dei più, dall'alto della visione storica, è una delle tantissime manifestazioni delle ultime resistenze che le società "osmotiche", fondate su quell'intreccio tra Stato e mercato mediato dal potere collusivo delle organizzazioni, oppongono alla globalizzazione dell'economia e della società.
Globalizzazione che segnerà, se sarà in grado di beneficamente realizzarsi, il definitivo passaggio alla finalmente dispiegata modernità capitalistica. La ragione fondamentale di quella convinzione risiede nella disposizione (l'articolo 12 e il suo comma 1) che organizza la partecipazione delle imprese ai consigli camerali tramite la designazione da parte delle organizzazioni di rappresentanza delle medesime. Le organizzazioni, quindi, e non la "cittadinanza" d'impresa e le imprese, divengono, di fatto, i veri costruttori della mediazione che si configurerà tra Camera di Commercio e imprese e mercati e regole dei mercati.
Democrazia delegata? No. Democrazia dimidiata e non volontà di affermare il principio funzionale nella sua intierezza e, insieme, nella nuova forma che la situazione del pluralismo competitivo richiede. La prima di queste "capacità-condizione" sarebbe stata quella di non farsi paralizzare dalla legge decisoria dell'unanimità. Infatti, come è noto, la vera differenza tra territorialità e funzionalità nella e della rappresentanza risiede nei meccanismi decisori che a queste due forme possibili di costruzione delle sovranità fanno capo. L'unanimità è tipica delle procedure corporative, dove gli interessi non si contano, ma si... mediano, sino al raggiungimento dell'unanimità, anziché del rispetto delle regole del principio di maggioranza. La mediazione delle organizzazioni, infatti, (e le organizzazioni nominano, cooptano, designano senza procedure che non siano di fatto unanimi e quindi in definitiva designanti candidati frutto di accordi e di scambi di risorse e di influenze) evita l'affermarsi della legge dei grandi numeri e del principio di maggioranza: se le imprese votassero attraverso le volizioni dei loro proprietari o dei loro dirigenti delegati, la volontà delle piccole imprese schiaccerebbe ogni altra volontà, ché le imprese grandi e medie son dotate di possenti poteri situazionali di fatto, ma di debolissimi poteri elettivi numerici.

DEMOCRAZIE E MERCATI IN DEFICIT DI LIBERTA'
Parlar di "democrazia d'impresa" è quindi improprio: si parli, piuttosto, di meccanismi di cooptazione di organizzazioni e tra organizzazioni. Son semmai le organizzazioni a poter disporre di volontà deliberative democratiche.
Nel caso delle rappresentanze imprenditoriali, tuttavia, la legge dei grandi numeri e del principio maggioritario non può, come è a tutti noto, porsi, pena il decadimento della capacità di mediazione degli interessi dell'organizzazione stessa.
Dovrebbe dirsi chiaramente, allora, che le imprese sono incapaci, come corpo elettorale, di superare l'impasse in cui si era caduti nel periodo fascista: il restringimento dello Stato amministrativo nella camicia di forza dello Stato del partito unico, a cui, non a caso, ha fatto poi seguito lo Stato dei partiti che organizzano la democrazia. Quello Stato, nella sua configurazione spartitoria tra partiti e associazioni di rappresentanza degli interessi garantiva la mediazione, con unanimi accordi, tramite transazioni e scambi di risorse tra partiti e tra organizzazioni e, per questa via, tra Stato e imprese.
L'articolo 12 della Legge n. 580/93 è il disvelamento e, insieme, la negazione della capacità possibile delle imprese, come espressioni della cittadinanza economica della società civile, di ovviare allo schiacciante predominio delle piccole imprese tramite princìpi regolamentari e non legislativi. Questi ultimi, come ben dimostra l'articolo 12, a differenza di accordi autonomi dalla legiferazione, mortificano l'autonomia delle strutture della società civile, declassandola a puro coacervo di enti e di associazionismi incapaci di raggiungere la mediazione e la decisione della politica.
La democrazia è, per l'appunto, la faticosa fuoriuscita dal magma dell'immediatezza degli interessi tramite l'obbligazione e l'identificazione. Quella mediazione e quella decisione sono affidate, nella legge di cui qui si discorre, non al comporsi magmatico e democratico delle imprese volta a volta aggregantisi in programmi - come accade per esempio nella Spagna democratica di oggi (e di ieri...) per l'elezione dei rappresentanti imprenditoriali nel Consiglio delle Camere di Commercio - ma, invece, alla designazione delle organizzazioni. Esse occupano una volta per tutte la scena dell'agone che non è più, a questo punto, competitivo, quanto, al contrario, collusivo e, in definitiva, ancora, spartitorio. Quanto siamo lontani dal rovello che accompagnò l'epoca giolittiana! Il fascismo ha veramente segnato non tanto la fine di un'era, ma l'avvento dell'irreversibilità dell'osmotica compenetrazione tra gerarchie e mercati, che da allora liberi non sono più. Come, del resto, non sono più "libere" le democrazie. La riforma camerale inscritta nell'avvento del liberale suffragio universale del 1913 affidava, infatti, la mediazione tra principio di maggioranza e principio della rappresentatività alle imprese stesse, in rapporto, certo, con le loro associazioni, ma non tutte sovradeterminate da queste, che, del resto, erano appena ai loro albori. Si impediva in tal modo, appunto, la dittatura della maggioranza, grazie al ripristino delle quote di rappresentanza elettorale, ma senza mediazioni e spartizioni associative che non fossero quelle "oggettive" che anche la Legge n. 580/93, del resto, bene esplicita, pur essendo il risultato di tutta un'altra cultura: quella "osmotica", appunto (che era ed è sempre meglio, come vedremo, di quella autarchica statocratica di stampo fascista). L'equilibrio delle rappresentanze, a cui si lavorò da parte delle Camere di Commercio e dell'Unioncamere dal 1919 al 1924, era il frutto di un grande progetto istituzionale diretto a costruire una democrazia degli interessi attraverso una rappresentanza funzionale non anti-statale, quanto, invece, pre-statuale e promanante dalla società civile, anziché dalla prussiana protervia dello Stato piramidale, ordinatore verticistico e imperiale degli interessi. La dittatura statocratica bloccò quel tentativo, di cui nulla sopravvisse.Con lo Stato del partito unico giunse la pietrificazione della rappresentanza: l'organizzazione si fece sistema e tutto si trasmutò nel controllo dall'alto della spartizione degli interessi e quindi delle risorse.
Per certi versi la repubblica della guerra fredda e quindi della non competizione economica e politica fece della riforma fascista di necessità virtù e il male non poté che incancrenirsi, sino a quando non sopravvenne la capacità del sistema medesimo di iniziare l'autoriforma: caso pressoché unico nello Stato osmotico. Non si sottolineerà mai abbastanza questo straordinario, "anti-italiano", processo di rinnovamento endogeno... Ma ancora si trattò, e si tratta, di una innovazione troppo timida. Per questo la cultura "osmotica" che ha dato vita alla riforma camerale della 580/93 è stata un gran passo innanzi e la si è vista come una liberazione.

COMPETENZA E MERITO
PER GOVERNARE IL CAMBIAMENTO
Ma il passo è stato, lo ripeto - per quel che possa valere o interessare questa affermazione in una società che apprezza il consenso molto più del dissenso (quale che esso sia) - troppo breve: i ceppi spartitorii sono ancora forti.
La possibilità, invece, di far votare con pesi e contrappesi le imprese in forma immediata e diretta, se attuata, introdurrebbe un principio di pluralismo istituzionale rappresentativo benefico e supererebbe il monismo rappresentativo associativo imprenditoriale.
In effetti è la stessa questione che si pone nel campo del sindacalismo dei prestatori d'opera, dove vige il monismo della rappresentanza a tutti i livelli: solo l'autonomia collettiva incarnata dai sindacati e nulla più, impedendo ai singoli lavoratori di associarsi in meccanismi di rappresentanza extra sindacali, come accade, come è noto, nel caso della Mitbestimmung tedesca.
Questa monistica configurazione della rappresentanza ha da sempre impedito ogni flessibile e più avanzata articolazione del diritto di impresa, sul modello tedesco. Quel modello che tanti risultati economici, democratici e civili, ha raggiunto, grazie al pluralismo della rappresentanza (sindacale, da un lato, e libera, dei fiduciari di fabbrica eletti al di fuori delle liste sindacali, dall'altro).
Il monismo della rappresentanza imprenditoriale non potrà che esacerbare, in futuro, la competizione tra Camere e associazioni imprenditoriali. E le imprese non potranno che sentire come intollerante una duplice affiliazione che tutta si dipana per la via delle sole associazioni imprenditoriali. Non c'è retorica delle competenze e delle funzioni che tenga. Veramente la società si fa ancora troppo collusiva. Ma la collusività è determinata da un basso grado di istituzionalizzazione delle rappresentanze degli interessi e insieme da un basso grado di liberazione competitiva dei medesimi: debbono essere le imprese a scegliere chi deve rappresentarle nel delicatissimo organismo che segna il crocevia tra Stato, mercato e nuove forme della democrazia, tra principio funzionale e principio territoriale. Questo pluralismo della rappresentanza è alla base della ricostruzione di una nuova forma della sovranità che sia tanto territoriale quanto funzionale, senza gerarchie fisse e deterministiche tra le due forme della legittimità. In effetti la legittimità territoriale appare, ora che siamo nel fuoco della mondializzazione del capitalismo, più un retaggio del passato agrario delle nostre società: uomini fermi e paesi inchiodati dal basso orizzonte della terra, piuttosto che uomini mobili e città e campagne trasformate dalla trasmigrazione dei capitali che corrono dietro al tasso di profitto e tutto trasformano. Il principio funzionale, come forma della rappresentanza e della legittimità può rivelarsi molto più pertinente di quello territoriale per la elaborazione della nuova sovranità. Certo in forma non esclusiva e determinante, ché la legge di maggioranza è un principio determinante della modernità democratica della forma sociale. Ma il principio funzionale è insieme il disvelamento degli interessi non più occulti e il temperamento dell'uguaglianza livellatrice del voto che conduce al plebiscitarismo e che i partiti, da soli, non sono più in grado, nella società globalizzata, di temperare.
Il principio funzionale deve, invece, essere temperato dai princìpi delle competenze e del merito e quindi degli ordini e della élites legittimate solo dai risultati raggiunti e non dalla scelta che fanno le plebi della modernità, che van pur rispettate ma non blandite. Merito e competenza son sempre più strumenti necessari per governare la società in cambiamento, a differenza di quanto accadeva nel mondo dell'ascrizione delle società statiche.