Impresa & Stato n°36
VITTORIO FOA: AUTONOMIE SI'
MA PRIMA LA DEMOCRAZIA
di
RENATO MATTIONI
Come evitare che la rottura del centralismo crei meccanismi
di esclusione e di minore democrazia. Il rischio di tornare al partito
autoreferenziato.
Parlare di autonomie
con Vittorio Foa significa riprendere il filo di un discorso che sta alla
base della nostra democrazia. E il discorso procede sul border line
delle istituzioni e della politica, riprende quei temi delle forme della
democrazia moderna, dei meccanismi della rappresentanza istituzionale,
economica e sociale, e dei criteri di funzionalità della Pubblica
amministrazione che sono stati di sovente sottovalutati.
Parlare di "autonomie funzionali" significa andare oltre l'idea
di un assetto istituzionale che si fonda esclusivamente sulla democrazia
elettiva di "una persona un voto". Vuol dire percorrere quella
strada che dal centralismo porta al policentrismo e dal governament
alla governance.
Per la verità non è un discorso recente questo. Proprio Vittorio
Foa negli anni della Costituente discuteva con Leo Valiani del ruolo di
autonomia funzionale di istituzioni come la Banca d'Italia, sostenendo
tra l'altro:
«Vi sono cioè dei princìpi che trascendono, per così
dire, la vicenda legislativa normale, ordinaria, che fa capo alla rappresentanza
classica e che devono trovare espressione. (...) Secondo me, le forme di
rappresentanza diverse dalla rappresentanza elettiva sono molteplici, si
trovano in alto e in basso. Oggi potremmo anche pensare a delle forme di
autonomia che diano vita a regolamenti di carattere internazionale che
vincolino e limitino il potere dello Stato nazionale».
I&S: Foa, possiamo partire da questa sua affermazione
per parlare delle "autonomie funzionali"?
Foa: Certo, il tema delle autonomie funzionali è senza
dubbio emergente. Vale la pena però fare una premessa e riflettere
su una prospettiva di lungo periodo.
Credo che la democrazia rappresentativa, con la cittadinanza delle libertà
(civili, politiche, ecc.) rappresenti, nonostante tutto, la soluzione più
convincente contro ogni tentativo autoritario. Dico di più, proprio
il nostro secolo ha confermato l'assoluta necessità di una tale
soluzione che non può essere vulnerata o indebolita.
Certo, fin dall'inizio del Novecento si è valutata l'insufficienza
del quadro strutturale della democrazia elettiva. Basti ricordare l'emergere
di tutti quei "pensieri forti" che hanno messo in luce l'illusione
di un reale potere popolare: penso - solo per limitarci al panorama italiano
- a Gaetano Mosca e ai processi "autonomi" di formazione delle
élite.
I&S: E le autonomie?
Foa: Appunto, rappresentano l'altra parte del ragionamento.
La democrazia elettiva si è indebolita anche per le richieste di
spazio da parte del sistema delle autonomie, sia politiche che amministrative
che legate ai rapporti sociali. Dobbiamo tener conto, però, come
il tema dei limiti della democrazia sia anch'esso attualissimo: è
in atto uno sviluppo molto forte di altri centri di potere, dobbiamo stare
molto attenti a non svalutare la democrazia rappresentativa. Se penso a
quella che viene chiamata "democrazia economica" come elemento
contrapposto alla democrazia politica rappresentativa, pavento un pericolo
che ho sempre avvertito nelle chiusure di carattere corporativo.
I&S: Cioè...
Foa: In altri termini, occorre non esasperare i limiti della
democrazia rappresentativa e, invece, riconfermare l'idea del primato della
politica.
I&S: Puntare sulle autonomie non significa indebolire
il primato della politica, anzi...
Foa: Certo, ma dobbiamo avere chiari in mente i processi che
sono legati allo sviluppo delle autonomie e dei poteri decentrati. A tale
riguardo vorrei mettere in luce alcuni aspetti che ritengo importanti.
Il primo è che assistiamo a un fenomeno parallelo e in qualche modo
convergente a quello delle autonomie politiche che si è verificato
nel mondo della produzione e del lavoro. Penso al processo di decentramento
delle responsabilità nell'impresa con il riconoscimento dei centri
di decisione nella periferia. In effetti, l'illusione - propria di tutti
gli anni Ottanta - di poter governare la produzione in modo completamente
automatico è sfumata in questo nostro decennio: è tramontata
ossia l'illusione - l'ennesima - di incorporare nel computer tutte le possibili
variabili del contesto e dell'ambiente. L'informatica calata senza intermediazione
nella produzione e nell'organizzazione del lavoro, che sembrava risolvere
tutto sul piano tecnico, ha finito per portare risultati troppo rigidi.
Oggi vi è una tendenza molto diffusa a sollecitare un sapere che
si forma anche nell'azione, nel momento fattuale, tanto da dover tener
conto di un sapere latente degli individui inserito nell'iniziativa creativa.
Ciò significa dare meno enfasi alla macchina e molto più
potere alla creazione. Un fenomeno che produce effetti a tutto campo nelle
relazioni industriali: prendiamo, per esempio, il tema del lavoro per quelle
imprese che decentrano la produzione all'esterno. Si tratta, a ben considerare,
del prevalere di un tipo di lavoro frazionato e precario che finisce per
creare problemi molto seri. Anche nel campo del lavoro, allora, come in
quello politico e amministrativo, si verifica una rottura degli schemi
gerarchici.
I&S: E questa è un'evoluzione positiva nel processo
di rafforzamento di una democrazia partecipata, no?
Foa: Indubbiamente nella rottura della gerarchia vi è
un enorme potenziale di progresso. Ma vi è anche un potere di esclusione.
Mi spiego: quanto più un soggetto ha la possibilità di affermare
se stesso tanto più esiste il pericolo che la sua affermazione diventi
esclusione di altri. Allora il problema si fa complesso e tocca il tema
della responsabilità verso gli altri, verso il contesto.
Questo secondo me è un punto da chiarire: nel momento stesso in
cui si rompe la gerarchia tradizionale del centralismo statale a favore
del decentramento dobbiamo renderci conto che allo sviluppo di queste autonomie
locali e funzionali può corrispondere anche una negazione ed esclusione
di altri soggetti. E ciò può comportare il maturarsi dei
conflitti e l'indebolimento della portata partecipativa del tessuto democratico.
Ho inoltre un'altra preoccupazione. Con l'affermazione di elementi non
centralistici ho qualche dubbio che si sia rafforzato il potere decisionale,
ad esempio, delle parti sociali (penso alle confederazioni dei datori di
lavoro e sindacali). La mia impressione è che il rafforzarsi dei
processi di decentramento e periferizzazione comportino ulteriori elementi
di crisi per imprenditori e sindacati. In questo senso vanno considerate
le prese di posizione degli ultimi tempi di Confindustria: credo che ci
sia un diffuso nervosismo dovuto alla perdita di un certo tipo di controllo
sociale che era assicurato da una organizzazione coerente con la struttura
della grande industria familiare. E sul piano sindacale i problemi si pongono
in modo non molto diverso.
Un altro rischio lo intravedo nel fatto che a questa spinta alla rottura
della gerarchia viene contrapposta, in tema di riforma istituzionale, una
tendenza presidenzialista. Individuo, cioè, nel presidenzialismo
un forte elemento di resistenza allo sviluppo autonomistico, tale da spingere
verso una riconferma dell'organizzazione centralistica dello Stato, al
rafforzamento della burocrazia e a tutti i mali prodotti nel corso di questo
secolo. Che è poi, sotto sotto, un tentativo di tenere in vita il
partito come struttura centralizzata e il sistema proporzionale che anima
e legittima lo stesso sistema storico di partiti. Proprio il partito politico,
secondo me, è forse uno dei maggiori strumenti verso cui il centralismo
si consolida e si perpetua.
I&S: Ma nel processo di affermazione delle autonomie vede
solo rischi, dunque?
Foa: No. Certo che no. Credo che porre il problema delle autonomie
e della riforma dell'amministrazione come problema assolutamente primario
è molto giusto. Bisogna stare attenti però che questo problema
interferisce profondamente anche con quello che avviene nel dibattito politico.
Ho l'impressione che vi sia in atto un chiaro tentativo di rivalutare l'idea
tradizionale dello strumento-partito. Invece di spingerlo all'orizzonte
dell'azione politica per mettere al centro il progetto politico, si finisce
per produrre un partito autoreferenziato, che lavora per sé, che
si costituisce come potere autonomo di negoziazione sociale. Ed è
questo, davvero, uno dei principali rischi per l'affermazione delle autonomie.
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